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156 | la cintia |
Capitano. (Erasto rapisce Amasia e se la porta di peso per forza: come patirò io tanta insolenza e dinanzi gli occhi miei?). Fermati olá, lascia costei!
Erasto. Se non taci e ti parti, ti farò pentir di tanta temeritá!
Capitano. Se non ti fermi, ti taglierò le gambe!
Erasto. Capitan, va’ via, non tôr briga dove non hai a far nulla.
Capitano. Come nulla? i fatti d’Amasia m’importano molto.
Erasto. Traditore, me l’hai fatta scampar di mano: mal per te, bestiaccia! — Dulone, vedilo tu?
Dulone. Io non vedo niuno: egli è sparito come una nebbia. — Ma fermatevi, dove andate?
Erasto. Orsú, me la pagherai davero!
Dulone. Padrone, io son chiaro di quanto dubitava: mentre voi sète stato in casa di Cintio, egli, uscendo dalla casa di Amasio, è stato in casa vostra, ha ragionato un pezzo con Lidia dalla finestra. Al fin calò a lui; l’ha usata violenza e fattala sua donna.
Erasto. Dovevi star imbriaco, però ti pareva di veder questo.
Dulone. Ben sta: in pago del ruffianesimo che v’ha usato, v’ha dato un bel paio di corna.
Erasto. Dovevi star in estasi.
Dulone. È possibil, padrone, ch’egli cosí volentieri vi fa credere il falso, ed io non basto a farvi vedere il vero?
Erasto. Entra e serra l’uscio.
Capitano. (Giá egli è entrato e serrato l’uscio. Vo’ sfidarlo e provocarlo, cosí provederò all’onor mio). Tic, toc.
Erasto. Chi è lá?
Capitano. È il capitano qui, per mantenerti che ha fatto molto bene a tôrti di mano Amasia la sua innamorata e fattoti restar con le man vote e come un asino.
Erasto. Dove è questo furfante bestione, dove sei, dove sei gito? stimo che sei fuggito dal mondo: misero te se t’incontro!
Dulone. Entriamo, padrone, ché egli se n’è scampato.
Erasto. Entriamo.