La Cintia/Atto IV
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Atto III | Atto V | ► |
ATTO IV.
SCENA I.
Pedofilo, Erasto.
Pedofilo. (Sto con animo assai travagliato dal fatto di Amasio mio figliuolo. La notte passata è scappato di casa, poi l’ho visto venir tutto turbato: l’animo mio s’incontra alcun male! ...).
Erasto. (Son venuto rissoluto per uscir di fastidio; e sará meglio arrossir una volta e scoprirlo che tenerlo secreto e impallidir mille volte il giorno e soffrir mille indignitá. ...)
Pedofilo. (... Vo’ manifestar al mondo che sia maschio e ritornarmene a Bologna, poiché intendo che la parte guelfa nostra nemica è giá dipressa e annichilata).
Erasto. (... E vo’ dirgli che siamo sposati di nascosto e sia pregna di me, ché non penso sará cosí goffo che, avendole tolto l’onore, me la voglia negar per moglie; e quando pur non volesse concederlami, venir alla forza, alla violenza, alla rapina).
Pedofilo. (Ma ecco il fratello di colei che vien costá: vedrò modestamente potergli ragionar su questo fatto).
Erasto. (Lo veggio venir verso di me). Ben venghi il mio padre e padrone!
Pedofilo. Ben venghi il mio caro figlio e signore!
Erasto. Avendomi tolto molti mesi sono Vostra Signoria per patrone e per padre, con quella confidanza che si conviene tra figlio e padre, son venuto a ragionargli. ...
Pedofilo. Né altrimente riceverò le vostre parole.
Erasto. ... Sappiate, Pedofilo, mio carissimo padrone, che Amasia la tua figlia è moglie mia.
Pedofilo. Vostra moglie? Giesú, che dite? e come?
Erasto. Perché ci siamo sposati di nascosto.
Pedofilo. Come può esser questo?
Erasto. Anzi è stato piú di questo: ch’essendole io sposo e servidore, siamo giaciuti insieme ed è giá pregna di me.
Pedofilo. Cosí è pregna di voi come ne son io!
Erasto. Il ventre gonfio ne potrá far a voi ben larga testimonianza.
Pedofilo. Il ventre non si potrá mai gonfiar ad Amasia se non per qualche idropisia.
Erasto. V’ho detto quanto è passato tra noi.
Pedofilo. Voi avete visto il ventre gonfio a mia figlia?
Erasto. L’ho visto e l’ho tocco, per dirlovi piú chiaramente, dalle due ore di notte insino all’alba.
Pedofilo. Voi dite cose impossibili: la notte passata ha dormito meco dalle due ore insino all’alba.
Erasto. V’ho detto il tutto.
Pedofilo. E se voi sapeste il tutto, vi vergognareste e v’arrossireste di quel che dite.
Erasto. Se non volete crederlo a me, credetelo a’ testimoni.
Pedofilo. Chi sono i testimoni?
Erasto. Cintio, il vostro vicino, che n’è stato il nostro caro mezano, e la sua balia: che è passata dalla vostra casa alla sua per un tragetto quando siamo giaciuti insieme.
Pedofilo. Come ha possuto passar dalla mia nella sua casa?
Erasto. Dico, abbiamo fatto una buca nel muro tra voi e lui, e s’è passato per quella.
Pedofilo. Vo’ che le vostre parole stesse discoprano la bugia: fra la mia casa e quella di Cintio non vedete che v’è il vicolo in mezo? in qual muro avete voi fatto la buca? Se non è passata per aria o sotterra, non ha potuto venir per altra via. Non v’accorgete che tutto il restante sia bugia?
Erasto. Ma io veggio il capitano. Eccovi un testimonio.
Pedofilo. Oh che testimonio!
Erasto. Capitano, di grazia accostatevi qua.SCENA II.
Capitano, Pedofilo, Erasto.
Capitano. Pedofilo, buon giorno, poiché tua figlia ha dato a costui la buona notte.
Pedofilo. Chi te l’ha detto?
Capitano. Dimandate chi me l’ha detto? tutto il mondo.
Erasto. Capitano, dite come passò il tutto e con veritá, e quanto avete visto.
Pedofilo. (Sará piú difficoltá a far dir a costui una veritá che a farlo sudar di mezo gennaio).
Capitano. Quel che dico l’ho visto con questi occhi. Alle due ore di notte vidi Amasia nella casa di Cintio venir ad incontrar Erasto fin in mezo la strada, abbracciarlo e baciarlo; ed egli, condottola poi su, se l’ha goduta insino a giorno; poi l’accompagnò sin alla strada e si licenziò da lui.
Erasto. Anzi io volea portarla insin a casa in braccio; e per l’impedimento che costui mi diede, mi scappò dalle mani: ch’io volea che voi non l’aveste a veder piú mai se non dopo concessalami per moglie.
Pedofilo. E questo è vero?
Capitano. Se questo non è vero, che questa mia spada non magni piú cuor di principi né beva piú sangue di colonelli.
Pedofilo. L’arai tu visto in sogno questo?
Capitano. Se fusse altri che tu che ardisse cosí mentirmi sul viso, a questa ora arebbe veduto il ciel della luna.
Pedofilo. E se altri che tu avesse avuto ardir far tal testimonianza, m’arebbe fatto adirar da dovero; ma ben ti conosco che cosí dici in questo il vero come nelle altre tue cose.
Capitano. Ti mostravi assai schivo di darmi tua figlia per isposa, che non l’accetterei per una fante di cucina: io te la renunzio ancorché sapessi che per me ne avesse a crepar di martello. Adio.
Pedofilo. Va’ va’.
Erasto. Ma ecco la balia di Cintio, viene a tempo: questa è pur stata mezana de’ nostri amori.
SCENA III.
Balia di Cintia, Erasto, Pedofilo.
Balia. (Veggio Pedofilo ed Erasto che gareggiano insieme. Iddio mi aiti!).
Erasto. Balia balia, vien qui per amor mio!
Balia. (Oimè misera, dove sono inciampata! o terra, apriti e divorami! adesso fia per discoprirsi il tutto. O figlia, dove m’hai tu ridotta!).
Erasto. Vien qui tosto, di grazia.
Balia. Vo in fretta per un servigio di grandissima importanza. (O Dio, come potrei scampare?).
Erasto. Non può esser di maggior importanza di quello che si tratta ora.
Pedofilo. (Oh, come il testimonio viene mal volentieri all’essamina!).
Balia. Eccomi, che volete?
Erasto. Balia mia cara, or non è piú tempo di nasconderci: ché ben sai che Amasia è mia moglie, però senza respetto alcuno narra alla libera il fatto come è passato.
Balia. Che volete saper da me meschina? io non so nulla. (O Dio, in che intrigo mi ritrovo!).
Erasto. Narra quanto sai di me e della figlia di questo gentiluomo.
Balia. Non so che dirvi.
Erasto. Tu non sei stata la mezana tra me e Amasia e principio de’ nostri amori? non sai come sia meco giaciuta e sia mia moglie?
Balia. L’avete detto voi: a che vi giova che lo redica?
Pedofilo. (Non lo vuol dir di bocca sua).
Erasto. Vo’ che l’accerti in presenza di suo padre.
Balia. Lo dissi, è vero.
Erasto. Che cosa dicesti?
Balia. Quello che avete detto voi.
Erasto. Non abbiam fatto un traghetto nel muro divisorio fra l’uno e l’altro, per il quale è passata ogni volta ch’è venuta a giacer meco?
Balia. Cosí come voi dite.
Pedofilo. O Iddio, che intendo!
Erasto. È piú di quello che avete inteso? — Dimmi, non è ella di me pregna e omai è sul mese del partorire?
Balia. Quanto dite è cosí.
Pedofilo. Non ti vergogni tu, feminaccia del diavolo, con la tua falsa testimonianza tôr l’onore e la fama a mia figliuola?
Balia. Mi parto, ho da compir quel mio negozio.
Erasto. Fermati un altro poco. — E la notte passata non è giaciuta meco dalle due ore insino all’alba?
Balia. Vero vero.
Pedofilo. Falso, arcifalso, falsissimo, e ne menti centomila volte per la gola, vecchia falsa, strega, ruffiana! Mira qua se tra noi v’è questo vicolo in mezo: in qual muro avete voi fatto il traghetto? Se dalle due ore di notte ha dormito in mia camera insino a giorno, come fu in braccio di costui? Come ardisci tu dir che sia pregna, se il suo ventre è piú ritirato in dentro che non è il mio?
Balia. Adio adio, signori.
Pedofilo. Mira che testimoni! Ma per mostrarvi che quanto dite di mia figlia è tutto falso, son uomo di farla calar qua giú e che tu veggia con gli occhi propri che non è pregna.
Erasto. Di grazia, fatela calar qua giú, ché farò ch’ella confessi il tutto in vostra presenza; ché giá non è piú tempo di tenersi nascosto il fatto.
Pedofilo. O di casa, fate che cali qua giú Amasia per cosa che importi assai. — Che pregne? che sposi? che traghetti? imparate di grazia ad esser piú continenti nel parlare.
Erasto. Vi prego che voi tacciate: lasciate ragionar a me primo, che forse vergognandosi della vostra presenza non volesse accertarlo.
Pedofilo. Farò come volete. Eccola che giá viene.
SCENA IV.
Amasio, Fedofilo, Erasto.
Amasio. Che comandate, mio padre?
Pedofilo. Ascolta quel gentiluomo che dice.
Erasto. Amasia, mia carissima sposa, or è gionto quel tempo cosí desiato da voi, cioè di tôrci questa maschera dal volto e non aver a viver piú di nascosto. Ho raccontato a vostro padre tutto quello ch’è passato tra noi; non ci manca altro, solo che l’accertiate di bocca vostra.
Amasio. Che sposa, che sposa? che hai tu raccontato a mio padre? ma che cosa di nascosto è passata tra noi?
Erasto. Vita mia, lo sai meglio di me: che siamo sposati di nascosto, giaciuti insieme e che v’ho resa gravida.
Amasio. Io tua moglie? tu giacesti meco? io di te gravida?
Erasto. Anima mia, perché lo nieghi?
Amasio. Lo niego perché è una menzogna espressa!
Erasto. Voi avete fatta la faccia rossa e vi vergognate: non è piú tempo di vergogna, perché sète giá mia moglie.
Amasio. Tu mi fai vergognar da dovero, e bisognarebbe veramente esser senza vergogna perché non arrossisse. Io mi vergogno che si trovi uomo cosí senza vergogna che mi venga innanzi con queste favole! Ma dubito che tu sia cosí senza vergogna come senza cervello.
Erasto. E perché senza cervello, vita mia?
Amasio. Perché altri che un senzacervello non potrebbe dir queste cose. Quando mi hai tu veduta o parlato prima, che mi vieni cosí sfacciatamente dinanzi a ragionarmi di cose cosí sfacciate?
Erasto. Moglie mia cara, non bisogna mostrarsi cosí semplice e innocente. Qui è tuo marito e tuo padre, non hai altri al mondo che ti amino piú di noi. Bisogna per finirla venir al tronco, per non aver a goderci insieme di nascosto; e se non volevate venir ad un tal tronco, non bisognava sposarci insieme.
Amasio. Come sei tu giaciuto meco, in sogno od in farnetico?
Erasto. La notte passata non sète voi venuta a giacer meco insino all’alba?
Amasio. Veggio che non solo sei pazzo, ma dubito, se tratto molto teco, che non impazzisca ancor io. Dove hai tu meco trattato mai?
Erasto. In camera e in letto.
Amasio. Tu non puoi esser gentiluomo né persona onorata, poiché in sul viso e in presenza di mio padre senza sospetto alcuno ardisci dir cose che non fûr mai per imaginazione, con tanto pregiudizio dell’onor mio.
Erasto. Moglie mia cara, non dico ciò per infamar l’onor vostro, ché non ho per altro a caro la vita che per spenderla in vostro servigio; e quando per ogni minima occasione noi facessi, allor non sarei né gentiluomo né persona di onore.
Amasio. Di grazia, non mi ingiuriar piú di quello che ingiuriata m’hai: ché se a mio padre non fussero noti gli miei andamenti e la mia vita che gli facessero fede della mia innocenza, mi faresti impazzir da dovere.
Erasto. Giá mi avveggio che ridete e volete accettar la veritá. Cara mia moglie, non piú burle, non mi straziate piú di grazia: togliamoci ad un tratto la noia di aver piú a vivere di nascosto. Prometto servir vostro padre di modo che non si pentirá di avermi concessa voi per isposa.
Amasio. Io per me non so dove sia per riuscire questa cosa. Mira razza di uomo! dice che sia pregna di lui e vicina al parto, e non vede con gli occhi suoi che non sia vero.
Erasto. Voi vi sète fasciata di sotto cosí stretta per non parer pregna, onde dubito che siate per isconciarvi.
Amasio. Tu piú mi sconci con queste tue sconcie parole.
Erasto. Non fate male a voi né al mio figliuolo. Deh, per amor di Dio, non siate cosí crudele che vogliate uccidere ad un tempo il padre e il figlio!
Amasio. O Dio, che ostinato uomo è costui! e quando stimo che cominci a riconoscersi a poco a poco, io lo veggio indurito piú che mai.
Pedofilo. Io son stato cheto insino adesso per veder dove avea a parar la favola. Ella si ha chiarito del tutto: io dubito che non siate stato ingannato da alcuno.
Erasto. Io non sono stato ingannato se non da lei nell’amor suo; percioché io stimava che mi amasse come amava io lei e come suo sposo, ma veggio che è nemica del suo sposo e di se stessa.
Pedofilo. E pur lá con la moglie. La tua perfidia mi condurrá oggi a manifestarvi cosa che da che sono in Napoli non ho voluto manifestare.
Erasto. Di grazia, ditela e togliete me e voi ad un tratto di fastidio, perch’io in una cosí fatta pertinacia sarei per perder la vita e l’onore, per non dir l’anima ancora.
Pedofilo. Son rissoluto di dirla. — Come hai voluto tu impregnar costui, s’è piú maschio che tu non sei? Dubiti che non sia di razza del lepre, che è maschio e femina, e che impregni altri e ch’ella resti impregnata?
Erasto. Come maschio? non l’ho io avuta in braccio cinquanta volte?
Pedofilo. Io per non rompermi con te tutto oggi il capo, avendoti manifestato quello che importa piú, vo’ manifestarti quello che importa meno. — Amasio, va’ dentro insieme con lui e fagli conoscere se sei femina o maschio.
Amasio. E mi comandate cosí, padre?
Pedofilo. Cosí ti comando io.
Amasio. Venite dentro.
Erasto. Volentieri.
Pedofilo. (Io mi fo le maggior meraviglie di costui che abbi mai fatto di cosa alcuna in mia vita: che abbia ripieno tutto Napoli c’ha impregnata mia figlia e che sieno sposati di nascosto, che bisogna per onor mio manifestar a tutti che sia maschio. Con questo mi torrò dinanzi lui, il capitano e tanti che me la cercano. Ma eccolo venir fuori). Or sí che arai toccato con mano la veritá.
Erasto. Pedofilo caro, io non ho faccia con che possa mirarvi né da comparir piú mai per questa strada: mi fuggirò da Napoli. Vi priego caldamente a perdonarmi, ché, essendo stato ingannato io, cercava ingannar voi: io era cosí perfidioso perché mi pensava che dicessi la veritá. Ma forse alcuno me la pagherá.
Pedofilo. Poiché sète sodisfatto, ite in buon’ora.
SCENA V.
Erasto solo.
Erasto. O meraviglia delle meraviglie, o Dio, che ho visto e tócco con le mie mani? ed è possibile che sia stato tanti anni e tanti mesi in cosí fatta cecitá e abisso di ombre, d’imagini, di larve e d’incantamenti? son fuor di me stesso o sono in un altro mondo? Ed è possibile che abbi amato una donna e tante volte giaciuto seco e resala gravida di me, e or trovo che sia mutata in altro sesso? Ahi, Cintio Cintio, questa è l’amicizia cosí cara e cosí stretta che hai tu finta tanti anni meco, per tradirmi sotto quella e venir meco a cosí sconci modi? O mondo traditore, e di chi debbo fidarmi? Per giacer tu con mia sorella, farmi dormire con una puttana vecchia! Ma perché dico «puttana vecchia», se le mie mani mai non toccorono carni piú morbide e delicate e un corpo piú sodo e ben formato? se mai non intesi parole piú ben formate e accorte? né costumi vidi piú nobili e piú onorate maniere, né spirito piú vivace e divino? Io non penso che sia stata donna, ma qualche corpo aereo formato per incantamenti d’un demonio, o per dir meglio d’un angelo in donna trasformato. Ma poiché la prima volta che ho veramente parlato con Amasia e conosciuto in lei costumi poco rispettevoli e modi troppo sdegnosi e creanza piú tosto d’un orgoglioso maschio che de una modesta femina convenevole, un tanto amore mi si è in odio converso. O povero Erasto, ingannato, burlato e aggirato per lo naso! Amo chi non so chi sia, son giaciuto con chi non conosco, ho impregnato non so che cosa; e pien d’un vano amore, non so quel che desio e sol mi resta non so come il nome di marito. Cintio me la pagherá ben sí; conoscerá quanto possa un sdegno d’un amante schernito! Poco sará se l’aprirò il petto con le mie mani e ne strapperò quel cuor malvagio e traditore; farò che il mio amar a molti ritorni amaro. O Dulone, or conosco gli avisi che tu mi davi, ch’eran d’un buon servo e amorevole! Sia io fatto in mille pezzi, se non me ne pagherá e se di lui non ne farò qualche funesta tragedia!
SCENA VI.
Balia di Cintia, Cintia.
Balia. Fermati, figlia mia, non correr con tanto impeto, frena questo pensiero con qualche ragionevol discorso, non ti lasciar cosí vincer dal dolore e dalla disperazione, perché di tante hai eletta la piú perigliosa, precipitosa e disperata rissoluzione.
Cintia. Balia mia, vorrei maledir mille volte l’ora che nacqui: deh! perché non mi soffocasti nella cuna? Qual pensi ch’or sia l’anima mia, se pur ho anima in questi affanni? Il mio male è senza conforto; però non è piú tempo di speranze o di trattenimenti. Egli non sol non mi ama, ma da lui son odiata, sdegnata e aborrita. A me è impossibile il viver senza di lui; però prima che sia d’altro uomo, voglio essere della morte. Che cagion ho di vivere? La vita m’è per ogni rispetto molesta: restando in vita, mi sarebbe il vivere piú acerbo d’ogni acerbissima morte; sarei una che morisse mille volte il giorno senza poter morire; solo nella morte può esser la mia pace e la mia requie. Onde essendo risoluta morire, tardando mi uccido prima che mora: ogni momento che tardo m’è una morte; il pensar a morire è il maggior travaglio che sia nel morire.
Balia. Figlia, tu sei cosí ebra dell’ira e infrenesita dal furore che capiterai male. Non correr con tanto impeto, frena i tuoi spiriti cosí feroci e furiosi, spera un poco meglio. Il tempo suol apportar piú maturo consiglio: forse la fortuna ci apporterá qualche rimedio, ci fará qualche favore.
Cintia. Che rimedio può trovarsi ove non è rimedio alcuno? il caso è irremediabile! Se la fortuna ci ha mostrato qualche favore, ha fatto l’ultimo suo sforzo come quando all’infermo viene il miglioramento della morte. Giá s’è scoverto che Amasia sia uomo; e in un’ora, in un punto si son scoverti tanti inganni, son perdute tante fatiche e tanti consigli che abbiam fatto tanti mesi e anni. Non ci è piú speranza, non ci è piú pericolo, non ci è piú che temere, ogni cosa è piena di garbuglio: ecco il fiele che ave amareggiato tutte le passate dolcezze — se posso dir in tanto tempo aver gustato alcuna vera dolcezza!
Balia. Che hai dunque determinato di fare?
Cintia. So ch’egli arde di rabbia contro me e m’odia insino a morte: incontrandomi con lui, porrá subito le mani all’armi, le porrò anch’io. Io cercherò di pungerlo e inasprirlo con le piú ingiuriose parole che saprò imaginarmi. Al primo colpo gli mostrarò disavedutamente il fianco accioché mi passi il core: vo’ che quella mano che da principio mi involò il core, quella istessa lo ferisca e uccida. Quando poi mi conoscerá morta, conoscerá parimente il mio amore e la mia fede; e so che la sua spada passará allor in un punto duo cuori. Cosí morendo per le sue mani, mi saranno le piaghe care e fortunate; morrò felice e con quella morte mi involerò dalla morte. Però ti prego non invidiarmi cosí dolce e felice morire!
Balia. Non sará meglio, o figlia, che gli scuopra ch’io sola son stata cagione del tutto e ch’io l’ho ingiuriato e tradito; accioché, sfogando la rabbia contro la mia vita stanca giá di viver e poco lontana dalla morte, serbi la tua piú degna vita a piú felice fortuna? Qual sarebbe la mia vita, tu mancandomi? rimarrei orfana, vedova, sola e sfortunata, ché tu in vece di tutti sei mia madre, mio marito, mia compagna e mia figlia. E poi ben convien ch’io ne patisca la pena, perché io son stata cagion di consigliarti e aiutarti in questo amore.
Cintia. Madre mia, se tu facessi questo, mi condurresti ad uccidermi con le mie mani per disperata e mi faresti perder la vita e l’anima insieme: però ti prego che non cerchi ingannarmi con farmi restar in vita, ché privandomi di ciò mi privaresti di una giocondissima morte e col volermi esser pietosa m’usaresti opra di crudeltade.
Balia. Figlia, non sarebbe piú bene che lo scoprissi a tuo padre? ché mi confiderei di far tanto con lui ch’egli scoprisse il fatto a Sinesio suo padre, e fra loro trovassero qualche assetto a questi intrighi. Chi è sforzato morire fa prima ogni sforzo di non morire: ché all’ultimo non saremo al peggio di quel che noi siamo.
Cintia. Sará peggio, perché mio padre, sentendosi oltraggiato da mia madre per l’inganno usatogli, e poi oltraggiato da me nel fatto dell’onore, si sentirá due volte ingiuriato; né stimerá ch’io spinta da amor di marito abbia concesso il mio corpo ad Erasto, ma ben da lascivo o disonesto appetito; onde, fatta rea e suspetta appo mio padre di un vano appetito, non si terrá per pago se mi strangolerá con le sue mani. Onde saresti cagione d’una mia doppia morte; donque per quanto amor mi porti, lascia ch’io sodisfaccia al mio desio e con una volontaria prevenga la necessaria mia morte. E dopo morta, scuopri per ordine ad Erasto il tutto, e digli che occecata da troppo ardentissimo amore ho fatto quanto ho fatto. A mio padre dirai che non s’affligga, ché non ha perduto un maschio, ch’egli tanto desiderava, ma una femina sfortunata e infelicissima.
Balia. O indarno nata bella, o indarno tante virtú imparate, e cosí morir tu devi? ahi stelle crudeli, e che è quel che ascolto? Figlia, ti prego per quello latte che asciugasti dalle mie poppe, per quei dolci travagli che ho sofferti in allevarti e nudrirti — giacché tu non conosci tua madre, ch’io son stata la tua balia e la tua madre, — che tu non corri con tanta furia. Vo’ partirmi, ché non ti incontri con lui dinanzi gli occhi miei. Ahi, che solo pensandoci mi si schianta il core! Figlia, ti benedico il sangue che ti ho dato; il resto pongo nelle man d’Iddio.
Cintia. Va’ e accompagna i prieghi tuoi con i miei a Dio, ché raccolga la misera anima mia. E tu che raccogliesti le membra al mio natale, tu ricevi ultimamente il mio corpo moriente; e se essendo bambina le tue braccia mi fûr culla, mi sieno feretro nella mia morte!
SCENA VII.
Lidia, Cintia.
Lidia. (Misera me, che non trovo riposo, né per molte volte che mi sia fatta su la fenestra posso veder Cintio over altri da parte sua che venghi a trattar con mio padre su le mie nozze; e pur si mostrava meco tutto di fuoco in desiarle! Ma eccolo. Mi par assai d’animo travagliato. Dio m’aiti! forse non ará potuto accapar con mio padre le nozze).
Cintia. (Ogni rumor che sento, ogni persona che veggio mi par Erasto che mi chiami e mi sfidi ad uccidermi con lui).
Lidia. Cintio, Cintio mio!
Cintia. Eccomi, eccomi pronto, che volete da me?
Lidia. (Giesú, questi pon mano alla spada!). Signor Cintio, volgetevi qua a me.
Cintia. Deh, voi sète! (Questa sovraggionta mancava al mio affanno!).
Lidia. Cuor mio, come state cosí travagliato?
Cintia. Che avete voi ad impacciarvi de’ fatti miei, o sia travagliato o felice?
Lidia. Non sapete voi che i vostri travagli son miei? come sia possibile che voi passando un minimo travaglio, a me non sieno vive punture nell’alma?
Cintia. Di grazia, badate a’ casi vostri.
Lidia. Dunque, cosí tosto vi son uscita dal core?
Cintia. Dal cor voi non ne sète uscita, perché non ci entraste giamai.
Lidia. Oimè, che subiti mutamenti son questi? questo è dunque l’amor che cosí caldamente dimostravate portarmi?
Cintia. Che mutamenti? che amor? io non so che vi dite.
Lidia. Non merita tali risposte quello che ho fatto per voi.
Cintia. Che cosa faceste voi per me mai?
Lidia. Eh, Cintio, non mi straziate piú di quello che sin qui fatto m’avete! Non so che volete da me: m’avete tolto la vita, l’onore e l’anima.
Cintia. Veramente che voi dovete sognarvi, dovete dormir incora.
Lidia. Piacesse a Dio che dormisse, piacesse a Dio che mai mi svegliasse o fusse morta mille anni sono per non udir quel che sento! E giá parevami che il cor mio presagesse questa disgrazia, ch’impossibil mi pareva che essendo cosí subito rivoltato ad amarmi, che s’avesse a scemar in me un punto. Il vostro è stato odio e non amore; ché avendo perduto con voi l’anima e il core, ben poco mi parea se non mi aveste fatto perder l’onore ancora.
Cintia. Io non so quello che vi diciate, e io ho altri garbugli per la testa che badar alle vostre ciancie.
Lidia. O dolor che avanzi tutti gli altri, o anima, o spirito mio, perché non fuggi da questo corpo tribulato? Non vi muove dunque la data fede?
Cintia. Che fede, che fede vi diedi io mai?
Lidia. Mi desti quella fede solo per ingannarmi sotto quella fede! Or che piú tradimento può ascoltarsi che tradir una povera feminella sotto la fede, o che piú agevol cosa d’usar fraude ad una donna, ad una che potevi sempre ingannar che volevi? che sapevi ben quanto t’amava e che voleva tutto quello che tu volevi, e che Amor m’avea bendati gli occhi che non sapea quel che facesse? Ah quanto rara si trova la fede negli uomini!
Cintia. So che se non mi parto di qua, che non saresti per finir tutto oggi.
Lidia. Un traditor perfido e disleale non potea rispondermi altro che questo: ora m’accorgo chi tu sei! Tu gentiluomo? tu perfido, barbaro e inumano! Ma o che io morrò o farò che ti sia tratta quella lingua di bocca, accioché non inganni alcun’altra povera donnicciuola: ti farò cavar quel cuore malvaggio e traditore!
Cintia. Giá s’è partita. Non mancava altro agli affanni miei! La fortuna non comincia per una sola: a tempo che non so se debba viver un’ora, arò pensiero dell’altrui vita. Misera, che farò, qual sará il pensier mio? Non credo che viva anima cosí tribulata nell’inferno come la mia: resto al mondo per un infelice essempio d’ogni miseria. Oh quanto felici coloro che morti sono! che sará della mia vita?
SCENA VIII.
Erasto, Cintia, Dulone.
Erasto. (Ed è pur stato possibile ch’un uomo abbia potuto coprir sotto una simulata amicizia cosí orribile tradimento?).
Cintia. (Oimè, giá conosco alle narici aperte e inspiranti infocato fumo, dall’aria della fronte turbatissima e dal minaccievol volto la tempesta in punto contro di me!).
Erasto. (Ma veggio Cintio tutto mutato nel volto: giá gli sará raccontato l’affronto). Cintio, vo’ cercando di te per tutta la cittá.
Cintia. Eccomi al vostro comando.
Erasto. Abbreviamo le ciancie. Dimmi di grazia, Cintio, che ingiuria o dispiacere tu ricevesti da me mai, ch’io meritassi d’esser cosí amareggiato nell’anima per tuo conto? e sotto una finta amicizia nascondessi un verace tradimento? Ma non è buon nemico chi non sa fingere un buon amico.
Cintia. Non so che vogliate dirvi.
Erasto. Che mi abbi girato e aggirato come un putto, con darmi ad intendere che Amasia mi amasse e sposarla all’oscuro; e dopo ingravidata la ritrovo maschio e che non mi conosce. Tu gentiluomo di onore no, ma d’infamia; tu di fede no, ma di tradimento!
Cintia. Io sono gentiluomo e di onore e di fede, e ve lo farò conoscere, e son qui nelle man vostre, e se non vi fossi verrei a porvemi per giustificarmi con voi.
Erasto. e hai tu tanta lingua e tanta fronte? e non ammutisci e non arrossisci? In cambio di Amasia mi conduci a giacer meco una puttana vecchia.
Cintia. Nol dite che sia una puttana, ché ve lo manterrò con questa spada mentre arò spirito a reggerla. Non m’avete voi confessato che la prima notte che giaceste seco, godeste le primízie della sua virginitá? come è or dunque una puttana vecchia?
Erasto. Ho detto «puttana vecchia», non perché non sia vero quello che ti confessai; ma chiunque ella si sia, è una vile e poveraccia, poiché sotto altrui nome s’è venuta a giacer con uno che non sa chi si sia.
Cintia. Ed io vi dico che è nobile e ricca quanto voi, e conosce meglio voi che voi stesso. Ma che gran sceleratezza o peccato ha commesso costei contro di voi che le portate tanto odio e vi sentite cosí oltraggiato da lei? Una che ha brusciato in tanto foco per voi, amatovi con tanta fede e datovi quei segni d’amore che da onesta donzella si potessero dare; anzi ella per compiacervi ha trasportato i termini di ogni donnesca onestá ! E se pur ha peccato contro di voi, in una sola cosa ha peccato: che v’ave amato troppo svisceratamente, e accecata dal troppo insopportabile amore è venuta ne’ termini che voi sapete.
Erasto. Chi è dunque questa femina?
Cintia. Non bisogna saperla: perché mentre non la conoscete l’amate, conoscendola l’odiate; sotto la falsa sembianza la raccogliete e abbracciate, sotto la vera la scacciate e aborrite; non sapendo chi sia l’onorate, e avendola dinanzi agli occhi l’ingiuriate e oltraggiate e mostrate di non conoscerla.
Erasto. Chi è cotesta brutta disgraziata?
Cintia. Disgraziata e infelice sí bene, ma non brutta se dicevate il vero quando stavate abbracciato con lei: che avanzava di leggiadria tutte le umane creature.
Erasto. Chi ha inteso questo da me?
Cintia. Chi v’era presente: io.
Erasto. Eravamo duo soli.
Cintia. Fra quelli ci era ancor io.
Erasto. Dimmi, dov’è cotesta donna?
Cintia. Dove volete voi che sia? piú presso che voi non vi pensate: quanto voi sète lontano da me.
Erasto. Che ne sai tu?
Cintia. Niun lo sa meglio di me.
Erasto. Non è peggior sordo che quello che non vuole intendere. Parlami un poco piú chiaro, rispondimi a proposito: chi è quella che m’hai fatta sposare?
Cintia. Dimandatelo a voi stesso che l’avete avuta in braccio tante volte: niuno sa meglio di voi che la conoscete come me.
Erasto. Non la potei mai veder bene perché eravamo all’oscuro o con un lumicino: cosí accordato fra voi per ingannarmi, come m’avete giá ingannato. Ma io vorrei che, imparando il mio linguaggio, mi dicessi chiaro chi fu quella.
Cintia. Perché sète ingrato sopra tutti gl’ingrati e cieco sopra tutti i ciechi, anzi indegno che mai piú donna v’ami, ancorch’ella non vel dica chi sia, tutto il mondo parla per lei: ve lo dicono gli occhi suoi, il volto, la sua bocca e l’anima e il sangue dell’anima sua, la qual, trafitta dalle vostre ingiuriose parole piú assai che da un acutissimo coltello, vi manda il sangue fuori. Non vedete le lacrime sue? che son altro le lacrime che il sangue dell’anima? E se pur sète tanto cieco e sordo che non volete udirla né vederla, ve lo dirá all’ultimo la sua morte che sará tra poco; anzi uccisa dalle vostre mani, morta l’abbracciarete e la basciarete. Ma voi che sète di cosí bel giudicio, di cosí raro intelletto e discortese cosí altamente, come non ve ne accorgete?
Erasto. Io non sento da te se non parole mascherate. Ma lasciamo questa ingiuria e tocchiamone un’altra maggiore. Dimmi, come sei infellonito cosí contro di me che, praticando in casa mia cosí alla libera, mentre ch’io giaceva con quella... che non so come nominarla, in casa tua, tu venivi in mia casa a far violenza a mia sorella?
Cintia. Ti giuro su la mia fede che non solamente non ho ciò fatto, ma né meno mi passò per il pensiero giamai!
Erasto. Che fede fede? che fede hai o avesti tu mai? La tua fede ti serve per ingannare chi ha fede nella tua fede.
Cintia. «Chi non ha fede non crede». Ti giuro da quel che sono!
Erasto. Da un disleale, da un traditore.
Cintia. Credete a me!
Erasto. Crederò io a quella lingua mendace che m’ha fatto mille spergiuri?
Cintia. Io non feci in voi mai cosa onde meritasse riceverne cosí ingiuriose parole; ma qualunque ciò dice contro di me, ne mente mille volte per la gola!
Erasto. Ecco qui il testimonio. Vien qui, Dulone: non hai tu visto costui la notte passata in casa mia ragionar con Lidia ed entrare in casa mia?
Dulone. È vero e l’ho visto!
Cintia. Tu hai visto me entrar in casa sua la notte passata?
Dulone. Io io, sí sí, con questi occhi!
Cintia. Se tu non fossi suo servo a cui porto rispetto, ti darei tanti calci su lo stomaco che ti farei vomitar il sangue e l’anima, o la veritá. Ma s’era di notte, come mi conoscevi?
Dulone. Ti conobbi alla statura, alla voce, alle vesti, al mover della persona, al volto senza barba.
Erasto. Anzi quello che costui dice, Lidia lo conferma e mi cerca vendetta dalla violenza che l’hai tu usata.
Cintia. Io non l’ho fatto violenza, ma riveritala sempre come mia sorella.
Erasto. Dulone, di’ a Lidia che cali giú: vo’ veder se, nello affronto, in quel tuo volto vitriato resterá qualche segno di vergogna.
Cintia. Non trovarete mai altro che la notte passata, che voi giaceste con quella che voi tanto ingiuriate, io non mi partii da voi, e se fui sempre con voi, non poteva essere altrove.
Erasto. Non darò piú fede alle parole tue.SCENA IX.
Lidia, Erasto, Cintia, Dulone.
Lidia. Che comandate, fratello?
Erasto. Dimmi liberamente come passò la cosa tra voi e costui la passata notte, e non temer di nulla.
Lidia. Io non vi niego, fratel mio caro, che non abbia amato costui di tutto cuore, perché mille volte dalla vostra bocca ho inteso raccontare il valor, la virtú, i costumi e le sue gentili maniere; e io, ponendo effetto a’ suoi trattamenti quando egli con voi trattava, conobbi ch’era assai piú di quello che voi dicevate. Lo desiai per marito e, lo confesso, ne feci motto a mia madre; ella a mio padre e a voi, e ne ragionò con Arreotimo suo padre: ma egli non volse accettarmi mai. Oggi, ragionando egli con Amasia, disse voler ragionar meco alle due ore di notte. L’attesi: venne e mi chiese perdono della sua ostinazione; mi die’ la fede di sposo; calando al buio per stringer la fede, mi baciò per forza e con una villana violenza e grandissima discortesia fe’ oltraggio all’onor mio.
Cintia. Ed è possibile che una signora cosí nobilmente nata, come voi sète, finga contro di me cosí bugiarda bugia? Se ben ho ragionato oggi con Amasia, non mi fece di voi parola mai.
Lidia. Io non arei stimato né col pensiero che in un gentiluomo, come voi sète, vi fusse cosí mala creanza e tanto tradimento che neghiate or quello che non vi vergognaste di farlo con tanta sfacciatezza.
Erasto. Che rispondi, Cintio?
Dulone. Non vedete il tacere e il timore, che sono i perpetui compagni della colpa?
Cintia. S’io l’avessi desiata per isposa, l’arei chiesta a voi o a vostro padre, la qual, come offertami da prima, so che me l’arebbe concessa, e non venir a questi modi cosí indegni.
Erasto. Dunque, ella non dice il vero?
Lidia. Io in nessuna parte ho mentito di quel che ho detto.
Erasto. Io non posso piú crederti, ché, avendomi due volte ingannato, non prestarò piú fede alle tue parole.
Cintia. Chiamo Iddio in testimonio!
Erasto. Tu te ne servi per ingannare.
Cintia. Dico che ciò non solo non è vero, ma meno può esser vero; anzi se Iddio volesse far questo vero, bisognarebbe trasformarmi dalla mia natura e darmi altro naturale col qual bastasse a farvi una simile ingiuria. E presto v’accorgerete che dico il vero.
Erasto. Lidia, vattene su, che tra noi diffiniremo le nostre contese. — Cintio, l’amicizia che hai avuta fin ora meco non è stata per altro che per tradirmi; ma d’oggi innanzi ti arò per quel traditore che tu sei.
Cintia. Io non ti ho fatto altro tradimento che di averti troppo amato.
Erasto. Tu non mi ci corrai piú con le tue paroline; e la spada scoprirá la veritá, e giá mi vien la stizza passartela per lo petto.
Cintia. Piú tosto per lo ventre, acciò non resti al mondo seme di tanta ingratitudine! Ma poiché la volete meco, la torrò con voi assai volentieri. Ponete mano alla spada.
Erasto. Ancor ardisci, puttaccio, di provocarmi?
Dulone. Padron, state in cervello, che sta armato di giacco: perciò ha tanto ardire.
Cintia. Vedete se ho soverchiarla con voi: ecco il fianco nudo.
Erasto. Va’ va’, che ci vedremo.
Cintia. Finiamola ora.
Erasto. Ci troveremo bene in altro luogo.
Cintia. Dove, quando e come volete!
SCENA X.
Erasto, Dulone.
Erasto. Son desto o dormo, son vivo o morto? Che novitá son queste che veggio o che ingannano gli occhi miei? O caso non piú intervenuto! e se il racconto, che fia di Cintio?
Dulone. Voi l’avete fatta, padrone, assai onorata: provocate prima Cintio all’armi, ed egli facendovisi incontro animosamente con la spada poi, l’avete sfuggito.
Erasto. Volevi tu che avessi ammazzato una donna?
Dulone. Che donna?
Erasto. Quando si slacciò il giubbone, si ruppero i lacci della camicia e dimostrò una mammella nuda.
Dulone. Che mammella mammella? dove egli ha mammelle? quante volte l’ho io spogliato e vestito, quante volte avete dormito voi seco, quando siamo andati alla villa a caccia, dove si videro mai mammelle?
Erasto. Io ti dico che ho visto la piú leggiadra mammella che si vedesse giamai in donna.
Dulone. Stimo che il furore e l’ira, di che eravate acceso contro di lui, v’abbino mostrato una cosa per un’altra.
Erasto. A me parve cosí vedere.
Dulone. La rabbia e lo sdegno imbriaca come il vino.
Erasto. Potrebbe esser quel che tu dici. Andiamo a incontrarlo, che vo’ ucciderlo in ogni modo.
Dulone. Se non fate conto dell’onor di vostra sorella e d’un incontro come quel che v’ha fatto, di che voi vi risentirete?
Erasto. Andiamo andiamo.