L'uniforme
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L’UNIFORME 1
In una divisione di Ministero... Ma forse è meglio non dirvi in quale divisione. Non vi è, in Russia, razza più suscettibile dei funzionari dei ministeri, dell’esercito, della cancelleria; breve, di tutti quelli che si comprendono sotto il nome generico di burocratici. Per poco che un di costoro si creda offeso, subito crede che tutta l’amministrazione subisca un affronto nella propria persona.
Dunque, un ispravnik 2, non so più in quale città, aveva redatto un rapporto con lo scopo di dimostrare che gli ordini del governo non eran più rispettati, considerato che si permettevano di dare al sacro titolo di ispravnik una significazione sprezzante; e, per provarlo, aveva unito al suo rapporto un enorme in-foglio, contenente una specie di romanzo, dove s’incontrava, a ogni dieci pagine, un ispravnik in perfetto stato di ubriachezza.
Così, per metter a tacere anticipatamente su ogni reclamo, amai meglio non precisare in modo certo la divisione del Ministero dove avviene il mio racconto, e mi accontentai di dire: «in una cancelleria».
Vi era dunque, in una cancelleria, un uomo, un impiegato che, non posso nasconderlo, era d’un esteriore abbastanza insignificante. Basso di statura, aveva il viso alquanto butterato, i capelli un po’ fulvi, il cranio discretamente calvo, le tempie e le guance solcate da rughe, senza contare le altre imperfezioni. Tale era il ritratto del nostro eroe, come l’aveva fatto il clima di Pietroburgo.
In quanto al suo grado nell’amministrazione — poichè da noi conviene prima di tutto designare il grado di un funzionario, — era quello che comunemente si chiama un «consigliere titolare» 3, vale a dire un di quei disgraziati sui quali s’esercita, come si sa, la fantasia ironica di certi scrittori macchiati dalla deplorevole abitudine di prendersela con gente che non può difendersi.
Il nostro eroe si chiamava col nome di famiglia, Basmaskin 4. Si chiamava ancora col suo nome e col nome di suo padre, Akaki Akakevic 5.
Forse il lettore troverà questi nomi un po’ strani e un po’ ricercati, ma posso assicurarlo che non lo sono punto e che le circostanze m’hanno messo nella impossibilità di sceglierne altri.
Difatti, ecco cosa era avvenuto.
Akaki Akakevic, se la memoria non mi tradisce, venne al mondo nella notte del due marzo. La defunta sua madre, che aveva sposato un funzionario e che era una buona donnetta, si occupò subito, com’era doveroso, di far battezzare il neonato. Alla sua destra stava in piedi il padrino, Ivan Ivanovic Ieroskin, personaggio importantissimo, che era incaricato di registrare gli atti del Senato; e, a sinistra, la madrina, Arina Semenovna Belocruskow, moglie d’un ispettore di polizia, dotata di rare virtù.
Si proposero tre nomi a scelta alla puerpera: Mokuis, Kokuis e Shosdakuis.
— No, disse lei, — nessuno dei tre mi piace.
Per sodisfare i suoi desideri, si aprì l’almanacco in un altro luogo, e si mise il dito su due altri nomi: Trifili e Warasciatins.
— Ma è una punizione del buon Dio! — esclamò la madre. — Si videro mai simili nomi! È la prima volta in vita che ne sento parlare. Fosse almeno Waradat o Baruch, ma Trifili e Warasciatins!
Si sfoglio nuovamente l’almanacco e si trovò Pavsikachi e Wachlissi.
— No. Davvero, — disse la madre, la sorte è avversa; se non vi è meglio da scegliere, e’ si tenga il nome di suo padre. Il padre si chiama Akaki. Ebbene... anche il figlio si chiami Akaki.
Ed ecco come lo si battezzò Akaki Akakevic.
Il fanciullo fu spruzzato d’acqua, il che lo fece gridare e dimenar con ogni sorta di smorfie, come se avesse previsto che un giorno diventerebbe consigliere titolare.
Abbiamo tenuto a riportare i fatti esattamente, perchè il lettore si persuada bene che la cosa non poteva andare altrimenti e che il piccolo Akaki non poteva aver ricevuto altro nome.
A che tempo Akaki Akakevic entrò nella Cancelleria e chi gli fece ottenere quel posto, nessuno oggi potrebbe dirlo. Ma i superiori d’ogni ordine avevano un bel succedersi; lui si vedeva sempre allo stesso posto, nella stessa attitudine, occupato del medesimo lavoro, conservando lo stesso ordine gerarchico, così bene, da costringere a credere che fosse venuto al mondo tale qual’era, con le tempie calve e l’uniforme ufficiale.
Nella cancelleria dov’era impiegato, nessuno lo rispettava. Gli stessi giovani d’ufficio non si alzavano quand’egli entrava, non ponevano mente a lui, non ne facevano più caso d’una mosca che fosse passata volando. I superiori lo trattavano con tutta la freddezza del dispotismo. Gli aiutanti del capo d’ufficio si guardavan bene dal dirgli, quando gli gettavano sotto il naso una montagna di carte:
— Abbia la bontà di copiar questo.
Oppure:
— Ecco qualcosa di interessante, un grazioso lavoretto.
O un’altra parola amabile, com’è d’uso fra gl’impiegati per bene.
Akaki, a sua volta, prendeva gli atti, senza chiedersi se avevano torto o ragione di portarglieli. Li prendeva e si metteva subito a copiarli.
I colleghi, più giovani di lui, ne facevano l’oggetto dei loro scherzi e il bersaglio ai loro tratti di spirito — per quanto gl’impiegati di cancelleria possano pretendere a far dello spirito. — Talora raccontavano inanzi a lui un fascio di storie imaginate a capriccio sul suo conto e su quello della donna che l’ospitava, una vecchia settuagenaria. Dicevano ch’essa lo picchiava, oppure gli chiedevano quando la condurrebbe all’altare, oppure lasciavano cadergli addosso ritagli di carta, sostenendo che eran fiocchi di neve.
Akaki non aveva una parola di rimbrotto contro tutti questi attacchi; faceva come se non vi fosse anima intorno a lui. Tutte queste piccole cattiverie non avevano alcuna influenza sulla sua assiduità al lavoro; pur fra tante tentazioni a distrarsi, non faceva un solo sbaglio di scrittura. E allorchè lo scherzo diveniva troppo intollerabile, allorchè lo prendevano per le braccia e gli impedivano di scrivere, egli diceva:
— Via, lasciatemi stare! Perchè volete assolutamente disturbarmi nel mio lavoro?
E vi era qualcosa di singolarmente commovente in queste parole e nella maniera che le pronunziava.
Un giorno accadde che un giovinotto, il quale aveva appena ottenuto un impiego all’ufficio, spinto dall’esempio degli altri, volle rider come loro alle sue spalle; si trovò a un tratto inchiodato al suolo da quella voce; tanto che d’allora guardò il vecchio impiegato con tutt’altro occhio.
Si sarebbe detto che una potenza soprannaturale l’allontanasse dagli altri colleghi, che aveva imparato a conoscere, e che sulle prime aveva preso per gente da bene e educata. Ora provava per loro una vera ripugnanza. E molto tempo dopo, fra le più allegre brigate, aveva sempre sotto gli occhi l’imagine del piccolo consigliere titolare, dalla fronte calva, e udiva risuonarsi alle orecchie:
— Via, lasciatemi stare! Perchè ci tenete assolutamente a disturbarmi nel mio lavoro?
E con queste parole ne udiva altre:
— Non sono vostro fratello?
Il giovinotto nascose il viso fra le mani e riflettè ai pochi sentimenti veramente umani che vibravano nel cuore dell’uomo, e quanto la crudeltà e la rudezza sia un’abitudine in quelli che ricevettero una buona educazione; anche nelle persone che passano generalmente per buone e stimabili.
Non v’è luogo ove si sarebbe trovato un impiegato che adempiesse ai suoi doveri con tanto zelo quanto il nostro Akaki Akakevic. Che dico? zelo?... egli lavorava con amore, con passione.
Quando copiava degli atti officiali, vedeva aprirsi innanzi un mondo tutto bello e tutto ridente. Il piacere che provava gli si leggeva sul viso. Vi erano dei caratteri che egli dipingeva nel vero senso della parola, con particolare sodisfazione; quando giungeva a un punto importante, diveniva altro uomo: sorrideva, gli occhi scintillavano, le labbra si piegavano, e quelli che lo conoscevano potevano indovinare dalla sua fisionomia che lettere modellava in quel momento.
Se fosse stato pagato secondo il suo merito, si sarebbe inalzato, certo con viva sua sorpresa, forse al grado di consigliere di Stato. Ma, come dicevano i suoi colleghi, non poteva portare una croce all’occhiello, e tutta la sua assiduità non gli fruttava che emorroidi.
Tuttavia, devo dire che gli accadde un giorno d’attirare una certa attenzione. Un direttore che era un brav’uomo, e che voleva ricompensarlo dei lunghi servigi, ordinò di confidargli un lavoro più importante degli atti che era abituato a copiare. Questo nuovo lavoro consisteva nel redigere un rapporto diretto a un magistrato, nel modificare le intestazioni di alcuni atti e nel cambiare nel corso del testo il pronome di prima persona in quello di terza.
Akaki adempì il suo compito. Ma questo lo mise tanto fuori di sè, gli costò tanti sforzi che il sudore gli scorreva sulla fronte; egli finì con l’esclamare:
— No, datemi piuttosto qualche cosa da copiare.
E d’allora lo lasciarono copiare esclusivamente sino alla fine della vita.
Sembrava che, all’infuori della copia, per lui non esistesse niente, niente al mondo. Non pensava a vestirsi. La sua uniforme che originariamente era verde, tendeva ormai al rosso; la cravatta era divenuta così stretta, così raggrinzita, che il suo collo, sebbene non fosse lungo, usciva dal colletto dell’abito e appariva d’una grandezza smisurata come que’ gatti di gesso con la testa dondolante che i mercanti portano attorno nei villaggi russi, per venderli ai contadini.
Vi era sempre qualcosa che gli si attaccava ai panni; ora un filo, ora un festuca di paglia. Aveva anche una speciale predilezione a passare sotto le finestre, giusto quando lanciavano sulla via qualcosa punto pulita; ed era raro che il suo cappello non fosse ornato di qualche buccia d’arancio o d’altro avanzo di questo genere. Non gli accadeva mai d’occuparsi di ciò che avveniva nelle vie e tutto ciò che colpiva gli sguardi penetranti dei suoi colleghi, abituati a vedere subito sul marciapiede opposto a quello che seguivano, un mortale coi pantaloni sdruciti: cosa che loro procurava sempre una contentezza inesprimibile.
Akaki Akakevic, invece, vedeva soltanto le righe molto diritte, molto regolari delle sue copie; e doveva urtarsi bruscamente con un cavallo che gli soffiava con le narici sul viso, per ricordarsi che non era al leggio, davanti gli stupendi modelli di calligrafia, ma nel bel mezzo della via.
Appena giunto a casa, si metteva a tavola, inghiottiva in fretta la zuppa di cavoli e divorava, senza curarsi di ciò che mangiava, un pezzo di bue all’aglio, ingojandolo con le mosche e altri condimenti che Dio e il caso vi avevano seminato. Saziata la fame, si metteva, senza perder tempo, al tavolino, facendosi un dovere di copiare gli atti che aveva portati a casa. Se per caso non aveva lavoro ufficiale da copiare, riscriveva, per suo piacere, i documenti ai quali dava un’importanza particolare, non pel tenore più o meno interessante, ma perchè diretti a qualche alto personaggio.
Quando il cielo grigio di Pietroburgo si avvolgeva nel velo della notte e la società dei funzionari ha finito il pasto, ch’è vario, secondo il gusto gastronomico, o secondo il peso della borsa; quando tutti cercano di fare una diversione al raschiamento delle penne d’ufficio, alle cure e agli affari che l’uomo si crea così spesso inutilmente; è proprio naturale che si voglia consacrare il resto della giornata a qualche distrazione personale. Alcuni vanno a teatro, altri passeggiano divertendosi a guardare le abbigliature; gli uni dedicano a qualche stella che si leva sull’orizzonte modesto del loro cielo burocratico parole lusinghiere e sentite; gli altri infine vanno a visitare un collega che occupa al terzo o al quarto piano un appartamentino composto di una cucina e d’una camera, quest’ultima ornata da qualche oggetto di lusso desiderato da molto, una lampada o altro arnese casalingo comperato a prezzo di lunghe privazioni.
Insomma, è l’ora in cui ogni impiegato gode in un modo o nell’altro della sua libertà: qui si fa una partita di whist, là si prende il tè con biscotti a buon mercato o si fuma una gran pipa di tabacco. Si raccontano i pettegolezzi che corrono nell’alta società, perchè la Russia ha un bell’essere in non so qual condizione, ma non può stornare il pensiero da quest’alta società, dove circolano tanti aneddoti curiosi; come, per esempio, quello del comandante, al quale vennero a dire secretamente che un malfattore aveva mutilato la statua di Pietro il Grande tagliando la coda del cavallo.
In quei momenti di ricreazione e di riposo, Akaki Akakevic rimaneva fedele alle sue abitudini. Nessuno poteva dire d’averlo incontrato neppure una volta la sera in società. Quando era stanco di copiare e non ne poteva più, si coricava sognando le gioie del domani, le belle copie che il buon Dio potrebbe inviargli da fare.
Così trascorreva la semplice esistenza d’un uomo che, con quattrocento rubli di paga, era perfettamente contento della sua sorte, e avrebbe raggiunto un’età avanzata, se non fosse stato vittima d’uno di quei disgraziati accidenti che possono avvenire non solo ai consiglieri titolari, ma anche ai consiglieri segreti, ai consiglieri effettivi, ai consiglieri della Corte, ed anche a quelli che non danno mai un consiglio e non ne ricevono punto.
A Pietroburgo coloro che hanno una rendita di quattrocento rubli o poco più o poco meno, hanno un terribile nemico, e questo nemico così spaventevole non è altro che il freddo del settentrione, sebbene lo dicano generalmente molto favorevole alla salute.
Verso le nove del mattino, quando gl’impiegati delle varie divisioni vanno all’ufficio, il freddo pizzica loro così rudemente il naso, che per la maggior parte, essi non sanno se devono proseguire il cammino o tornarsene a casa.
Se in quei momenti gli stessi alti dignitari soffrono il freddo al punto d’aver le lacrime agli occhi, quanto non devono sopportare i titolari, che non hanno i mezzi di garantirsi contro i rigori dell’inverno? Se per coprirsi non hanno che un cappotto leggero, resta loro per unica risorsa l’infilar, correndo, cinque o sei strade e far poi una fermatina dal portiere per riscaldarsi, aspettando d’aver ricuperato le facoltà burocratiche.
Da qualche tempo Akaki sentiva nella schiena e nelle spalle dei dolori acuti, sebbene avesse l’abitudine di percorrere a passo di corsa e a perdifiato la distanza che separava la sua casa dall’ufficio. Dopo aver molto ponderata la cosa, concluse definitivamente che il suo pastrano ufficiale doveva aver qualche difetto. Ritornato nella camera, esaminò con cura il vestito e constatò che la stoffa così rara era divenuta in due o tre luoghi tanto sottile da essere quasi trasparente; di più, la fodera era stracciata.
Questo cappotto, o pipistrello che voglia dirsi, era da tempo l’oggetto degli incessanti scherzi degli spietati colleghi d’Akaki. Gli avevano persino rifiutato il nobile nome di uniforme, per battezzarlo casacca. Fatto sta, che quel vestito era davvero strano. D’anno in anno la pellegrina era stata accorciata, perchè d’anno in anno il povero titolare ne aveva levato una parte per rappezzare in un altro punto, e le racconciature non rivelavano l’esperta mano di un sarto. Erano state fatte con la più maldestra imperizia e non facevano certo bell’effetto. Quando Akaki Akakevic ebbe finita la sua triste esplorazione, disse fra sè che doveva senza esitanza alcuna portare l’uniforme al sarto Petrovic, che abitava al quarto piano una celletta affatto oscura.
Petrovic era un uomo dagli occhi loschi, dal viso butterato, che aveva l’onore di far gli abiti e i calzoni agli alti funzionari, quando però non era ubriaco. Potrei dispensarmi dal parlar qui lungamente di questo sarto; ma poichè è uso di non introdurre in un racconto nessun personaggio senza presentarlo con la sua propria fisonomia, sono obbligato a dipingere bene o male il mio Petrovic.
Un tempo si chiamava semplicemente Gregorio. Appena libero, si credette in dovere di prendere un nuovo nome. Cominciò a bere, prima nei giorni di gran festa soltanto, poi tutti i giorni che nel calendario sono segnati con una croce. Sosteneva che osservando così le solennità prescritte dalla Chiesa, rimaneva fedele ai principi della sua infanzia, e quando la moglie lo sgridava, egli la trattava da mondana tedesca. In quanto a sua moglie, tutto ciò che noi dobbiamo dir qui è che era la moglie di Petrovic, e che portava una cuffia sul capo. Inoltre non era graziosa, e molte volte coloro che passavano inanzi a lei, non potevano trattenersi dal sorridere guardandola.
Akaki Akakevic s’arrampicò sino alla soffitta del sarto. Vi giunse per una scala buia, sporca, umida, che, come tutte quelle delle case occupate dalla gente comune a Pietroburgo, esalava un odore d’acquavite che dava al naso e agli occhi.
Mentre il consigliere titolare scavalcava i gradini scivolanti, calcolava quanto Petrovic potrebbe chiedergli per la riparazione, e risolvette d’offrirgli un rublo.
La porta dell’operaio era aperta per dare un’uscita alle nuvole emananti dalla cucina, dove la moglie di Petrovic faceva in quel momento cuocere del pesce. Akaki traverso la cucina quasi accecato dal fumo, senza che la donna lo vedesse, entrò nella stanza dove il sarto era seduto su un grosso tavolo grossolano foggiato, con le gambe incrociate come un pascià turco e, seguendo l’abitudine di quasi tutti i sarti russi, coi piedi nudi.
Ciò che attirava subito l’attenzione, avvicinandosi a lui, era l’unghia del suo pollice, un poco intaccata, ma dura e rigida come una scaglia di tartaruga. Portava al collo più matassine di filo e sulle ginocchia aveva un vestito stracciato. Da alcuni minuti s’ingegnava d’infilar l’ago senza riuscirvi. Aveva prima tempestato contro l’oscurità, poi contro il filo.
— Entrerai, alla fine, mascalzone? — gridava.
Akaki s’accorse subito ch’era giunto in un momento inopportuno. Avrebbe avuto più piacere di trovar Petrovic in uno di quegli istanti favorevoli, quando il sarto si somministrava un nuovo rinfresco o, come diceva la moglie, si concedeva una solida razione d’acquavite. Allora era facile al cliente di fargli accettare il prezzo, anzi lui spingeva ancora la compiacenza sino a inchinarglisi rispettosamente, colmandolo di ringraziamenti.
Ma spesso la moglie interveniva nei contratti, lo trattava da ubriacone, gridava e smaniava, proibendogli di accettare il lavoro a troppo vil prezzo. Allora si aggiungeva una piccola cosa e l’affare era concluso.
Per disgrazia del consigliere titolare, Petrovic non aveva ancora in quel momento toccata la bottiglia, e in tale condizione il sarto era testardo, ostinato e capace d’esigere un prezzo spaventevole.
Akaki previde il pericolo e volentieri sarebbe ritornato indietro; ma era tardi: l’occhio del sarto, il suo unico occhio, perchè era guercio, l’aveva già scorto, e Akaki Akakevic balbettò macchinalmente:
— Buon giorno, Petrovic.
— Siate il benvenuto, signore, — rispose il sarto, il cui sguardo si fermò sulla mano del consigliere titolare per scorgere ciò che teneva.
— Ero venuto... per... Vorrei...
Faremo notare qui che il timido consigliere titolare aveva per regola d’esprimere i suoi pensieri con dei principi di frasi, verbi, preposizioni, avverbi o particelle, che non formavano mai un senso continuato.
Se l’affare in questione era importante, difficile, egli non giungeva a finir la proposizione incominciata. S’imbarazzava nelle formole. Questa volta avvenne lo stesso: egli rimase senza parola.
Intanto restò in piedi, immobile, dimenticando ciò che voleva dire o credendo d’averlo già detto.
— Cosa desiderate, signore? — fece Petrovic squadrandolo da capo a piedi e girando lo sguardo interrogatore sul collo, le maniche, la cintura, i bottoni, insomma su tutta l’uniforme di Akaki, sebbene la conoscesse perfettamente, poichè l’aveva fatta lui. I sarti non hanno l’abitudine d’ispezionare con tanta insistenza gli abiti che non escono da loro; ma è il loro primo pensiero quando incontrano una conoscenza.
Akaki rispose balbettando come sempre:
— Vorrei... Petrovic... questo cappotto, vedete... d’altra parte... mi pare... lo credo ancora buono... salvo un po’ di polvere... Eh! senza dubbio, sembra un po’ vecchio.... ma è ancora proprio nuovo... solo un po’ logorato... là, sulla schiena... non val la pena di parlarne... Me lo raccomoderete in due minuti.
Petrovic prese il disgraziato pastrano, lo distese sul tavolo, lo considerò in silenzio e crollò il capo. Poi stese il braccio verso la finestra per afferrare la tabacchiera rotonda ornata d’un ritratto di generale. Non saprei dire di qual generale, perchè quest’imagine eroica essendo stata per caso danneggiata, il sarto, uomo accorto, vi aveva incollato sopra un pezzo di carta.
Quando Petrovic ebbe finito di fiutare la sua presa, esaminò ancora l’uniforme, l’espose alla luce e crollò il capo per la seconda volta. Poi visitò la fodera, alzò da capo il coperchio della tabacchiera un tempo ornato dall’imagine del generale, ne trasse una seconda presa e finalmente esclamó:
— Qui non vi è più niente da raccomodare! Non è più che un miserabile straccio!
A queste parole Akaki si scoraggiò.
— Come! — chiese con la voce piagnucolosa d’un fanciullo; — non è possibile accomodare questo buco? Ma guardate, dunque, Petrovic; vedete bene che vi è soltanto un paio di fori, e voi avete abbastanza pezze per ripararli.
— Pezze ne ho abbastanza, senza dubbio, ma come volete che le cucia? La stoffa è consumata, non è più possibile che tenga un punto.
— Bah! dove i punti non resisteranno, metterete una toppa.
— Non vi sono toppe da mettere; il panno insomma è panno, e nello stato di questo basterà un colpo di vento per ridurlo a brandelli.
— Ma se... tuttavia... questo lo facesse durare ancora un poco... vedete... veramente...
— No, — replicò Petrovic, decisamente, — non vi è niente da fare; è una stoffa che ha fatto il suo tempo. Sarebbe meglio farne dei peduli per l’inverno, questi vi terrebbero i piedi più caldi delle calze. Furono i tedeschi ad inventare i peduli, e hanno guadagnato molto danaro con questo articolo.
Petrovic non si lasciava sfuggire nessuna occasione di dar una botta ai tedeschi.
— Dovete farvi un’uniforme nuova, — aggiunse.
— Una uniforme nuova?...
Akaki Akakevie vide nero. Il laboratorio del sarto gli girava intorno, e il solo oggetto che potè vedere distintamente fu il ritratto del generale coperto di carta sulla tabacchiera di Petrovic.
— Un’uniforme nuova? — mormorò come perduto in un sogno; — ma non ho danaro.
— Sì, una uniforme nuova, — ripetè Petrovic con insistenza crudele.
— Ma... anche... se... supponendo che prenda simile risoluzione... quanto?...
— Volete dire quanto vi costerà?
— Sì.
— Qualcosa meno di centocinquanta rubli di carta, — rispose il sarto, stringendo le labbra.
Questo maledetto sarto prendeva un piacere affatto particolare nel mettere i clienti in affanno, spiando col suo unico occhio losco l’espressione del loro viso.
— Centocinquanta rubli per un cappotto? — disse Akaki Akakevic.
E il consigliere titolare pronunciò queste parole con un tono che somigliava a un grido, forse il primo che aveva emesso dopo la nascita, perchè d’ordinario parlava con la più grande timidezza.
— Sì, — rispose Petrovic, — senza il collo di martora e la fodera di seta per il cappuccio, che faranno insieme duecento rubli.
— Petrovic, vi scongiuro, — interruppe Akaki Akakevic con voce supplichevole, non ascoltando più e non volendo più ascoltare il sarto, — vi scongiuro di riparare questo pastrano, perchè possa durare ancora qualche tempo.
— No! sarebbe fatica perduta e una spesa inutile, un puro spreco.
Akaki si ritirò assolutamente schiacciato, mentre Petrovic, con le labbra chiuse, sodisfatto di sè stesso per aver così validamente difesa la corporazione dei sarti, rimaneva seduto sul tavolo.
Senza scopo, smarrito, Akakevic errò per le vie come un sonnambulo.
— Quale contrarietà! — diceva fra sè, seguitando camminar senza mèta. — Veramente non avrei mai pensato che questo finirebbe così... No, — continuò dopo un breve silenzio, — non potevo supporre che arriverei a questo... Eccomi in una situazione assolutamente inaspettata... in un imbarazzo che...
E continuando a caso il suo monologo, prese, invece della via di casa, una direzione affatto opposta, senza neppur accorgersene. Uno spazzacamino gli annerì il dorso passando. Dall’alto d’una casa in costruzione un cesto di gesso gl’impolverò il capo, ma egli non vedeva, non capiva niente. Soltanto quando urtò a testa bassa contro una sentinella, che gli sbarrò il passo incrociando l’alabarda e vuotando su lui un sacco di contumelie, egli uscì bruscamente dal suo sogno.
— Cosa vieni a far qui? — gli gridò il ruvido guardiano della sicurezza pubblica; — non puoi seguire, come si conviene, il marciapiedi?
Quest’apostrofe repentina strappò alla fine Akaki completamente dal suo stato di torpore. Raccolse le idee, guardò in faccia la situazione con uno sguardo freddo e prese consiglio con sè stesso, seriamente, francamente, come avrebbe fatto con un amico, al quale si confidano tutti i segreti del cuore.
— No, — disse finalmente, — oggi non otterrò niente da Petrovic; oggi è di cattivo umore... forse sua moglie l’ha picchiato... lo rivedrò domenica ventura. La domenica avrà sete, vorrà bere, la moglie non gli dà danaro; gli metterò in mano un grivenik 6, sarà più trattabile e potremo riparlar del pastrano.
Sostenuto da questa speranza, Akaki aspettò la domenica. Quel giorno, quando vide la moglie di Petrovic uscir di casa e allontanarsi, andò dal sarto e lo trovò, come aveva previsto, in uno stato di grave abbattimento. Ma appena Akaki lasciò uscir di bocca la prima parola a proposito del cappotto, il diabolico sarto lasciò di botto l’umor nero per esclamare:
— No, non vi è niente da fare! Non avete che a comperarvi una uniforme nuova!
Il consigliere titolare gli scivolò in mano il suo grivenik.
— Grazie, vostro onore, rispose Petrovic: — questo m’aiuterà un poco a ricuperare le forze e berrò, alla vostra salute. Ma in quanto al pastrano, vedete, perchè parlarne ancora? Non val più un quattrino. Lasciate pensare a me; vi farò una divisa magnifica; ne rispondo io.
Il povero Akaki Akakevic supplicò ancora una volta il sarto di raccomodare il vecchio.
— No, ancora una volta, no, — replicò Petrovic; — è assolutamente impossibile. Fidatevi di me. Non vi chiederò più del prezzo. E metterò, com’è di moda, cifre e ganci d’argento al bavero.
Akaki comprese che doveva sottomettersi alla volontà del sarto e per la seconda volta sentì le forze abbandonarlo. Farsi fare una divisa nuova? Ma con che pagarla? Aveva, per dir il vero, da contare su una gratificazione ufficiale. Ma le aveva già dato destinazione. Doveva comperarsi un paio di calzoni e pagare il calzolaio, che gli aveva aggiustato due paia di scarpe; doveva comperare biancheria: in una parola... tutto era già regolato. Se pure il Direttore, — e sarebbe stata fortuna insperata, — portasse la gratificazione da quaranta rubli a cinquanta, che era mai questo magro soprappiù in confronto della somma inaudita, enorme, chiesta da Petrovic? una goccia d’acqua nell’oceano.
Vi era anche da sperare, per parte di Petrovic, se fosse di buon umore, una riduzione importante nel prezzo, tanto più che la moglie gli disse:
— Sei pazzo? Ora lavori per niente, e ora pretendi un prezzo proprio inumano.
Credette dunque che Petrovic consentirebbe a fargli l’uniforme per ottanta rubli; ma questi ottanta rubli dove trovarli? Forse mettendo a contribuzione ogni risorsa, giungerebbe a procurarsene la metà.
Noi dobbiamo raccontare al lettore i mezzi che il consigliere titolare intendeva adoperare per riunir questa metà.
Aveva preso l’abitudine, ogni volta che riceveva un rublo, di mettere un copek in un piccolo salvadanaio. Alla fine del semestre, riprendeva queste piccole monete di rame e le cambiava con l’equivalente in argento. Praticava questo sistema di risparmio da moltissimo tempo e allora le sue economie sommavano a quaranta rubli. In tal modo si trovava padrone della metà della somma necessaria. Ma l’altra metà? Akaki fece infiniti calcoli; poi finì col dirsi che potrebbe rinunziare al tè della sera, e, quando avesse lavoro, andar con gli atti nella camera della padrona, per economizzare il fuoco. Prese anche la risoluzione d’evitar nelle vie le pioggie di gesso per risparmiar le scarpe, e decise di non comperar biancheria.
In principio queste privazioni gli furono un po’ penose; ma a poco a poco vi si abituò e giunse anche a coricarsi senza cena. Mentre il corpo soffriva di questa diminuzione di nutrimento, lo spirito trovava un nuovo alimento nell’incessante preoccupazione che gli creava il suo pastrano. D’allora, si sarebbe detto che la sua natura si fosse completata, ch’ei si fosse maritato, che avesse una compagna, la quale non lo lasciava più nel sentiero della vita; e questa compagna era l’imagine dell’uniforme ben ovattata e ben foderata.
Così lo si vide più deciso, più animato di prima, come un uomo che ha scelto il suo scopo e che vuol raggiungerlo a qualunque costo. L’insignificanza dei lineamenti, la noncuranza dell’aspetto, il contegno negletto, tutto era sparito. Talvolta un lampo affatto nuovo gli brillava negli occhi, e nei bisogni arditi si proponeva già la questione se non farebbe bene a metter un colletto di martora all’uniforme.
Questi pensieri lo rendevano talvolta singolarmente distratto. Un giorno che copiava gli atti, si accorse a un tratto che aveva fatto un errore.
— Oh, oh! esclamò.
E rapidamente fece il segno della croce.
Almeno una volta al mese andava da Petrovic, per intrattenersi con lui della preziosa uniforme e chiedergli degli schiarimenti importanti; per esempio, sul prezzo che potrebbe offrire sul panno e sul colore che sceglierebbe di preferenza.
Ognuna di queste visite dava luogo a nuove considerazioni; ma egli ritornava a casa ogni volta più felice, perchè il giorno finalmente doveva giungere che tutto sarebbe comperato, che la uniforme sarebbe pronta.
Questo grande avvenimento giunse più presto che non quaranta, non di cinquanta, ma di sessantacinque rubli. Questo degno funzionario aveva notato che il nostro amico Akaki Akakevic aveva bisogno d’un’uniforme? Oppure il nostro eroe doveva questa liberalità eccezionale a una buona fortuna?
Comunque sia, Akaki si arricchì di venti rubli. Un simile aumento nelle sue risorse doveva necessariamente affrettare il compimento della sua memorabile impresa.
Ancora due o tre mesi di fame, e Akaki avrebbe gli ottanta rubli. Il suo cuore di solito tanto calmo cominciò a battere la carica. Appena ebbe in mano l’enorme somma d’ottanta rubli, andò a trovar Petrovic e tutti e due insieme si recarono da un mercante di stoffe.
Senza esitare ne comperarono una buona quantità.
Da più d’un anno s’erano intrattenuti di questo acquisto, ne avevano discusso ogni dettaglio, e tutti i mesi avevano passato in rivista la mostra del mercante per informarsi dei prezzi. Petrovic diede alcuni colpi secchi sul panno e dichiarò che non si poteva trovar di meglio. Per fodera, presero della tela ben forte, che, a parere del sarto, era migliore della seta e aveva uno splendore incomparabile. Non comperarono martora, perchè troppa cara, ma si decisero per la più bella pelliccia di gatto che vi era nel magazzino e che poteva molto bene passar per martora.
A far quest’abito, Petrovic ebbe bisogno di quindici giorni giusti, perchè fece una innumerevole quantità di punti, senza di che sarebbe stato pronto più presto. Valutò il suo lavoro dodici rubli: non poteva chieder meno; tutto era cucito con la seta, e il sarto aveva stirate le cuciture con i denti, dei quali si vedevano ancora i segni.
Finalmente giunse l’uniforme tanto desiderata....
Non posso dire esattamente che giorno, ma fu certo il più solenne che il consigliere titolare Akaki abbia conosciuto nella sua vita.
Il sarto portò lui stesso l’uniforme, di buon mattino, prima della partenza del consigliere titolare pel suo ufficio. Non poteva giungere più a proposito, perchè il gelo cominciava a farsi sentire aspramente.
Petrovic affrontò il suo cliente con l’aria importante di un grande sarto. Aveva la fisonomia d’una gravità eccezionale; il consigliere titolare non l’aveva mai visto così. Era tutto compreso del suo merito, e nel pensiero misurava l’abisso che separava l’operaio che fa soltanto riparazioni dall’artista che fa il nuovo.
L’uniforme era avvolta in una tela nuova, appena lavata, che il sarto slegò con cura e ripiegò poi per metterla in tasca. Allora prese superbamente con le due mani l’uniforme e la pose sulle spalle d’Akaki Akakevic. Poi la palleggiò, ed ebbe un sorriso di sodisfazione vedendola cader maestosamente in tutta la sua lunghezza. Akaki volle misurar le maniche; andavano meravigliosamente bene.
Breve, l’uniforme era irreprensibile sotto ogni rapporto, e il taglio non lasciava nulla a desiderare.
Mentre il sarto contemplava la sua opera, non mancò di dire che, se l’aveva lasciata a così buon prezzo, era perchè non pagava troppo forte pigione e perchè conosceva Akaki Akakevic da molto tempo; poi, fece notare che un sarto della Prospettiva della Nevà avrebbe chiesto almeno sessantacinque rubli soltanto per il lavoro d’una simile uniforme. Il consigliere titolare non volle impegnarsi in una discussione con lui su questo punto. Pagò, ringraziatolo, e uscì per andare all’ufficio.
Petrovic uscì anche lui e si fermò nel bel mezzo della via per seguirlo con lo sguardo fin che potè, poi prese una scorciatoia per gettar un ultimo colpo d’occhio sul consigliere titolare e la sua uniforme.
Pieno dei più piacevoli pensieri, Akaki si avvicinava passo passo all’ufficio. Sentiva a ogni istante che aveva un nuovo vestito sulle spalle e dirigeva a sè stesso un dolce sorriso di contentezza.
Due cose, fra le molte, gli frullavano nel cervello: prima, l’uniforme era calda, poi era bella. Senza curarsi della strada che faceva, entrò difilato nel palazzo della Cancelleria, depose il suo tesoro nell’anticamera, l’esaminò per ogni verso e guardò poi il portiere in modo particolare.
Non so se la voce s’era sparsa negli uffici che il vecchio cappuccio aveva cessato d’esistere. Tutti i colleghi di Akaki accorsero per ammirare la splendida uniforme e lo colmarono di felicitazioni così calorose, che egli non potè evitar di rispondere con un sorriso di sodisfazione, che poi lasciò posto a una certa apprensione.
Ma quale non fu la sua sorpresa, quando i terribili colleghi gli fecero osservare, che doveva inaugurare l’uniforme solennemente, e ch’essi contavano su di un pasto delicato. Il povero Akaki era così stupito, così stordito da non saper che dire per scusarsi. Balbettò arrossendo che il vestito non era tanto nuovo come lo credevano e che la stoffa era vecchia.
Allora un superiore, che voleva senza dubbio mostrare di non esser superbo del suo grado e del suo titolo, e di non sdegnare la compagnia de’ suoi subordinati, prese la parola e disse:
— Signori, invece d’Akaki Akakevic, vi invito io a prendere questa sera un tè in casa mia; ricorre oggi l’anniversario della mia nascita.
Tutti gli impiegati ringraziarono il loro superiore della sua bontà e si affrettarono ad accettare l’invito con gioia. Akaki volle esimersi; ma gli fecero comprendere che sarebbe una grossolana sconvenienza, un atto imperdonabile, e dovette cedere alla sua fatalità.
D’altra parte provava una certa gioia pensando che avrebbe così occasione di mostrarsi nella via con la sua uniforme. Tutto quel giorno fu per lui un giorno di festa. In questa felice disposizione, andò a casa, si tolse l’uniforme, e dopo aver un’altra volta esaminato il panno e la fodera, l’appese al muro. Poi andò a prendere il vecchio pipistrello per confrontarlo col capolavoro di Petrovic. I suoi sguardi andavano da un vestito all’altro, e pensava, sorridendo internamente:
— Che differenza!
Tutto allegro, pranzò, e finito il pasto, non sedette punto a copiare. No; si stese come un sibarita sul divano e aspettò la sera. Poi si vestì, prese l’uniforme e uscì.
Non mi sarebbe possibile dirvi dove dimorava il superiore che aveva così liberamente invitato i subordinati. La memoria comincia a mancarmi un poco, e le vie, le case innumerevoli di Pietroburgo fanno una tal confusione nella mia testa, che stento a raccapezzarmi. Tutto ciò che ricordo è che l’onorevole funzionario abitava un bel quartiere della capitale e che per conseguenza la sua casa era molto lontana da quella d’Akaki Akakevic.
Prima il consigliere titolare traversò parecchie vie mal rischiarate, che parevano tutte deserte, ma più s’avvicinava all’abitazione del suo superiore, più le vie divenivano brillanti e animate. Incontrò un numero incalcolabile di passanti vestiti all’ultima moda, di belle signore e di signori che avevano dei colletti di castoro. Le slitte di contadini con le panche di legno diventavano sempre più rare, e ad ogni istante scorgeva cocchieri con berrette di velluto, che conducevano slitte di legno verniciato, guernite di pelle d’orso, o splendide carrozze.
Era pel nostro Akaki uno spettacolo assolutamente nuovo. Da molti anni non era uscito di casa. Si fermò curiosamente innanzi a un mercante d’oggetti d’arte. Un quadro attirò più degli altri la sua attenzione. Era il ritratto di una donna che levava la scarpa mostrando il piccolo piede a un giovinotto, con gran mustacchi e gran favoriti, che guardava per la porta socchiusa.
Dopo essersi fermato un istante a considerare questo ritratto della scuola francese, Akaki Akakevic crollò il capo e proseguì la sua via sorridendo. Perchè dunque sorrideva? Era a causa dell’originalità del soggetto? Oppure, perchè pensava, come la maggior parte dei suoi colleghi, che i francesi hanno talvolta delle idee bizzarre? Oppure non pensava a nulla? Infatti è molto difficile legger nel cuore della gente per saper ciò che pensa.
Eccolo finalmente giunto alla casa dov’è invitato. Il suo superiore è alloggiato da gran signore; alla porta vi è una lanterna, ed egli occupa tutto il secondo piano. Quando il nostro Akaki entrò, vide una lunga fila di galoscie; al muro erano appesi i mantelli, molti dei quali guerniti con colli di velluto o pelliccia. Nella stanza vicina si faceva un rumore confuso, che divenne un po’ più distinto quando un domestico aprì la porta e uscì dalla sala con un vassoio pieno di tazze vuote, d’un vaso da latte e una cesta di biscotti. Gli invitati dovevano esser riuniti da molto e avevano già vuotato la prima tazza di tè.
Akaki appese l’uniforme all’attaccapanni e si diresse verso la stanza, dove i suoi colleghi, armati di lunghe pipe, erano aggruppati intorno a un tavolo da giuoco e facevano del chiasso.
Egli entrò, ma rimase inchiodato sulla soglia dell’uscio non sapendo che fare; i suoi colleghi lo salutarono con allegre grida e accorsero nell’anticamera per ammirare la uniforme. Quest’assalto smarrì del tutto il bravo consigliere titolare. Ma nel fondo del cuore gioiva per le congratulazioni prodigate al suo prezioso vestito. Subito dopo, i colleghi gli resero la libertà e ripresero la partita di whist.
Quest’agitazione, l’eccitamento, l’animazione del conversare, turbarono il timido Akaki sino al più alto grado: non sapeva dove metter le mani, dove nasconderle; finalmente, sedette vicino ai giuocatori, guardando ora le carte, ora i visi, poi sbadigliò, perchè sentiva che da molto era passata l’ora ch’egli aveva l’abitudine di coricarsi. Volle ritirarsi, ma lo trattennero, dichiarandogli che non poteva allontanarsi senza aver bevuto un bicchiere di sciampagna per celebrare quel giorno memorabile.
Servirono la cena, composta di brodo freddo, vitello freddo, dolci e diverse pasticcerie, il tutto accompagnato da pseudo sciampagna. Akaki si vide obbligato a vuotar due gran bicchieri di questo liquido spumante, e poco dopo intorno a lui ogni cosa prese un aspetto giocondo. Però non dimenticava che mezzanotte era passata e che egli avrebbe dovuto esser a letto da parecchie ore.
Temendo d’esser ancora trattenuto, scivolò furtivamente nell’anticamera, dove ebbe il dolore di veder l’uniforme per terra. La scosse con la più gran cura, l’indossò, e via.
Le strade erano ancora rischiarate. Le piccole bettole frequentate dai domestici e dal popolo erano ancora aperte: alcune eran già chiuse, ma dalle lampade, che si vedevano al di fuori, era facile indovinare che gli avventori non erano ancora partiti.
Tutto allegro e quasi ebro, Akaki Akakevic prese la via di casa. A un tratto s’accorse ch’era in una via dove di giorno e ancor più di notte tutto era silenzioso. Intorno a lui ogni cosa aveva un aspetto sinistro. Qua e là un fanale, che per mancanza d’olio, minacciava di spegnersi, case di legno, palizzate, ma in nessun luogo un’anima viva. Alla pallida luce di questo fanale, le piccole costruzioni s’allineavano tristamente. Giunse a un luogo dove la via sboccava in un’immensa piazza appena fiancheggiata, dall’altra estremità, con alcune case, e che offriva l’aspetto d’un vasto e lugubre deserto.
Lontano, Dio sa dove, vacillava la luce di un lampione che rischiarava un casotto, il quale gli parve in capo al mondo. Il Consigliere titolare perdette a un tratto l’umore giocondo. Andò, col cuore stretto, verso la luce; presentiva il pericolo imminente. Lo spazio che aveva dinanzi gli parve un oceano.
— No, — disse, — preferisco non guardare.
E continò a camminare, abbassando la testa. Quando la rialzò, si vide di botto circondato da molti uomini con la barba lunga, dei quali non poteva distinguere i volti. La vista gli si offuscò, gli si strinse il cuore.
— Questa uniforme è mia — gridò uno di quelli, afferrando il consigliere titolare pel colletto.
Akaki volle chiamar al soccorso. Un altro degli aggressori gli chiuse la bocca col pugno dicendogli:
— Provati un po’ a gridare!
Nel medesimo istante, il disgraziato consigliere titolare sentì che gli levavano l’uniforme e contemporaneamente una pedata lo mandò a rotolare nella neve, dove rimase svenuto.
Pochi minuti dopo, riprese i sensi; ma non vide più nessuno. Spogliato del suo vestito e tutto gelato, cominciò a gridare con quanta forza aveva, ma le sue grida non potevano giungere sino all’altra estremità della piazza. Perduto, si precipitò con lo slancio supremo della disperazione verso il casotto dove la sentinella con l’arma in riposo, gli chiese per che diavolo faceva tanto schiamazzo e correva così come un pazzo.
Quando Akaki gli fu vicino, trattò il soldato d’ubriacone perchè non aveva visto che a pochissima distanza dal suo posto derubavano e saccheggiavano i passanti.
— Vi ho visto perfettamente, — rispose l’uomo, — in mezzo alla piazza con due individui. Credevo che foste amici. È inutile di mettersi sossopra. Andate domani a trovar l’ispettore di polizia, s’incaricherà lui dell’affare, farà cercare i ladri e aprirà un’inchiesta.
Che fare?
Il disgraziato consigliere titolare giunse a casa in uno stato spaventevole: i capelli gli pendevano in disordine sulla fronte, gli abiti erano coperti di neve. Quando la sua padrona l’intese picchiare come un pazzo furioso alla porta, si alzò di soprassalto e accorse seminuda; ma indietreggiò spaventata dall’aspetto di Akaki.
Quand’egli le raccontò ciò che era successo, ella giunse le mani e esclamò: — Non è all’ispettore di polizia che dovete dirigervi, ma al commissario del quartiere. L’ispettore vi divertirà con belle parole; e non farà niente. Ma il commissario del quartiere lo conosco da molto. La mia antica cuoca Anna è ora al suo servizio e la vedo spesso passare sotto le nostre finestre. Egli va ogni festa in chiesa e s’indovina subito dall’aspetto che è un brav’uomo.
Dopo questa raccomandazione piena di sollecitudine, Akaki si ritirò tristemente nella sua camera. Per poco che si imagini la sua situazione, si comprenderà che notte passò.
La dimane andò dal commissario del quartiere. Gli dissero che quest’alto funzionario dormiva ancora. Alle dieci ritornò. L’alto funzionario dormiva sempre. A mezzogiorno il commissario era uscito. Il consigliere titolare si ripresentò ancora all’ora del pasto, ma allora i commessi gli chiesero perchè metteva tanta insistenza nel voler vedere il capo. Per la prima volta nella sua vita Akaki diede prova d’energia. Dichiarò che aveva bisogno di parlar subito al commissario e che non dovevano mandarlo via, perchè si trattava d’un affare ufficiale e che se qualcuno si permetteva di mettergli il bastone fra le ruote, poteva costargli caro.
Non v’era nulla da replicare a questo tono. Un commesso uscì per avvisare il capo. Questo diede udienza a Akaki, ma l’ascoltò in un modo abbastanza singolare. Invece di interessarsi al fatto principale, cioè al ladrocinio, chiese al consigliere titolare come mai egli correva quelle vie a un’ora indebita, e se non s’era trovato a qualche riunione sospetta.
Stordito da questa domanda, il consigliere titolare non trovò risposta e si ritirò senza sapere esattamente se darebbero o no corso al suo affare.
Non andò in ufficio in tutto il giorno: avvenimento inaudito nella sua vita. Il giorno dopo, vi riapparve; ma in quale stato! Pallido, agitato, con la vecchia uniforme che aveva l’aria ancor più pietosa di prima. Quando i suoi colleghi seppero la sventura che l’aveva colpito, ve ne furon parecchi tanto crudeli da ridere sgangheratamente; però molti di essi furono commossi da vera pietà e organizzarono una sottoscrizione in suo favore. Disgraziatamente questa lodevole impresa ebbe un risultato insignificante, perchè gli stessi impiegati e funzionari superiori avevano già dato la loro quota a due sottoscrizioni anteriori: la prima per far fare il ritratto del loro direttore, la seconda per abbonarsi a un’opera che un amico del loro capo aveva pubblicata.
Uno d’essi che aveva realmente compassione d’Akaki, volle, in mancanza di meglio, dargli un buon consiglio. Gli disse che sarebbe pena perduta il ritornare dal commissario del quartiere, perchè, supponendo che il funzionario avesse la fortuna di ritrovare l’uniforme, la polizia la serberebbe finchè il consigliere titolare dimostrasse perentoriamente di esserne il vero e solo proprietario. Lo esortò dunque a dirigersi a qualche personaggio altolocato, il quale personaggio altolocato, grazie ai suoi buoni rapporti con le autorità, condurrebbe l’affare prontamente.
Nel suo smarrimento Akaki si decise a seguire questo consiglio. Quale fosse la posizione gerarchica occupata da quest’alto personaggio e qual’era il suo grado di elevazione nella gerarchia, non si potrebbe dire. Tutto ciò che si sapeva, era che quest’alto personaggio era giunto da poco al suo alto impiego. Vi erano, è vero, altri personaggi collocati ancora più in alto e il funzionario in questione metteva in opera tutte le leve possibili per poter salire anche lui ancora più in alto. In compenso, obbligava tutti gli impiegati al di sotto di lui ad attenderlo in basso della scala e nessuno poteva giungere sino a lui direttamente. Il segretario del collegio faceva parte della domanda d’udienza a un segretario di governo che a sua volta trasmetteva la domanda a un alto funzionario, che finalmente la comunicava all’alto personaggio.
È il cammino ordinario degli affari nella nostra santa Russia. Il desiderio di fare come gli alti funzionari, fa che tutti scimmiottino le maniere del superiore. Non è molto, un consigliere titolare divenuto capo d’un piccolo ufficio, fece metter in una stanza un cartello con queste parole: Sala delle deliberazioni. Ivi se ne stavano dei servi col colletto rosso, l’abito ricamato, per annunciare i postulanti che introducevano nella sala tanto piccola che vi era giusto il posto per una sedia.
Ma ritorniamo al nostro alto personaggio. Aveva l’aspetto imponente, ma un po’ imbarazzato: il suo sistema si riassumeva in una parola: Severità, severità, severità. Ripeteva questa parola tre volte, una dopo l’altra, e l’ultima volta fissava uno sguardo penetrante su colui che aveva da ascoltare. Avrebbe potuto dispensarsi dallo impiegare tanta energia, perchè i dieci subalterni che aveva sotto i suoi ordini, lo temevano abbastanza anche senza questo. Appena lo vedevano giungere da lungi, s’affrettavano a deporre la penna e accorrevano rimanendo ritti al suo passaggio. Nelle conversazioni coi suoi subalterni, conservava sempre un’attitudine superba e non diceva più di queste parole:
— Cosa volete? Sapete a chi parlate? Non dimenticate a chi vi dirigete!
Del resto era un brav’uomo, amabile e compiacente con gli altri amici. Il titolo di direttore generale gli aveva montata la testa. Dal giorno che gliel’avevano dato, passava buona parte della giornata in una specie di vertigine, conservando però tutta la presenza di spirito con gli eguali, non sospettando punto che gli mancasse qualche cosa. Ma appena si trovava con un inferiore, si rinchiudeva in un severo mutismo, e questo contegno gli era tanto più penoso in quanto che sentiva come avrebbe potuto passar il suo tempo ben più piacevolmente.
Tutti coloro che l’osservavano in simile circostanza, non potevano metter in dubbio che egli ardeva dal desiderio d’unirsi a una conversazione interessante, ma che il timore di far apparire qualche imprudente prevenzione, di mostrarsi troppo famigliare e di compromettere con questo la sua dignità, lo tratteneva.
Per sottrarsi a un tale pericolo, conservava una straordinaria riservatezza e parlava di tratto in tratto per monosillabi. Breve, aveva spinto il suo sistema tanto lontano che lo chiamavano l’annoiato, e questo titolo era perfettamente meritato.
Tale era l’alto personaggio, del quale Akaki doveva accaparrarsi l’aiuto e la protezione. Il momento ch’egli scelse per tentar il suo passo sembrava proprio opportuno per lusingare la vanità del direttore generale e per servir la causa del consigliere titolare.
L’alto personaggio si trovava nel suo gabinetto e parlava allegramente con un vecchio amico che non aveva visto da molti anni, allorchè gli annunziarono che il sig. Basch-makschin sollecitava l’onore d’ottenere una udienza da Sua Eccellenza.
— Che uomo è? — chiese con alterigia.
— Un impiegato.
— Fate aspettare. Occupato. Manca tempo per ricevere.
L’alto personaggio mentiva. Niente gl’impediva di accordar l’udienza richiesta. Egli e l’amico avevano già esauriti tutti i soggetti di conversazione. Già più d’una volta il loro colloquio era stato interrotto da lunghe pause, in capo alle quali s’erano alzati l’uno e l’altro, picchiandosi famigliarmente sulla spalla:
— Ed ecco, mio caro.
— Eh! sì, Stefano.
Ma il direttore generale non voleva ricevere il sollecitatore, per far sentire tutta la sua importanza all’amico che aveva lasciato il servizio e abitava la campagna, e per fargli comprendere che gli impiegati dovevano aspettare lungamente ritti in anticamera, finchè piacesse a lui d’accoglierli.
Finalmente, dopo molti altri dialoghi e molte altre pause, durante le quali i due amici, stesi nelle poltrone, mandavano al soffitto il fumo dei sigari, il direttore generale si ricordò a un tratto che gli avevano chiesto udienza.
Chiamò il segretario che stava sull’uscio e gli ordinò di far entrare il sollecitatore.
Quando vide Akaki, dall’aspetto umile, dalla vecchia uniforme consumata, avvicinarglisi, si volse bruscamente verso di lui e con modo rude:
— Cosa volete?
La sua voce era ancor più severa del solito ed egli cercava di darle un’intonazione ancora più vibrante, perchè erano otto giorni che si esercitava dinanzi allo specchio.
Il timido Akaki si trovò completamente schiacciato sotto questa rude apostrofe. Pure, fece uno sforzo per riprendere il suo sangue freddo, per raccontare come, dove e quando gli avevano rubato l’uniforme, non senza ornare la sua narrazione di molti dettagli oziosi. Aggiunse che si era rivolto a Sua Eccellenza nella speranza che, grazie a quest’alta e benevola protezione presso il Presidente della polizia o presso altre autorità superiori, potesse tornar in possesso del suo vestito.
Il direttore generale trovò questo passo molto poco burocratico:
— Eh, signore! — disse alla fine, — non sapete dunque ciò che dovete fare in simile caso? D’onde venite dunque? Non sapete dunque quale è la via gerarchica da seguire? Voi dovevate dirigere una petizione, che sarebbe giunta nelle mani del capo di ufficio e dalle sue al capo divisione, che l’avrebbe mandata al mio segretario, e il mio segretario l’avrebbe rimessa a me.
— Mi permetta, — interruppe Akaki, facendo un nuovo sforzo, ma questa volta uno sforzo supremo per raccogliere quel poco di spirito che aveva conservato, perchè sentiva che il sudore gli colava sulla fronte; — permetta, Vostra Eccellenza, di farle notare che se mi presi la libertà di disturbarla per questo affare, è perchè il segretario.. i segretari sono gente da cui non si può aspettar nulla.
— Eh? Cosa? Davvero? — esclamò il direttore generale. — Voi osate tenere simile linguaggio! Dove avete pescate simili supposizioni? È vergognoso il vedere gl’infimi, i giovincelli, i subordinati insorgere contro i capi!
Nel suo trasporto, il direttore generale non vedeva che il consigliere titolare aveva oltrepassata la cinquantina e che la qualità di giovine gli conveniva molto relativamente, cioè nel caso di paragone con un uomo di settant’anni.
— Sapete, — continuò l’alto personaggio, — a chi parlate? Ricordatevi innanzi a chi siete! Ricordatevene! Dico: ricordatevene!
E dicendo queste parole batteva il piede, e la sua voce prendeva un accento, una larghezza spaventevole.
Akaki era completamente fulminato; trasaliva, fremeva, e poteva appena tenersi in piedi, e senza un ragazzo dell’ufficio, che accorse in suo aiuto, sarebbe caduto a terra. Lo portarono, o meglio, lo trasportarono fuori quasi svenuto.
Il direttore generale era sommamente stupito dell’effetto prodotto dalle sue parole: quest’effetto sorpassava la sua aspettativa; e, sodisfatto che il suo modo imperioso avesse prodotto su di un vecchio una tale impressione da far perdere al pover’uomo la conoscenza, gettò uno sguardo obliquo sull’amico per vedere come questo avesse preso quel gesto. Quale non fu la sua gioia quando constatò che il suo stesso amico era tutto commosso e lo considerava con un certo spavento!
Come Akaki giunse in fondo alla scala e come traversò la via, egli medesimo sarebbe stato senza dubbio incapace di dire, poichè era più morto che vivo. Mai in tutta la vita era stato sgridato da un direttore generale, e specialmente da un direttore generale così severamente.
Camminò sotto l’uragano che ruggiva di fuori, senza accorgersi dello spaventevole tempo che. faceva, senza cercare un ricovero contro la tempesta, sul marciapiedi. Il vento che soffiava da ogni parte, uscendo in raffiche da ogni vicoletto, gli procurò un’infiammazione alla gola. Giunto a casa, era nell’impossibilità di pronunziare una parola. Si mise a letto, tanto era decisivo l’effetto prodotto dalla lezione del direttore generale.
La dimane, Akaki ebbe una febbre violenta. Grazie al clima di Pietroburgo, la malattia fece in pochissimo tempo progressi allarmanti. Quando giunse il medico, ogni soccorso dell’arte era già inutile. Il dottore gli tastò il polso, scrisse una ricetta per non lasciarlo morire senza il soccorso della scienza, e dichiarò che l’ammalato aveva soltanto due giorni di vita.
Disse poi alla padrona d’Akaki:
— Non avete tempo da perdere: occupatevi a fargli fare una bara di pino, perchè per un pover’uomo come lui una bara di quercia costerebbe troppo cara.
Il consigliere titolare intese queste parole? gli diedero un altro accesso di febbre più violenta ancora? Si lagnava pian piano della sua triste sorte? Nessuno potrebbe dire, perchè delirava. Strane visioni passavano senza posa nel suo cervello. Ora si vedeva innanzi a Petrovic che incaricava di far un’uniforme con alcune corde per i ladri che lo perseguitavano persino nel letto. Ora pregava la padrona di casa di scacciare i ladri che s’erano nascosti sotto la coperta. Ora si vedeva inanzi al direttore generale, che udiva colmarlo di rimproveri, e chiedeva grazia a Sua Eccellenza. Ora si perdeva in discorsi così strani che la povera donna si segnava spaventata. Mai nella sua vita ella aveva inteso simili cose, e le stravaganze inaudite del malato la mettevano tanto più fuori di sè, in quanto il titolo d’Eccellenza vi entrava a ogni istante. Ora mormorava ancora parole incoerenti, che mancavano di legame, pur aggirandosi sempre sulla stessa cosa: l’uniforme.
Finalmente Akaki rese l’ultimo sospiro. Non si misero i suggelli nè alla camera, nè sull’armadio, per la semplice ragione che non vi erano eredi e che lasciava per tutta eredità un pacco di penne d’oca, un quaderno di carta bianca, tre paia di calze, alcuni bottoni da calzoni e il suo vecchio mantello. A chi andarono queste reliquie? Dio sa. L’autore di questo racconto non se ne è informato.
Akaki fu avvolto in un lenzuolo e trasportato al cimitero, dove l’inumarono. La grande città di Pietroburgo continuò a condurre la sua solita vita, come se il consigliere titolare non fosse mai esistito.
Così sparve un essere umano che non aveva avuto nè protettore, nè amico; che non aveva inspirato interesse realmente cordiale a nessuno; che non aveva mai suscitata la curiosità di alcuno e che non aveva mai infilato un insetto raro sulla punta d’uno spillo per esaminarlo microscopicamente. Senza una sola parola di lamento, quest’essere aveva sopportato il disprezzo e le burle dei colleghi. Senza esservi spinto da un avvenimento straordinario, avevo preso la via della tomba, e quando alla fine de’ suoi giorni un’uniforme gli aveva dato tutti i trasporti della gioventù, la sventura lo aveva atterrato.
Qualche giorno dopo l’udienza, il suo capo, poichè non seppero dirgli che cosa fosse avvenuto, fece dire a casa sua, esser tempo che egli tornasse al suo posto. Il ragazzo di ufficio tornò con la notizia che non vedrebbero più il consigliere titolare.
— E perchè? — chiesero tutti gli impiegati.
— Perchè è sotterrato da quattro giorni.
Fu così che i colleghi d’Akaki seppero della sua morte.
Il giorno seguente il suo posto fu occupato da un altro impiegato, d’una natura un po’ più robusta, il quale non si diede la pena di modellare le lettere copiando gli atti.
Sembrerebbe che la storia d’Akaki dovesse finir qui e che non ci restasse niente a sapere di lui. Ma il modesto consigliere titolare era destinato a far più rumore dopo morto che in vita, e qui il nostro racconto prende una forma fantastica.
Un giorno si sparse la nuova a Pietroburgo che nelle vicinanze del Ponte Caterina appariva ogni notte un fantasma in uniforme di funzionario di Cancelleria e che il fantasma cercava una uniforme rubata e toglieva, senza curarsi dei titoli, nè dei gradi, a tutti i passanti le uniformi ovattate con pellicce di gatto, di lontra, d’orso, di castoro, o di qualsiasi altra pelle o stoffa. Un antico collega del consigliere titolare aveva visto lo spettro e perfettamente riconosciuto Akaki. Aveva lottato con tutte le forze per uscirgli di mano, ma era già lontano, che lo vedeva ancora minacciare col pugno. Ovunque, sentiva che consiglieri e non consiglieri titolari, ma consiglieri di Stato, avevano preso seri raffreddori in seguito a quest’atto inqualificabile che li spogliava della loro più calda veste. La polizia impiegò tutte le misure possibili per impadronirsi di questo spettro morto o vivo, e infliggergli un castigo esemplare; ma ogni tentativo rimase vano.
Però una sera una sentinella ebbe la fortuna d’arrestare il malfattore nel momento che toglieva l’uniforme a un musicista. Il funzionario chiamò due compagni al soccorso e confidò loro il prigioniero mentre cercava la tabacchiera per rianimare il naso gelato. Bisogna credere che il tabacco avesse un odore capace di svegliare un morto. Appena ne approssimò qualche granellino alle narici, il prigioniero prese a starnutare così fortemente che i tre soldati sentirono come un velo coprir loro gli occhi. Mentre si fregavano le pupille, il prigioniero disparve. Da quel giorno le sentinelle ebbero un tale spavento dello spettro, che non si arrischiarono più ad arrestarlo vivo, e si limitarono a gridargli a distanza:
— Passate al largo! al largo!
Il fantasma continuò a frequentare le contrade del ponte Hatinka e sparse il terrore in tutto il quartiere.
Ritorniamo ora al nostro direttore generale, la prima causa del nostro racconto, fantastico bensì, ma assolutamente vero. Per verità dobbiamo dire che dopo la morte d’Akaki ebbe una certa pietà del defunto. Il sentimento dell’equità non era estraneo al suo cuore; aveva anzi delle eccellenti qualità, e unico suo difetto era l’impedir a sè stesso, per orgoglio del titolo, di mostrarsi dal suo lato buono. Quando l’amico l’ebbe lasciato, la sua mente corse all’infelice consigliere titolare che vedeva ancora prostrato, atterrito sotto il rude insulto che gli aveva fatto subire. Questa visione l’assediò a tal punto, che un giorno incaricò un impiegato di informarsi intorno ad Akaki e se si poteva far ancora qualche cosa per lui.
Quando il messaggero ritornò con la notizia che, subito dopo l’udienza, il povero piccolo funzionario era morto, il direttore generale ebbe rimorso di coscienza e rimase tutto il giorno immerso nelle nere idee.
Per scacciare le spiacevoli impressioni, andò, verso sera, da un amico, dove sperava incontrare una lieta brigata, e specialmente funzionari del suo grado, così da non sentirsi a disagio.
Infatti si trovò presto liberato dai pensieri melanconici, si animò, prese fuoco, si unì alla conversazione come se niente fosse, e passò una bellissima serata.
A cena bevette due bicchieri di sciampagna, ciò che, come si sa, è un eccellente mezzo di ricuperar l’allegria. Sotto l’influenza della bevanda spumante, ebbe l’idea di non ritirarsi subito, e di andare a visitare un altro amico che non vedeva da un pezzo.
Salì nella slitta e diede al cocchiere l’indirizzo.
Accuratamente avvolto nel mantello, era nel più piacevole stato che un russo possa desiderare di trovarsi, nello stato ove lo spirito si culla in un circolo di pensieri uno più incantevole dell’altro. Ricordava la compagnia che aveva lasciato, tutti i discorsi arguti che aveva uditi e che ripeteva a bassa voce con piccoli scoppi di risa.
Di tratto in tratto era turbato nelle sue meditazioni da un violento colpo di vento che l’assaliva bruscamente, voltando un angolo di via, e gli lanciava sul viso un turbine di neve. La tramontana penetrava sotto il mantello, lo gonfiava come una vela, obbligandolo a impiegar tutte le forze per tenerlo sulle spalle.
D’improvviso, si sentì afferrare al colletto da una mano potente. Si volse e scorse un ometto vestito con una vecchia uniforme. Ravvisò con spavento le fattezze di Akaki, ma queste fattezze erano pallide, livide, emaciate, come quelle di un morto.
— Finalmente ti tengo... Posso prenderti per il colletto... voglio la mia uniforme! Tu non ti sei curato di me quando avevo bisogno; ti sei imaginato che avevi soltanto a colmarmi di male parole. Rendimi la mia uniforme!
L’alto funzionario si sentì soffocare. Nei suoi uffici, inanzi ai subordinati, era un uomo di aspetto imponente; non aveva che alzar gli occhi su d’un inferiore perchè tutti intorno a lui esclamassero: che gran personaggio!
Ma come molti altri funzionari, dell’eroe aveva soltanto l’apparenza esteriore, e in quel momento era in una situazione che gl’inspirava seri timori per la sua salute.
Con mano tremante e febbrile, levò egli stesso il mantello e gridò al cocchiere:
— Presto, a casa! Presto!
Quando il cocchiere udì questa voce che non aveva più nulla di quella che era abituato ad ascoltare e che ora accompagnava con colpi di frusta, abbassò prudentemente la testa e fece partir la slitta come una freccia. Subito il direttore generale giunse a casa, salì in camera col viso pallido, spaventato, e passò una notte tanto terribile che la dimane sua figlia esclamò inorridita:
— Ma papà, sei dunque ammalato?
Non disse niente, nè di ciò che aveva visto, nè di ciò che aveva fatto il giorno prima. Però questo avvenimento fece su lui una grande impressione. Da quel giorno, non interpello più i subordinati, e non disse più loro:
— Sapete a chi parlate? Sapete chi è inanzi a voi?
O se gli accadeva ancora di rivolgersi a uno in modo imperioso, era almeno dopo aver ascoltato la domanda.
Ed anche raramente! Da quel giorno pure lo spettro cessò di mostrarsi. E probabile che sua intenzione fosse di mettere la mano sul mantello del direttore generale; ora che lo aveva preso, non desiderava più niente. Non di meno, molti assicurano che il fantasma comparisse ancora in altri quartieri della città... Un funzionario raccontò che l’aveva veduto coi suoi occhi, come un’ombra, urlare e dileguar dietro una casa. Ma questo funzionario era di carattere così timoroso che la gente prendeva spesso piacere a burlarlo delle sue chimeriche paure. Non osando affrontare lo spettro, mentre passava, s’era contentato di scivolar molto prudentemente dietro di lui. Allora lo spettro si era voltato bruscamente, gridando: «Cosa vuoi?» e mostrando un pugno così formidabile che nessuno aveva mai visto l’eguale.
— Non voglio niente, — rispose il funzionario, — e si affrettò a tornare indietro.
Quest’ombra era più grande di quella del consigliere e portava un’enorme barba. Traversò a gran passi il ponte d’Obuchoff, e sparve poi nelle tenebre della notte.
Note
- ↑ La parola russa Sitel mal si traduce mantello, ferraiuolo, pastrano: risponde meglio a quel soprabito comunemente detto pipistrello. Abbiamo preferito uniforme, nome più confacente alla divisa del cinovnik.
- ↑ Funzionario pubblico.
- ↑ La gerarchia burocratica, o il cin, in Russia si divide in quattordici classi. Il consigliere titolare appartiene alla nona.
- ↑ Da basmask, scarpa. Basmaskin vuol dire calzolaio.
- ↑ Akaki, figlio d’Akaki. In Russia i fanciulli portano, dopo il loro nome, quello del padre. Essi hanno generalmente un solo nome.
- ↑ Grivenik: moneta di 10 copeki, o 40 centesimi.