L'avvocato veneziano/Atto III
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ATTO TERZO.
SCENA PRIMA.
Camera del Giudice, con tre tavolini e varie sedie.
Alberto in abito nero. Un Sollecitatore1 con delle scritture. Un Servitore col ferraiuolo dell’Avvocato sul braccio, che resta indietro. Florindo e Lelio.
Florindo. Questi nostri avversari ancor non si vedono.
Alberto. Xe ancora a bonora. La varda, vinti ore adesso.
Lelio. Mi dispiace che non abbiate voluto desinare.
Alberto. Co parlo dopo pranzo, no magno mai.
Florindo. Ecco gli avversari.
Alberto. Mettemose al nostro logo. (ognuno prende il suo posto) Sior Lelio, comodeve dove che volè.
Lelio. Sto qui ad ammirare la vostra virtù. (si pone in disparte)
SCENA II.
Il Dottor Balanzoni con delle scritture. Rosaura col velo su gli occhi, vestita modestamente, un Sollecitatore e detti.
(Si salutano tutti fra di loro. Rosaura non guarda Alberto, nè Alberto Rosaura. Il Dottore dà ad essa la mano, e la fa sedere su la banca. Poi siede col2 suo Sollecitatore al fianco.)
Poi viene il Giudice in toga, il Notaro, il Comandador, ed il Lettore. Tutti s’alzano.
(Il Giudice va a sedere nel mezzo. Il Notaro da una parte. Il Comandador in piedi dietro al Giudice. Il Lettore in piedi, presso il ta’volino del Giudice, dalla parte del Dottor Balanzoni.)
Giudice. (Suona il campanello.)
Dottore. (S’alza) Siamo qui, illustrissimo signore, per definire la causa Balanzoni e Aretusi. Vossignoria illustrissima non ha voluto leggere la mia scrittura di allegazione; comandi dunque: che cosa ho da fare?
Giudice. Non ho voluto leggere la vostra scrittura d’allegazione in questa causa, perchè io, secondo il nostro stile, non ricevo informazioni private. Le vostre ragioni le avete a dire in contradditorio.
Dottore. Le mie ragioni sono tutte registrate in questa scrittura; se vossignoria illustrissima la vuol leggere....
Giudice. Non basta che io la legga; l’ha da sentir il vostro avversario. Se volete, vi è qui il lettore, che la leggerà.
Dottore. Se si contenta, la leggerò io.
Giudice. Fate quel che vi aggrada.
(Il Lettore va dall'altra parte e si pone a sedere indietro. Il Dottore siede, e legge la scrittura d’allegazione. Alberto colla sua penna da lapis va facendo le sue annotazioni. Rosaura con gli occhi bassi mai guarda Alberto, nè egli mai Rosaura.
Dottore. (Legge.)
ROVIGEENSIS3 DONATIONIS
PRO
DOMINA ROSAURA BALANZONI
CONTRA
DOMINUM FLORINDUM ARETUSI.
Illustrissimo Signore.
Se è vero come è verissimo in jure, che unusquique rei suae sit moderator et arbiter, onde ognuno delle sue facoltà possa a suo talento disporre, vero sarà e incontrastabile che il fu signor Anselmo Aretusi, padre del signor Florindo, avversario in causa, avrà potuto beneficare colla sua donazione la povera ed infelice Rosaura Balanzoni, che col mezzo della mia insufficienza chiede al tribunale di vossignoria illustrissima della donazione medesima la plenaria confermazione, previa la confermazione della sentenza a legge, giustamente a nostro favore pronunciata.
Nell’anno 1724, il fu signor Anselmo Aretusi pregò il fu Pellegrino Balanzoni, padre di questa infelice, che a lui la concedesse per figlia adottiva, giacchè dopo dieci anni non aveva avuta prole alcuna dal suo matrimonio. Pellegrino Balanzoni aveva tre figlie4, e per condiscendere alle istanze d’Anselmo, si privò di questa, per contentare l’amico; onde eccola passata dalla podestà del padre legittimo e naturale a quella del padre adottivo: Quia per adoptionem acquiritur patria potestas.
Per prezzo, o sia remunerazione, d’avergli il padre naturale ceduta la propria figlia, e in tal maniera consolato il di lei dolore per la privazione di prole, fece una donazione alla figlia adottiva di tutti i suoi beni liberi, ascendenti alla somma di ventimila ducati, riserbandosi da testare mille ducati per la validità della donazione. Se morto fosse il padre adottivo senza figliuoli del suo matrimonio nati, non vi sarebbe chi contendesse alla donataria i beni liberi del donatore, ma essendo nato due anni dopo il signor Florindo avversario, egli impugna la donazione, la pretende nulla e di niun valore, e ne domanda revocazione, o sia taglio. Ecco l’articolo legale: se si sostenga la donazione a favore della donataria, non ostante la sopravvenienza del figlio maschio del donatore. A prima vista pare che io abbia a temere la decisione alla mia cliente contraria, fondandosi gli avversari sul resto: Per supervenientiam liberorum revocatur donatio. Lege: Si unquam, Codice de revocandis donationibus. Ma esaminando minutamente il contratto della donazione, le circostanze e le conseguenze, spero di ottenere dalla sapienza del giudice favorevole la sentenza.
Varie ragioni, tutte fortissime e convincenti, m’inducono ad assicurarmi della vittoria.
Prima di tutto è osservabile che quando seguì la donazione di cui si tratta, erano passati dodici anni di matrimonio del donatore, senza aver mai avuti figliuoli, onde si potea persuader ragionevolmente di non più conseguirne. Con questa fede il padre suo naturale si è privato della sua tenera figlia, e senza la previa donazione non gliel’avrebbe concessa.
Ma, più forte, per causa di questa donazione il padre naturale ha collocate le altre due figlie decentemente, nè di questa ha fatto menzione. Ha loro distribuite le sue sostanze, ed affidatosi che la terza fosse provveduta coi beni del donatore, è morto senza lasciare alcun benchè minimo provvedimento, onde, se Rosaura perde la causa, resta miserabile affatto, destituta di ogni soccorso, senza dote, senza casa e senza alimenti.
All’incontro il signor Florindo avversario, se perde, come perderà senz’altro, i ventimila ducati, gli resta la dote materna, consistente in ducati cinquemila, gli restano i fideicommissi ascendentali che ammontano a più di trentamila ducati, come si giustifica nel processo, che avrà vossignoria illustrissima bastantemente osservato.
Tutte le ragioni dette finora, cavate dalle viscere della causa e dalle verità de’ fatti provati, potrebbero bastare per indur l’animo del sapientissimo Giudice a pronunciare il favorevole decreto; ma siccome noi altri jurisconsulti erubescimus sine lege loqui, e gridano le leggi: quidquid dicitur, probari debet, mi dispongo a provare colle autorità, quanto finora ho allegato. La donazione si sostiene, perchè: Donatio perfecta revocari non potest. Clarius in paragrapho donatio, questione prima, numero tertio. Nè osta l’obbietto: per supervenientiam liberorum revocatur donatio. Perchè ciò s’intende, quando la donazione è fatta all’estraneo, non quando è fatta al figliuolo. Lege: Si totas. Codice de inofficiosis donationibus. Sed sic est, che la presente donazione è stata fatta alla figlia adottiva; qua per adotionem aequiparatur filio legitimo et naturali, ergo la donazione non è revocabile.
Ma per ultimo mi sono riserbato il più forte argomento per abbatter tutte le ragioni dell’avversario. La donazione di cui si tratta, benchè abbia aspetto di donazione inter vivos, ella però, riguardo all’effetto di essa, verificabile tantum post mortem donatoris, è più tosto una donazione causa mortis, ut habetur ex hoc titulo de donationibus causa mortis. La donazione causa mortis habet vim testamenti. Lege secunda in verbo legatum, Digestis de dote praelegala. Ergo se non si sostenesse come donazione, si sosterrebbe in vigore di testamento. E vero che mens hominis est ambulatoria usque ad ultimum vita exitum; ma appunto per questo, perchè morendo il donatore non ha revocata la donazione, ha inteso che quella sia l’ultima sua volontà, la quale si deve attendere ed osservare.
Concludo adunque che la donazione non è revocabile, che la donataria merita tutta la compassione, e che unita questa alla giustizia nell’animo di vossignoria illustrissima, mi fa, come diceva a principio, esser sicuro5 della vittoria. (fa una ricerenza al Giudice)
Alberto. (S’alza, dà alcune carte al Lettore, che s’alza e s’accosta al tribunale.)
(Rosaura alza gli occhi, e vedendo Alberto in alto di parlare, fa un atto di disperazione e si asciuga gli occhi col fazzoletto.)
(Alberto la vede, incontrandosi a caso cogli occhi nel di lei volto. Fa anch’egli un atto d’ammirazione. Poi mostra di raccogliersi, e principia la disputa.)
Alberto. Gran apparato de dottrine, gran eleganza de termini ha messo in campo el mio reverito avversario; ma, se me permetta de dir, gran disputa confusa, gran fiacchi argomenti, o per dir meggio, sofismi. Responderò col mio veneto stil, segondo la pratica del nostro foro, che val a dir col nostro nativo idioma, che equival nella forza dei termini e dell’espression ai più colti e ai più puliti del mondo. Responderò colla lezze alla man, colla lezze del nostro Statuto, che equival a tutto el codice e a tutti i digesti de Giustinian, perchè fondà sul jus de natura, dal qual son derivade tutte le leggi del mondo. No lasserò de responder alle dottrine dell’avversario, perchè me sia ignoti quei testi o quei autori legali, dai quali dottamente el le ha prese, perchè anca nualtri, e prima de conseguir la laurea dottoral, e dopo ancora, versemo sul jus comun, per esser anca de quello intieramente informadi, e per sentir le varie opinion dei dottori sulle massime della giurisprudenza. Ma lasserò da parte quel6 che sia testo imperial, perchè avemo el nostro veneto testo, abbondante, chiaro e istruttivo, e in mancanza de quello, in qualche caso, tra i casi infiniti che son possibili al mondo, dal Statuto e non previsti o non decisi, la rason natural xe la base fondamental sulla qual riposa in quiete l’animo del sapientissimo giudice; avemo i casi seguidi, i casi giudicadi, le leggi particolari dei magistrati, l’equità, la ponderazion delle circostanze, tutte cosse che val infinitamente più de tutte le dottrine dei autori legali. Queste per el più le serve per intorbidar la materia, per stiracchiar la rason e per angustiar l’animo del giudice, el qual, non avendo più arbitrio de giudicar, el se liga e el se soggetta alle opinion dei dottori, che xe stadi omeni come lu e che pol aver deciso cussì per qualche privata passion. Perdoni el Giudice se troppo lungamente ho desertà dalla causa, credendo necessario giustificarme a fronte d’un avversario seguace del jus comun, e giustissima cossa credendo dar qualche risalto al nostro veneto foro, el qual xe respettà da tutto el resto del mondo, avendo avudo più volte la preferenza d’ogni altro foro d’Europa, per decider cause tra principi e tra sovrani.
Son qua, son alla causa e incontro de fronte la disputa dell’avversario. Sta bella disputa, fatta da mio compare Balanzoni con tutto el so comodo, senza scaldarse el sangue e senza sfadigar la memoria, la stimo infinitamente; ma, per dir la verità, quel che più stimo e considero in sta disputa, o sia allegazion dell’avversario, xe l’artifìcio col qual l’ha cerca de confonder la causa, de oscurar el ponto, acciò che no l’intenda nè el giudice, nè l’avvocato. Ma l’avvocato l’ha inteso, e el giudice l’intenderà. (il Dottore si va scuotendo)
Coss’è, compare? Menè la testa? M’impegno che in sta causa no ghe n’ave un fil de sutto7. A mi. Coss’ela sta gran causa? Qual elo sto gran ponto de rason8? Xelo un ponto novo? Un ponto che no sia mai stà deciso? El xe un ponto del qual a Venezia un prencipiante se vergogneria de parlarghene in Accademia9. La senta e la me giudica su sta verità, dipendente da un’unica carta che el mio reverito sior Balanzoni non ha avudo coraggio de lezer, e che mi a so tempo ghe lezerò. El sior Anselmo Aretusi, padre del mio cliente, dies’anni l’è sta maridà senz’aver prole, el chiamava10 desgrazia quel che tanti e tanti chiamarave fortuna, e el desiderava dei fioli per aver dei travaggi. L’ha trova un amigo che gh’aveva una desgrazia più granda della soa, perchè el gh’aveva tre fie11, che ghe dava da sospirar. El ghe n’ha domandà una per fia de anema12, e lu ghe l’ha dada volentierissimo, e el ghe l’averave dae tutte tre, se l’avesse podesto. Anselmo tol in casa sta piccola bambina, dell’età de tre anni, el s’innamora in quei vezzi innocenti che xe propri de quell’età, e do anni dopo al se determina a farghe una donazion general de tutti i so beni. Ma la senta con che prudenza, con che cautela e con che preambolo salutar l’omo savio e prudente ha fatto sta donazion; e qua la me permetta che prima de trattar el ponto, prima de considerar i obbietti dell’avversario, ghe leza quella carta che xe la base fondamental della causa, quella donazion che ha ommesso, forsi non sine quare, de lezer el mio avversario, e che la mia ingenuità xe in impegno de farghe prima de tutto considerar. Animo, sior lettor; chiaro, adasio e pulito: contratto de donazion a carte 4.
Lettore. Addì 24 Novembre 1725, Rovigo, (legge caricato nel naso)
Alberto. (Fa un atto d’ammirazione sentendolo difettoso) Bravo, sior sgnanfo13, tirè de longo.
Lettore. Considerando il nobile signor Anselmo Aretusi che in dieci anni di matrimonio non ha avuto figliuoli...
Alberto. Considerando che in dieci anni di matrimonio non ha avuto figliuoli. Via mo, da bravo.
Lettore. E temendo morire...
Alberto. E temendo morire...
Lettore. Senza sapere a chi lasciare le sue facoltà...
Alberto. E temendo morire senza sapere a chi lasciare le sue facoltà. Anemo, compare sgnanfo.
Lettore. Avendo preso per figlia d’anima...
Alberto. Per figlia d’anima... La fia d’anema vol portar via l’eredità a quello che xe fio del corpo? Bella da galantomo. Avanti.
Lettore. La signora... (non sa rilevare la parola che segue)
Alberto. Via, avanti.
Lettore. La signora...
Alberto. La signora... (lo carica) Tireu avanti, o lezio mi?
Lettore. La signora... Rocaura Balanzoni.
Alberto. Cossa diavolo diseu? O quei vostri occhiali fa scuro, o vu no savè lezer, compare. Lasse veder a mi. Compagneme coll’occhio, se digo ben. (prende esso i fogli)
Avendo presa per figlia d’anima la signora Rosaura Balanzoni, a quella ha fatto e fa donazione di tutti i suoi beni, liberi presenti e futuri, mobili e stabili. Tegnì saldo, basta cussì.(rende i fogli al Lettore)
El donator porlo spiegar più chiaramente la so intenzion? Ghe rincresce non aver fioi, el dubita de morir senza eredi, per questo el dona i so beni alla fia d’anema; ma se el gh’aveva fioi, nol donava, ma se el gh’averà fioi, sarà revocada la donazion. Mo! nol l’ha revocada. Se nol l’ha revocada lu, l’ha revocada la lezze. Cessa dise la lezze? Che se el padre donando pregiudica alla ragion dei fioi, no tegna la donazion. Sta donazion pregiudichela alla rason del fio del donator? Una bagattella! la lo despoggia affatto de tutti i beni paterni. Mo! dise l’avvocato avversario, el gh’ha la dote materna, el gh’ha i fideicommessi ascendentali, el xe aliunde provvisto. Questi no xe beni paterni; questi nol li riconosce dal padre, ma dalla madre e dai antenati. I beni paterni xe i beni liberi, nei quali i fioli i gh’ha el gius della legittima, e el padre senza giusta causa no li poi eseredar. Ma come sto bon padre voleva eseredar un so fio, se el se rammaricava non avendo fioi e se el desiderava un erede? A fronte de una legge cussì chiara, cussì giusta, cussì onesta, cussì natural, no so cossa che se possa dir in contrario. Eppur xe sta dito. El dotto Avvocato avversario ha dito. Ma cossa halo dito? Tutte cosse fora del ponto. El vede persa la nave, el se butta in mar, el se tacca ora a un albero, ora al timon, ma un per14 de onde lo rebalta, lo butta a fondi. Esaminemo brevemente i obbietti e risolvemoli, no per la necessità della causa, ma per el debito dell’avvocato.
Prima de tutto el dise: la donazion se sostien, perchè no la xe revocabile. Questo è l’istesso che dir mi son qua, perchè no son là. Ma perchè songio qua? Perchè non ela revocabile? Sentimo ste belle rason. Compatirne, compare Balanzoni, ma sta volta l’amor de! sangue v’ha fatto orbar. La xe vostra nezza15, ve compatisso. El dise: quando el donator ha fatto sta donazion, giera dodes’anni ch’el giera maridà, fin allora no l’aveva abù fioi, onde el se podeva persuader de non averghene più. Vardè se questa xe una rason da dir a un Giudice de sta sorte. Quanti anni gh’aveva la siora Ortensia Aretusi, quando Anselmo so mario ha fatto sta donazion? Vardè16, sior lettor caro, a carte otto, tergo.
Lettore. (Quarda a carte otto e legge) Fede della morte della signora Ortensia Aretusi...
Alberto. No, no, otto tergo.
Lettore. Fede della morte...
Alberto. Tergo, tergo.
Lettore. (Lo guarda e ride con modestia.)
Alberto. Ah! no savè cossa che vuol dir tergo? E sì a muso lo doveressi saver. Vardè da drio alle carte otto. (Oh che bravo lettor!)
Lettore. Fede come nell’anno 1725....
Alberto. Che xe l’anno della donazion.
Lettore. La signora Ortensia, moglie del signor Anselmo Aretusi, aveva...
Alberto. Aveva...
Lettore. Anni...
Alberto. Anni...
Lettore. Trentadue...
Alberto. Trentadue...
Lettore. Ed era in quel tempo...
Alberto. Basta cussì, che me fè vegnir mal. La gh’aveva 32 anni, e so mario desperava de aver più fioi? No l’aveva miga serrà bottega, per dir che no ghe giera più capital. Oh! che caro sior Dottor Balanzoni! Sentì più bella: con sta fede, el padre
della signora avversaria ha concesso so fia all’Aretusi, altrimenti nol ghe l’averave dada. Perchè no s’halo fatto far una piezaria17 dalla siora Ortensia de far divorzio da so mario? Ma bisogna che sta piezaria o ela, o qualchedun altro, ghe l’abbia fatta, perchè su sta fede l’ha collocà le altre do fie, a quelle el gh’ha dà tutto, e questa nol l’ha considerada per gnente. L’è morto senza gnente, e ela no la gh’ha gnente. Da sto fatto l’avversario desume una rason, che s’abbia da laudar18 la donazion, perchè una povera putta no abbia da restar affatto despoggia. Xe ben che la sia vestida, ma se per vestirla ela s’ha da spoggiar un altro, più tosto che la resta nua, che la troverà qualchedun che la vestirà. La resta senza casa e senza alimenti? Mo no gh’ala el sior zio, che xe fradello del padre, e che xe obbligà in caso de bisogno a soccorrer i so nevodi? Dopo che l’avvocato avversario ha dito ste belle cosse, el s’ha impegna de provarle tutte, perchè i giurisconsulti della so sorte se vergogna parlar senza i testi alla man. Ma el s’ha ridotto a provarghene una sola, e saria sta meggio per lu che nol l’avesse provada, perchè la so prova, prova contra de lu medesimo. El dixe: non osta l’obbietto della sopravenienza dei fioi, perchè questa opera quando la donazion xe fatta all’estraneo, no quando l’è fatta a qualch’altro fìol. La fia adottiva se paragona al fiol legittimo e natural, ergo la donazion no xe revocabile. Falso argomento, falsissima conseguenza. El fio adottivo se considera come legittimo e natural, quando manca el legittimo e natural. Co i xe in confronto, el fio per elezion cede al fio per natura, ma de più, se se trattasse de do fioi legittimi e naturali, e el padre avesse donà a uno per privar l’altro, no tegnirave la donazion. Più ancora, se el padre avesse donà a un unico fio legittimo e natural, e dopo ghe nassesse uno o più fioi, sarave revocada la donazion; donca molto più la va revocada nel caso nostro, nel qual se tratta de escluder un fio a fronte d’una straniera. Ecco i gran obbietti, ecco le terribili prove. Tutte
cosse che no val niente, cosse indegne della gravità del Giudice che ne ascolta; e mi, che son l’infimo de tutti i avvocati, arrossisso squasi a parlarghene lungamente: che però vegno all’ultimo obbietto, salvà per ultimo dall’avversario, perchè credudo el più forte, ma che, in quanto a mi, lo metto a mazzo coi altri. El dise: fermeve, che se la donazion me scantina19, come donazion, ve farò un barattin20, e de donazion ve la farò deventar testamento. E qua el me fa la distinzion legal della donazion, inter vivos e causa mortis; e perchè la donataria no podeva conseguir l’effetto della donazion, se non dopo la morte del donator, el dise: la xe una donazion causa mortis; la donazion causa mortis habet vim testamenti, onde non avendo fatto el donator altro testamento, questa se deve considerar per el so testamento. Fin adesso el mio riverito21 avversario; adesso mo a mi, e per vegnir alle curte, con un dilemma ve sbrigo. Voleu che la sia donazion, o voleu che el sia testamento? Se l’è donazion l’è invalida, se l’è testamento nol tien. Forti a sto argomento, dai filosofi chiamà cornuto, e vardevene ben, che el ve investe da tutte le bande. Se l’è donazion, l’è invalida, perchè per la sopravenienza dei fioi se revoca la donazion. Se l’è testamento, nol tien, perchè quel testamento che no considera i fioi, che li priva dell’eredità e della legittima, i xe testamenti ipso jure nulli; e i xe nulli per le nostre venete leggi, e i xe nulli per tutte le leggi del jus comun. Onde donazion invalida, testamento no tien, questa xe una tenacca22, da dove no se se cava, senza perder el matador23. Ma el matador l’avè perso, e mi la causa l’ho vadagnada, perchè so con chi parlo; l’ho vadagnada, perchè so de che parlo. Parlo con un Giudice, che intende e che sa; parlo d’una materia più chiara della luse del sol. Da un’unica carta dipende la disputa, la controversia,
el giudizio. Sta carta xe invalida, la va taggiada24, el Giudice la taggierà: perchè la donazion non sussiste, nè come donazion, nè come testamento; perchè un fiol legittimo e natural non ha da esser privà dell’eredità paterna a fronte de una straniera; perchè in sto caso, dove se tratta della verità e della giustizia, non ha d’aver logo la compassion; perchè se l’avversaria resterà miserabile, sarà colpa del padre de natura, no del padre d’amor, dal qual senza debito e con danno del fiol che defendo, l’è stada mantenuda e custodida per tanti anni; e in ancuo25, quel che ha fatto Anselmo Aretusi per carità, lo pol far, e lo farà, l’avvocato Balanzoni per obbligo e per dover; e sarà effetto della giustizia26 taggiar la donazion, previa la revocazion della tal qual sentenza a legge avversaria, in tutto e per tutto a tenor della nostra domanda, compatindo l’insufficienza dell’avvocato che malamente ha parlà.
(S’inchina e va dietro al tribunale, dove vi è il Servitore che gli mette il ferraiuolo ed il cappello; e col fazzoletto coprendosi la bocca, parte col Servitore.)
Giudice. (Suona il campanello. Tutti si alzano, fuorchè esso Giudice ed il Notaro.)
Comandador. Signori, tutti vadano fuori. (Tutti, facendo riverenza al Giudice, s’incamminano. Il Dottore dà mano a Rosaura, che si asciuga gli occhi.)
Dottore. Non piangete, che vi è ancora speranza. (a Rosaura)
Rosaura. Speranze vane! Sono precipitata. (parte col Dottore e col Sollecitatore)
Lelio. Che ne dite? Si è portato bene? (a Florindo)
Florindo. Non potea dir di più. (parte con Lelio)
Giudice. (Detta sottovoce la sentenza al Notaro, il quale scrive; intanto si tirano in disparte il Lettore ed il Comandador a discorrere assieme.)
Comandador. Come va 27, signor Agapito? Fate il lettore e non sapete leggere?
Lettore. Vi dirò: quella povera ragazza mi faceva tanta pietà, che mi cascavano le lagrime e non ci vedeva.
Comandador. Io avrei più gusto che la vincesse il signor Florindo.
Lettore. Perchè?
Comandador. Perchè da lui potrei sperare una mancia migliore.
Lettore. Ma che dite di quel bravo avvocato veneziano? Grand’uomo di garbo! E sì, quando lo dico io!...
Comandador. Certo è bravissimo. Ma a Venezia ne ho sentiti tanti e tanti più bravi di lui.
Lettore. Sì eh? Oh, se posso, voglio andare a fare il lettore a Venezia.
Comandador. Se non sapete che cosa voglia dir tergo.
Lettore. E voi volete mettere la lingua dove non vi tocca.
Giudice. (Suona il campanello.)
Comandador. (Va alla porta) Dentro le parti.
SCENA III.
Il Dottore col suo Sollecitatore. Florindo, Lelio ed il Sollecitatore di Alberto, e detti. Vengono ognuno dalla sua parte, e s’inchinano al Giudice.
Notaro. (S’alza e legge la sentenza) L’illustrissimo signore...
Dottore. La supplico. La non istia a incomodarsi a leggere il preambolo: la favorisca di farci sentire l’anima della sentenza.
Notaro. Omissis etc. Consideratis, considerandis etc. Decretò e sentenziò, e decretando e sentenziando tagliò, revocò e dichiarò nulla la donazione fatta dal fu Domino Anselmo Aretusi a favore di domina Rosaura Balanzoni, annullando la sentenza a legge pronunziata a favore della medesima, in tutto e per tutto a tenore della domanda d’interdetto di D. Florindo Aretusi, condannando D. Rosaura perdente nelle spese ecc. ecc. sic etc. ordinando etc. relassando etc.
Florindo. L’abbiamo vinta. (a Lelio)
Lelio. Mi rallegro con voi.
Dottore. Condannarmi poi nelle spese...
Giudice. Se non vi piace, appellatevi. (s’alza e parte)
Dottore. Obbligatìssimo alle sue grazie. Intanto che mi beva questo siroppo. Andiamo pure. Io non ne vo’ saper altro. (parte col Sollecitatore)
Florindo. Signor notaro, farà grazia di farmi subito cavare la copia della sentenza.
Notaro. Sarà servita.
Florindo. Favorisca. (gli vuol dare del denaro)
Notaro. Mi maraviglio. (lo ricusa in maniera di volerlo)
Florindo. Eh via! (glielo mette in mano)
Notaro. Come comanda. (lo prende, e parte guardandolo)
Comandador. Illustrissimo, mi rallegro con lei. Sono il comandador, per servirla. (a Florindo)
Lettore. Ed io il lettore ai suoi comandi. (a Florindo)
Florindo. Sì, buona gente, v’ho capito. Tenete, bevete l’acquavite per amor mio. (dà la mancia a tutti due)
Lettore. Obbligatìssimo a vossignoria illustrissima.
Comandador. Viva mille anni vossignoria illustrissima.
Florindo. Andiamo a ritrovare il signor Alberto. (a Lelio)
Lelio. Amico, si è meritata una buona paga.
Florindo. Trenta zecchini vi pare saranno abbastanza?
Lelio. L’azione eroica che ha fatto, ne merita cento; voi m’intendete senza che io parli.
Florindo. È vero, gli voglio dare ora subito cinquanta zecchini, e poi a suo tempo vedrà chi sono.
Lelio. Non mi credeva che un uomo fosse capace di tanta virtù. (parte)
Florindo. Se trovo quell’indegno del Conte, lo vo’ trattar come merita. (parte)
Comandador. Quanto vi ha dato?
Lettore. Un ducato. (lo mostra)
Comandador. Ed a me mezzo? Maladetto! A me mezzo ducato, che son quell’uomo che sono, e un ducato a colui, che non sa nemmeno che cosa sia tergo. (parte)
Lettore. Grand’asinaccio! Si vuol metter con me! Si vuol mettere con un lettore? Sono stato io, che gli ho fatto guadagnar la causa. Ho una maniera di leggere così bella, che il Giudice capisce subito il merito della ragione. (parte)
SCENA IV.
Camera di Beatrice.
Beatrice e Colombina.
Beatrice. Credetemi, Colombina, che io sono impaziente per intendere l’esito di questa causa; amo la signora Rosaura, e mi dispiacerebbe infinitamente vederla afflitta. Ho mandato Arlecchino, perchè senta chi ha vinto o chi ha perso, e me ne porti subito la relazione.
Colombina. Avete veramente mandato un soggetto di garbo. Intenderà male, e riporterà peggio.
Beatrice. Eccolo.
SCENA V.
Arlecchino e dette.
Arlecchino. Son qua; allegramente.
Beatrice. Chi ha vinto?
Arlecchino. Non lo so.
Beatrice. Se non lo sai, perchè dici allegramente?
Arlecchino. Perchè a Palazzo ho sentido a dir che i ha vinto la causa.
Beatrice. Ma chi l’ha vinta?
Arlecchino. Se ghe digo che no lo so.
Colombina. Non l’ho detto io che è uno sciocco?
Beatrice. Asinaccio! Ti mando per sapere chi ha vinto; ritorni, e non lo sai?
Arlecchino. Savì chi credo che abbia vinto? I avvocati.
Colombina. Avrà vinto uno dei due avvocati.
Arlecchino. Sior no: i avrà vinto tutti do, perchè i sarà stadi pagadi tutti do.
Colombina. Sei un buffone.
Beatrice. Ed io non posso sapere come sia la cosa. (si sente picchiare) È stato picchiato. Colombina, va a vedere.
Colombina. Vado subito. Se la signora Rosaura ha vinto, mi darà la mancia.
Arlecchino. La spartiremo metà per un.
Colombina. Sì, come hai spartiti li due zecchini. (parte)
Beatrice. Che cosa dice di due zecchini?
Arlecchino. Che dirò mi. La sappia che i do zecchini... siccome el candelier del sior Conte Ottavio; anzi, per la sentenza del signor Dottor Balanzoni, i ho trovadi mi; e Colombina, per amor delle faccende de casa... Ma no, la sappia che mi28 son omo onorato, che el candelier l’era sul tavolin, e così...
Beatrice. Va al diavolo, sciocco.
Arlecchino. Servitor umilissimo. (parte)
SCENA VI.
Beatrice, poi Alberto, poi Colombina.
Beatrice. Costui non sa mai quel che diavol si dica. Ma ecco il signor Alberto29.
Alberto. Ghe domando scusa, se me son preso l’ardir d’incomodarla.30
Beatrice. E bene, come è andata la causa?
Alberto. La causa l’ho guadagnada, ma ho perso el cuor.
Beatrice. E la povera signora Rosaura ha persa la lite?
Alberto. E la povera signora Rosaura ha perso la lite, (sospira)
Beatrice. Sì, fate come il coccodrillo, che uccide e poi piange.
Alberto. Se la vedesse qua dentro, no la dirave cussì.31 Son qua da ela, za che la gh’ha tanto amor per siora Rosaura e tanta bontà per mi, son qua a pregarla con tutte le vissere, con tutto el cuor, a rappresentarghe el mio rincrescimento, assicurarla del mio dolor.
Beatrice. Io non ho difficoltà di farlo, ma quest’ufficio sarebbe grato alla signora Rosaura, se lo faceste da voi.
Alberto. La vede ben, a mi no me xe lecito de andarla a trovar a casa. No ghe son mai sta; per nissun titolo me posso tor una tal libertà.
Beatrice. Trattenetevi qui. Può essere che ella venga a sfogar meco le sue passioni.
Alberto32. El ciel volesse che la vegnisse! Chi sa? Se la gh’ha per mi quell’istessa bontà che la mostrava d’aver, gh’ho un progetto da farghe, che me lusingo la poderà risarcir.
Colombina. Signora padrona, è qui la signora Rosaura che vorrebbe riverirla.
Alberto. La fortuna me favorisse33.
Beatrice. Dille che è padrona.
Colombina. (Poverina! è molto malinconica! Causa questo signor Veneziano!) (parie)
Beatrice. Eccola, signor Alberto.
Alberto. Oimè! che sudor freddo! Tremo tutto. Per amor del cielo, la lassa che me sconda per un pochetto; vôi sentir come che la pensa de mi34.
Beatrice. Vedete; in questa camera non vi è altra porta che quella: da dove, se uscite, incontrate per l’appunto la signora Rosaura. Sentitela che sale le scale.
Alberto. Se la me assalta con collera, dubito de morir sulla botta. La prego, la lassa che me sconda sul pergolo35, che me serra drento, che senta con che caldo la concepisse el motivo della so desgrazia. Cara ela, no la ghe diga gnente. La me fazza sto piaser36.
Beatrice. Fate ciò che vi aggrada, non parlerò.
Alberto. Fortuna, te ringrazio; sentirò senza esser visto, e prenderò regola dai effetti della so passion. (va sul poggiolo, e si serra dentro)
Beatrice. Grand’amore ha il signor Alberto per Rosaura; e ha avuto cuore di farle contro? Io non la so capire.
SCENA VII.
Rosaura, Beatrice ed Alberto nascosto.
Beatrice. Cara amica, quanto me ne dispiace.
Rosaura. L’avete saputa la nuova?
Beatrice. Pur troppo. Via, consolatevi. Sarà quello che il cielo vorrà. La sorte vi assisterà per qualche altra parte.
Rosaura. Eh! cara Beatrice, per me è finita. La causa è persa: mio zio, che ha da supplire alle spese di questa, non ne vuol saper altro, non si vuole appellare.
Beatrice. E il Conte, che dirà?
Rosaura. Il Conte si è dichiarato pubblicamente che, se perdo la lite, non mi vuol più.
Beatrice. Vostro zio vorrà condurvi seco a Bologna.
Rosaura. Pensate! Mi ha detto a lettere cubitali che non vuole più saper nulla di me, che è povero anch’esso, che ha la sua famiglia in Bologna, e che non può soccorrermi.
Beatrice. Sicchè dunque, che risolvete di fare?
Rosaura. Qualche cosa sarà37 di me. Il cielo sa che ci sono; il cielo mi assisterà.
Beatrice. Il signor Alberto mostra avere per voi della parzialità e dell’amore.
Rosaura. Oh, cara amica! Il signor Alberto se ne anderà fra poco a Venezia, e non si ricorderà più di me. Barbaro, inumano! Se l’aveste sentito, come parlava! Pareva che io fossi la sua più crudele nemica.
Beatrice. Mi avete detto però più volte che, considerando il suo impegno, eravate costretta a compatirlo.
Rosaura. Non credeva che parlar dovesse con tanto calore. La sua disputa mi ha atterrito. Le sue parole mi hanno strappato il cuore. Mi sono lusingata che egli mi amasse, ma non è vero. Contro chi si ama, non si inveisce a tal segno. Poteva difendere il suo cliente, ma non mettere in derisione me, la mia causa ed il mio difensore. Oimè! Che fiero caldo mi opprime! Amica38, fatemi portare un bicchier d’acqua fresca.
Beatrice. Subito. Vado io stessa a prenderla. Fate una cosa, se avete caldo, andate sul terrazzino a prendere un poco d’aria. (Vo’ lasciar che la natura operi). (parte)
SCENA VIII.
Rosaura, poi Alberto.
Rosaura. Non dice male. Aprirò il terrazzino, e prenderò un poco d’aria. (apre e vede Alberto) Oimè! questo è un tradimento.
Alberto. No, siora Rosaura, non son qua per tradirla, ma per consolarla, se posso.
Rosaura. Sarà una consolazione compagna a quella che mi avete data nel tribunale.
Alberto. Mo no sala el mio impegno? Non hala approvà ela istessa, con tanto merito, le giuste premure del mio onor, della mia estimazion?
Rosaura. Sono miserabile per causa vostra.
Alberto. Chi fa el mal, ha da procurar el remedio. Per causa mia la xe ridotta in sto stato, e mi son qua prontissimo a remediarghe.
Rosaura. Oh Dio! ma come?
Alberto. Ela ha perso un stato comodo, un mario nobile, mi ghe offerisse un stato mediocre, un consorte civil.
Rosaura. E chi è mai questo, che abbassare si voglia alle nozze d’una infelice?
Alberto. Mi, siora Rosaura, mi che conossendo el so merito, la so bontà, i so boni costumi, l’amor che la gh’ha per mi, sarave un ingrato, un barbaro, un senza cuor, se no cercasse de reparar co la mia man i danni che gh’ha cagionà la mia lengua.
Rosaura. Cari danni, dolci pene, perdite fortunate, se mi rendono la più felice, la più fortunata donna di questa tena. Ma, oh Dio! Voi mi lusingate, voi me lo dite per acquietare i tumulti della mia passione.
Alberto. Ghe lo digo de cuor, ghe lo digo de vero amor; e per prova della verità, confermo la mia promessa col zuramento e ghe offerisse la man.
Rosaura. Oh dolcissima mano! Tu non mi fuggirai certamente. Tu sei la mia speranza, il mio refugio, l’unica mia consolazione. Ti stringo, t’adoro, a te mi raccomando: abbi pietà di questa povera sventurata. (lo tiene per mano)
Alberto. Sì, cara, sì, colonna mia...
SCENA IX.
Beatrice con un Servo, che porta un bicchiere d’acqua, e detti.
Beatrice. Bravi, bravissimi. Me ne rallegro infinitamente. Rosaura, vi ho portato un bicchiere d’acqua, ma ora ve ne vorrà una secchia per ammorzare il nuovo calore.
Rosaura. Amica, non so dove io mi sia.
Beatrice. Non lo sapete? Ve lo dirò io. In compagnia di un bel pezzo di giovinetto, che vi farà passare la malinconia della lite.
Alberto. La xe arente un omo d’onor, che coll’amor più illibato del mondo cerca de consolar una povera giovane, piena de virtù e de merito, e circondada da spasemi e da desgrazie.
Beatrice. Siate benedetto. Avete un cuore adorabile. Ehi! dite, la volete sposare?
Alberto. Se ela se degna, la stimerò mia fortuna.
Beatrice. Se si degna? Capperi se si degnerà! (Mi degnerei anch’io).SCENA X.
Lelio, Florindo e detti.
Lelio. Con permissione della signora Beatrice. Amico, vi abbiamo ricercato da per tutto, e non vi abbiamo trovato; abbiamo saputo che eravate qui, e ci siamo presi la libertà di qui venire per abbracciarvi, e consolarci con voi della eroica azione che avete fatta. (ad Alberto)
Alberto. Cossa disela, sior Florindo? Hala più zelosia de vederme vicin alla so avversaria?
Florindo. No, caro sior Alberto; anzi vi chiedo scusa de’ miei troppo ingiusti sospetti. Voi siete il più illibato, il più prudente, il più saggio uomo del mondo; da voi riconosco la mia vittoria; molto dovrei fare per ricompensare le vostre virtuose fatiche; ma vi prego per ora degnarvi di accettare per una caparra delle mie obbligazioni questi cinquanta zecchini, che vi offerisco. (gli presenta una borsa)
Alberto. Sior Florindo amatissimo, no è per superbia, ne per avarizia, che ricusa la generosa offerta che la me fa; perchè l’omo, de qualunque profession el sia, nol s’ha da vergognar de ricever el premio delle so fadighe, e riguardo al mio merito, cinquanta zecchini i xe anca troppi; la prego però de despensarme dall’accettarli, e permetterme che li ricusa, senza offenderla e senza disgustarla. La rason, perchè no li accetto, xe ragionevole e giusta. La mia disputa, per un ponto d’onor, ha ridotto in miseria la povera signora39 Rosaura, e no vôi che se creda che abbia sacrificà alla mercede l’amor che aveva per ela40.
Florindo. Sentimenti eroici e sublimi, degni d’un uomo del vostro merito e della vostra virtù.
Alberto. La diga d’un avvocato onorato.
Florindo. Ma vi prego a non lasciarmi col rossore di vedermi ingrato e sconoscente con voi.
Alberto. La fede che l’ha avudo in mi, non ostante tutte quelle false apparenze che me voleva far creder reo, xe una mercede che ricompensa ogni mia fatica.
Florindo. Giacchè ricusate questo denaro, fatemi un piacere; ve lo domando per grazia, per finezza; degnatevi di accettare questo piccolo anello, per una memoria della mia gratitudine. Val meno dei cinquanta zecchini, ma poichè volete così, non ricusate il dono, se ricusaste la ricompensa.
Alberto. Orsù, no voggio con un’affettada ostinazion confonder la virtù coll’inciviltà. Accetto l’anello che la me dona, e la varda che bell’uso che ghe ne fazzo; qua, alla so presenza, lo metto in deo alla mia novizza41.
Lelio. Come! È vostra sposa?
Florindo. Rosaura vostra consorte?
Alberto. Sior sì, patron sì. Mia sposa, mia consorte. Ella aveva bisogno d’uno che rimediasse alle so disgrazie, mi aveva bisogno d’una che assicurasse la quiete e el decoro della mia fameggia, e se fazzo el bilanzo del so merito e del mio stato, trovo aver mi vadagnà moltissimo più de ela.
Lelio. Me ne rallegro infinitamente. Faremo le nozze in casa mia, se vi compiacete.
Alberto. Accetto le vostre grazie; e za che el sior Florindo m’ha dà l’anello, se el se degna, lo prego d’esser compare dell’anello42 de mia muggier43.
Florindo. Molto volentieri accetto l’onore che voi mi fate. Signora Rosaura, signora comare, vi chiedo scusa, se vi sono stato nemico; in avvenire vi sarò buon servitore e compare.
Rosaura. Gradisco infinitamente le vostre generose espressioni. Compatisco la cagione che vi rendeva di me avversario, e mi sarà d’onore la vostra cortese amicizia.
Beatrice. Cara la mia sposina, venite qua; lasciate che vi dia un bacio. Mi fate piangere dall’allegrezza. (le dà un bacio)
Lelio. Ma il Conte che dirà?
Beatrice. Si è protestato che, se Rosaura perde la lite, non la vuol più.
Alberto. No se pol però concluder sto matrimonio, se no se strazza al contratto del Conte. Voggio che femo le cosse come che va.
Florindo. Il contratto del Conte lo romperò io, perchè gli romperò ben bene la testa. Indegno! impostore! calunniatore! bugiardo!
SCENA ULTIMA.
Il Dottore vestito da campagna, e detti.
Dottore. Servitor di lor signori.
Rosaura. Signore zio, da campagna?
Dottore. Signora sì, vado a Bologna. Ho saputo che siete qui, e son venuto a vedervi.
Rosaura. Ed io che farò in Rovigo senza di voi? Come volete ch’io viva?
Dottore. Cara la mia figliuola, mi si spezza il cuore, ma non so che cosa farvi. Son pover’uomo ancor io. Sperava anch’io sull’esito della lite, ma siamo restati delusi.
Rosaura. Consolatevi che il cielo mi ha provveduto.
Dottore. Sì? In che modo?
Rosaura. Sono sposa del signor Alberto.
Dottore. Dite da vero, la mia ragazza?
Alberto. Sior sì, xe la verità. La sarà mia muggier, se el sior Balanzoni se degna de sto matrimonio.
Dottore. Anzi ne provo tutta la consolazione. Non poteva avere una nuova più felice di questa. Signor avvocato, le sarò zio amoroso e servitore obbligato.
Alberto. E mi la venero come mio barba44, mio patron e, poderia dir, mio maestro...
Dottore. Ora so che mi burla.
Alberto. Me despiase che per concluder sto matrimonio, sarà necessario far renunziar legalmente al sior Conte le so pretension.
Dottore. Consolatevi, che le ha rinunziate.
Florindo. Come! Dove è il Conte?
Dottore. È ritornato alle sue montagne, e prima di partire, con un monte di villanie, mi ha restituita la scrittura stracciata; ed eccola qui.
Alberto. Co l’è cussì, podemo sposarse45 quando volemo.
Rosaura. Io dipendo dai vostri voleri.
Beatrice. Animo, animo, chi ha tempo, non aspetti tempo.
Alberto. Ecco che alla presenza del so sior zio, del sior compare, e de sior Lelio ghe dago la man.
Rosaura. Ed io l’accetto, e prometto di essere vostra sposa.
Alberto. Siora Rosaura, mia cara sposa, mia diletta muggier, adesso xe el tempo de metter in pratica quella bella virtù che fin al presente l’ha coltivà. Ela passa dal stato felice della libertà a quello laborioso del matrimonio. Mi ghe vôi ben, sempre ghe ne vorrò; in casa mia spero che gnente ghe mancherà. La meno in una gran città, dove abbonda le ricchezze, i spassi, i divertimenti. Ma giusto per questo, la se prepara de metter in opera tutta la so virtù. Dell’amor del mario no la se ne abusa; del stato comodo no la se insuperbissa; i spassi e i divertimenti la i toga con moderazion. Perchè l’amor se coltiva coll’amor; le fameggie se conserva colla prudenza; i divertimenti i dura, co i xe discreti. La compatissa, se cussì subito, e a prima vista, ghe fazzo una specie de ammonizion, perchè se tutti i maridi fasse sta lizion alla sposa el dì delle nozze, se vederave manco matrimoni odiosi, manco fameggie precipitade, manco femene descreditade. Perchè no ghe xe cossa che rovina più la muggier, quanto la condiscendenza del poco savio mario.
Fine della Commedia.
Note
- ↑ Lo Stesso che interveniente. V. vol. I, p. 270, della presente ed.
- ↑ Bett. e Pap.: ancor lui col.
- ↑ Bett.: Rhodigiensis.
- ↑ Bett.: figlie femmine.
- ↑ Bett.: assicurare.
- ↑ Così Bett. e Pap.; Pasq. e Zatta: quelle.
- ↑ Non avete un principio di ragione. [nota originale]
- ↑ Ponto de rason, articolo legale [nota originale]
- ↑ In Venezia si accostumano le Accademie, nelle quali la gioventù si esercita nell’arringare [nota originale]
- ↑ Così Bett. e Pap.; Pasquali e Zatta: e el chiama.
- ↑ Fie, figlie. [nota originale]
- ↑ Fia de anema, figlia per affetto, o sia adottiva. [nota originale]
- ↑ Sgnanfo, si dice chi parla nel naso. [nota originale]
- ↑ Paio.
- ↑ Nezza, nipote. [nota originale]
- ↑ Bett. e Pap.: vardemo.
- ↑ Piezaria, mallevadoria. [nota originale]
- ↑ Laudar, termine del Foro veneto, che significa confermar. [nota originale]
- ↑ Scantina, traballa. [nota originale]
- ↑ Barattin, scambietto. [nota originale]
- ↑ Zatta: riverido.
- ↑ Boerio: in tanacca, in bivio, in alternativa, in dubbio ecc.
- ↑ «Voce spagnuola, e presso noi significa le principali carte del giuoco, come all’ombre la spadiglia, la maniglia, il busto; al tresette il tre, il due ecc.»: Boerio, Diz. del dialetto ven. cit.
- ↑ Taggiar, termine del Foro Veneto, che significa annullare o revocare. [nota originale]
- ↑ In ancuo, in oggi. [nota originale]
- ↑ Bett. e Pap. aggiungono: e virtù de Vussustrissima.
- ↑ Bett.: Cosa vuol dire.
- ↑ Bett. e Pap.: Ma sti do zecchini, la sappia, siora, perchè mi ecc.
- ↑ Bett. e Pap. aggiungono: da esso potrò rilevare la verità.
- ↑ Segue nelle edd. Bett. e Pap.: Un affanno crudel me sprona a vegnirme a sfogar con ela, za che la xe a parte de quell’amor infelice che passa tra siora Rosaura e mi.
- ↑ Segue nelle edd. Bett. e Pap.: «Beatr. Ma, signor Alberto, che pass’io far per servirvi? Alb. Son qua da ela ecc.»
- ↑ Nelle edd. Bett. e Pap. così dice Alberto: Se la vegnisse qua, mi scamparia. Non gh’ho cuor de vederla. No gh’ho coraggio de starghe a fronte. Prevedo i so rimproveri, le so smanie. Me atterrisse l’imagine della so collera giustamente eccitada dalla mia crudeltà.
- ↑ Così invece nelle edd. Bett. e Pap.: (Ah poveretto mi!)
- ↑ Bett. e Pap.: Per amor del cielo! la lassa che vaga via, o che me sconda.
- ↑ Sul pergolo, sul poggiolo o sia terrazzino. [nota originale]
- ↑ Bett. e Pap.: sta carità.
- ↑ Bett. e Pap.: sarà anco.
- ↑ Bett. e Pap.: Amica, per carità.
- ↑ Così tutte le edizioni.
- ↑ Bett. e Pap.: e no vôi che se diga che abbia accettà la ricompensa dell’onorata mia crudeltà.
- ↑ Novizza, sposa. [nota originale]
- ↑ Costume dello Stato Veneto di chiamar compare dell’anello chi serve per testimonio agli sponsali. [nota originale]
- ↑ Muggier, moglie. [nota originale]
- ↑ Barba, zio. [nota originale]
- ↑ Così Bett.; tutte le altre edd.: sposare.