L'oceano (1930)/Canto primo
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CANTO PRIMO
1
Cantiam, Musa, l’eroe di gloria degno,
ch’un nuovo mondo al nostro mondo aperse,
e da barbaro culto e rito indegno
vinto il ritrasse e al vero Dio l’offerse.
La discordia de’ suoi, l’iniquo sdegno
de l’inferno ei sostenne, e l’onde avverse
e con tre sole navi ebbe ardimento
di porre il giogo a cento regni e cento.
2
Tu, magnanimo Carlo, a cui le porte
d’Italia il re del ciel diede in governo
perché la difendessi ardito e forte
da l’inimico oltraggio e da lo scherno,
tu gradisci il mio canto; e tu da morte
privilegialo sí ch’ei viva eterno;
ché tuo nome immortal fuor di se stesso
può l’opre anco eternar dove sia impresso.
3
Da i termini d’Alcide avea giá sciolte
le vele il domator de l’oceáno,
e con le prore a l’occidente vòlte
si lasciava a le spalle il lito ispano:
tutte d’intorno a lui parean sepolte
le tempeste nel mar placido e piano,
e invitata da un ciel puro e sereno
gli apriva Teti al gran disegno il seno.
4
Un fresco venticel da terra usciva,
ch’invigorando il cor de’ naviganti
faceva di lontan fuggir la riva
e da tergo sonar l'onde spumanti.
Era ne la stagion che l’alba apriva
cinta di rose il cielo e d’amaranti,
e affacciata al balcon de l’oriente
parea languir mirando il sol nascente.
5
Salutavan le trombe il nuovo giorno,
e i delfini a scherzar correan su l'onde.
Sedeva in poppa il capitano, e ’ntorno
cinto de’ suoi piú degni eran le sponde.
Ei con parlar ferocemente adorno
e con voci magnanime e faconde
diceva loro: — Oggi, compagni, è il punto,
che ’l nostro sole a l’oriente è giunto.
6
Oscura abbiamo e neghittosa vita
fin qui dormito, or s’incomincia l’ora
che fuor de la vulgar nebbia infinita
usciamo al dì lucente; ecco l’aurora.
Questa via, ch’altri mai non ha piú trita,
vi conduco a solcar del mondo fuora,
a ciò che fuor de la comune schiera
usciate meco a fama eterna e vera.
7
E s’alcuno di voi con maggior cura
d’oro e di gemme a faticar s’invoglia,
io spero di trovar tale avventura
che ne potrá saziar ogni sua voglia.
Che la via che facciam non sia sicura
il vedermi con voi dubbio vi toglia;
ché pazzo è chi desia per cangiar sorte
d’espor se stesso a temeraria morte. —
8
Cosi parlava; e giá trascorsi tanto
erano i legni suoi nel mar immenso,
che del lito african da nessun canto
non appariva piú vestigio al senso;
quando rivolse al glorioso vanto
gli occhi il superbo re de l’aer denso,
e antiveduto il suo periglio sorse
dal nero seggio e l’empie man si morse.
9
E chiamando i ministri, a’ quai commessa
l’aria avea d’occidente e ’l mar profondo,
grida lor furiando: — E chi concessa
al Colombo ha la via del nostro mondo?
Dunque d’un uomo vil l’audacia oppressa
e sommersa del mar nel cupo fondo
esser non può con tre legnetti frali?
O ignominia degli angioli immortali!
10
Se tornate qua giú, spiriti indegni,
senz’averlo affogato entro a quelTonde
o distornato almen sì ch’a quei regni
non giunga mai che l'oceáno asconde,
io vi farò provar l'ire e gli sdegni
ch’io serbo a le perdute anime immonde,
e legherovvi di catene eterne
tra ’l foco e ’l giel de le paludi inferne. —
11
Sì disse il re de l’ombre; e ’l guardo fiero
volgendo a Bucifar terror de’ venti,
mostrò ch’a lui del suo crudele impero
toccassero le basi e i fondamenti.
Come nottole uscian per l’aer nero
gli spiriti mal nati ai rai lucenti,
e pareva che ’l sole a quell’uscita,
ritirasse la luce impallidita.
12
Liete se ’n gian le tre famose navi
col vento in poppa in alto mar secure;
quand’ecco si turbâr l’aure soavi,
e l’onde si turbâr placide e pure.
A l’apparir degli empi spirti e pravi
parve ascondersi il ciel fra nubi oscure:
e i venti, che dormian sopra l’arene
del mar, ruppero i ceppi e le catene.
13
Scatenato Libecchio Africa lassa,
e verso tramontana i vanni spaccia:
Euro al fondo del mar corre e s’abbassa:
e le tempeste in ciel Volturno caccia.
Vede il periglio il capitano; e passa
a confortare i suoi pallidi in faccia:
fa calar ogni vela in un momento
fuor che ’l trinchetto, e piglia in poppa il vento.
14
Né provveduto ancor del tutto ei s’era,
che riversò la maledetta gesta
da la faccia del ciel torbida e nera
grandine e pioggia e fulmini e tempesta.
Sparve il giorno col sole, e innanzi sera
notte si fe’ caliginosa e mesta;
né rimase altro lume ai naviganti,
che quel ch’uscia dai folgori tonanti.
15
Crescono l’onde a tant’altezza, ch’elle
perdon la forma e la sembianza d’onde;
le navi ora salir verso le stelle
e su le nubi alzar paion le sponde,
or traboccar fra l’anime rubelle
sembran ne le voragini profonde:
e al romper de l’antenne e de le sarte
han giá i nocchieri abbandonata l’arte.
16
Tutto quel dì, tutta la notte appresso
per le vie de la morte errâr dispersi.
Sembra la pioggia al cader folto e spesso
che giú nel mare un altro mar si versi:
crescon i venti a memorando eccesso
stretti a soffiar da gli Angioli perversi:
e giá comincia il capitan co’ suoi
forte a temer che l’Oceán l’ingoi.
17
Ciò che saggio nocchier, ch’antiveduto
potea fare o soldato o capitano,
tutto fe’ il valoroso; e fu veduto
ne’ piú vili bisogni oprar la mano:
ma quando indarno al fin vide ogni aiuto,
ogni fatica, ogni consiglio vano,
fermossi immoto; e pien d’ardente zelo
rivolse gli occhi e le parole al cielo.
18
E disse: — Ecco, signor, che vinto cede
a la possanza tua mio frale ingegno:
se non è tuo voler che la tua fede
portata sia da un peccatore indegno,
dove non pose mai, ch’io creda, il piede
alcun de la tua legge e del tuo regno;
perdona a questi al men che non han colpa,
e del soverchio ardir me solo incolpa.
19
Ma se questi del mar fieri contrasti
vengono a noi da la tartarea corte;
tu che d’Egitto a l’empio re mostrasti
l’alto valor de la tua destra forte,
e d’Israel il popolo salvasti,
oggi salva ancor noi con egual sorte,
e vegga de l’inferno il seme rio
ch’in cielo in terra e ’n mar tu sol se’ Dio. —
20
Salì questa preghiera al ciel volando,
e fermò l’ali ai piè del Redentore.
Mirolla; e ’l guardo in Urriel girando,
che de l’ispano regno è protettore,
— Va’ tu, — gli disse. E quegli al gran comando
tosto s’armò di lampi e di terrore,
e dove perigliar vede il Colombo
trasse la spada e giú lanciossi a piombo.
21
I miseri guerrier prostrati al suolo
stavano orando in atto umile e pio;
quando si scosse l’uno e l’altro polo,
e tremò il mondo, e un fiero tuon n’uscio;
ed ecco di lontan videro a volo
folgorando venir l’angel di Dio;
e parve ai lampi e a le fiammelle sparte
che giú cadesse il sole in quella parte.
22
Qual digiuno falcon, che d’alto vede
di storni o d’altri augei schiera che passa,
piomba dal cielo e la disperge e fiede
con l’artiglio e col rostro e la fracassa;
cotal l’angel di Dio da l’alta sede
sovra gli empi demòni i vanni abbassa:
gli percote, gli caccia e gli disperge,
e ’l nubiloso ciel colora e terge.
23
Fra i nembi che fuggian da’ suoi sembianti
tralucevano i rai con lunghe spere;
foggiano i venti e i turbini sonanti,
e le procelle e l’ombre oscure e nere:
egli in atti sdegnosi e fulminanti
con la spada ferir l’inique schiere
e cacciarle dal ciel, visibilmente
veduto fu da la smarrita gente.
24
Allor levossi il capitan gridando:
— O fortunati, ecco un guerrier celeste
che combatte per noi lá su col brando
e discaccia i demòni e le tempeste.
Chi vuol segno piú lieto e memorando?
Ecco il ciel che s’allegra e si riveste
d’azzurro, e ’l mar che placa il gonfio seno
mirate lá più avanti, ecco il terreno. —
25
Cosi parlava; e di lontan vedea
molt’isole nel mar fra sé distinte:
onde le prore a quel sentier volgea,
dove parean dal vento esser sospinte.
Eran l’isole queste ove credea
l’antica etá che de le genti estinte
volassero a goder l’alme beate;
e le chiamò felici e fortunate.
26
Porto in una di lor sicuro stassi,
ch’entra nel lido e forma un ampio cinto;
e fuor, lá dove ad imbroccarlo vassi,
stretto è di foce e d’alti scogli è cinto:
ne la tempesta il mar da cavi sassi
spumeggiando ritorna in dietro spinto;
ma non può l’ira mai del vento audace
la cheta onda turbar che dentro giace.
27
Quivi il Colombo entrò con le sue navi,
e stanza vi trovò dolce ed amena;
praticelli, boschetti, aure soavi,
fonti, rivi, e d’amor la terra piena;
fiorite l’erbe, e gli arbuscelli gravi
di frutti, e intorno una continua scena;
e tra le frondi augelli e per le valli
persi, verdi, vermigli, azzurri e gialli.
28
Ma non s’offerse cosa ai riguardanti
piú gradita da lor né piú gioconda,
ch’un vezzoso drappel di ninfe erranti
che gian danzando in fra le piagge e l’onda.
Come alzaron la vista ai naviganti,
s’imboscâr tutte a la piú chiusa fronda:
solo ritenne il piede una di loro,
e da l’arco avventò due strali d’oro.
29
Parve Cintia costei, ch’a vendicarse
del temerario ardir fosse restata:
folgoraron le chiome a l’aura sparse
e la faretra d’oro ond’era armata;
e ’n succinto vestir leggiadra apparse,
bianca la gonna, e ’l vago piè calzata
d’aurei coturni, e ne la faccia bella
qual tremolante e mattutina stella.
30
E volgendo a le navi i lumi irati,
— E chi, gridò, cotanto ardir vi diede?
uomini vili a le miserie nati,
tenete fuor di questa riva il piede.
Qui solo hanno gli eroi fatti beati
e le ninfe immortali albergo e sede. —
E ’n questo dir scoccando il terzo strale,
ratta si rinselvò come avesse ale.
31
Poi che sparita fu la bella arciera,
stette sospeso il capitano un poco,
se doveva smontar su la riviera
o procacciarsi porto in altro loco.
Stimando al fin che de la donna altera
fossero i gesti e le parole un gioco,
per ristaurar le navi in terra scese
co’ suoi compagni e un padiglion vi tese.
33
Quivi rifece antenne, arbori e sarte,
e rivide le poppe e le carene.
Ma de’ compagni suoi la maggior parte
cercando andar per quelle piagge amene,
e trovar le vallette in ogni parte
di cannemele e zuccari ripiene
e di starne e fagiani e daini e lepri
che scherzavan fra i mirti e fra i ginepri.
33
Era ancor primavera e da le viti
pendean l’uve mature, e i rami tutti
parevano inchinarsi a fare inviti
ch’altri cogliesse i lor maturi frutti;
ma fra i gusti piú cari e piú graditi
(che divennero poscia amari lutti)
era il veder fra le selvette ombrose
or mostrarsi, or fuggir le ninfe ascose.
34
La vaga gioventú focosa e ardente
correa per abbracciarle, e correa in vano;
ch’elle si nascondeano immantenente,
e su l’avvicinar fuggian di mano.
Ecco una n’apparia bella e ridente,
e sembianze d’amor fea di lontano
fingendo d’aspettar; ma poi d’appresso
scoccava l’arco e fuggia a un tempo stesso.
35
Gli strali erano d’oro, e piaga mai
nel suo colpire alcun di lor non fea:
ma sentiva il percosso acerbi guai
per l’arciera crudel che ’l percotea,
né di seguirla e di cercarla ai rai
de la luna e del sol si ritenea:
ed ella ad or ad or gli si mostrava
ne l’aspetto gentil ch’ei piú bramava.
36
A cui piacea la tenerella etate,
donzellette apparian di primo fiore,
lascivamente in varie guise ornate,
che pareano al sembiante arder d’amore:
e quando s’accorgean d’esser mirate,
or s’ascondeano, or si mostravan fuore,
baciandosi tra lor sì dolcemente
ch’avrebbon fatto un cor di tigre ardente.
37
S’altri l’etá piú ferma avea piú cara,
ecco forme piú adulte in piú maniere
or saettar con le compagne a gara,
or cantar sole, or carolare a schiere.
Chi nude le chiedea, ne l’onda chiara
notar da lunge le potea vedere;
s’in abito virile, in poco stante
satollava il desio cupido amante.
38
Una di lor che sotto un verde alloro
chiusa d’un fresco rio d’onde correnti
temprava al suon d’una grand’arpa d’oro,
che fra le mani avea, soavi accenti;
lo spirto velocissimo e canoro
or con tremule note, or con languenti,
or con liete alternando e disciogliendo,
da una rupe cantò così dicendo:
39
— Quand’amor nacque, sue dolcezze eterne
stillarono dal ciel sovra i mortali,
che da prima correan tutti a goderne
confusamente in un volere uguali;
fin che il desio di maggior copia averne
instigò i primi artefici de’ mali
a nasconder la loro e trovar arte
d’usurparsi e goder de l’altrui parte.
41
Sdegnato Giove a provveder s’accinse;
mandò l’onore e l’onestade in terra:
le dolcezze d’amor l’una restrinse,
e l’altro mosse a l’appetito guerra.
Così del gusto il puro fonte estinse
fuor ch’in questa del mondo unica terra,
che serba ancor de le dolcezze il fiore
come le distillò nascendo Amore.
41
Voi fortunati a la beata sede
giunti a goder de le delizie antiche,
non affrettate oltre il suo corso il piede,
ch’a tempo volgeran le stelle amiche.
Come a l’estivo ardor l’autun succede
co’ frutti a ristorar l’altrui fatiche;
così frutti d’amor verran fra poco:
ma non si geli poscia il vostro foco.
42
Primavera d’amore aura gentile
par che spirando ai dolci scherzi alletti:
passa de la stagione il vago aprile,
e s’infiamman d’arsura estiva i petti:
tempra l’autunno amor l’arco e ’l focile
co’ dolci frutti suoi, co’ suoi diletti:
ma non sì tosto poi sazio è il desio,
ch’un freddo verno amor caccia in oblio.
43
Godete, amanti lieti e avventurati,
di primavera i fiori e la verdura:
soffrite de la state i caldi fiati,
ché piú gradita fia vostra ventura:
succederá l’autun co’ frutti amati;
ma non s’estingua poi la vostra arsura:
ch’in noi nato il desio diventa eterno,
nè state il cangia né lo spegne il verno. —
44
Cosi cantò la ninfa; e ’n tal maniera
mosse la gioventú cupida e sciolta,
che per le selve andar mattina e sera
si vedea folleggiando e di sé tolta:
vincere a lungo andar la prova spera,
se ben non succedea la prima volta;
però che suole ogni principio sempre
ritrovar in amor contrarie tempre.
45
Ma il capitan, che ’l suo periglio intese
e vide ciò che ne potea seguire,
di tosto provveder consiglio prese,
e fe’ intimar che si volea partire:
ma gli ordini e i comandi indarno spese,
e i preghi indarno e le minacce e l’ire:
ché non credeva alcun né gli era aviso
che fosse in altra parte il paradiso.
46
Blasco d’Arranda, uom giá d’etá matura,
ma saettato di saetta d’oro,
físso di rimaner, per la paura
che non partisser gli altri, ei dicea loro:
— E qual nuova cercar miglior ventura
vogliam noi, sciocchi, o in mar vano tesoro,
se la stanza e ’l possesso ora lasciamo,
de l’isola beata ove noi siamo?
47
Noi non sogniam questa felice vita,
né son dipinti questi frutti e fiori:
ma il capitan ch’a dipartir n’invita
sa c’hanno come gli altri e sugo e odori.
Quest’isola sì bella e sì gradita,
albergo delle grazie e degli amori,
mostra che qui non giunga mai la morte
o che si viva al men con miglior sorte.
48
E non senza ragion l’antica etate,
che ’l tutto seppe, in questa parte volle
la sede por de l’anime beate,
che ’l pregio di natura a l’altre tolle:
qui primavera è sempre, autunno, estate,
senz’alcun verno, e non è piano o colle
che di frutti non sia pieno e fecondo;
e noi vogliam cercar d’un altro mondo?
49
Torni il Colombo a prender nova gente,
e la conduca ove s’ha dato il vanto:
ei troverá compagni agevolmente,
e noi godremo qui felici intanto. —
De l’infiammato petto il dire ardente
l’incauta gioventú commosse tanto,
che giá la maggior parte ha stabilito
di non partir da l’amoroso lito.
50
Con trecento guerrier dal porto ispano
s’era partito il gran Colombo: e cento
nati su ’l Tago avean per capitano
il superbo Pinzon gonfio di vento:
d’Aragon cento ne traea Roldano,
uom di feroce e indomito ardimento:
e cento giá d’Italia i piú fidati
Tolomeo suo fratel n’avea guidati.
51
Seco il minor fratello e ’l maggior figlio
conduceva il Colombo a quell’impresa,
che de la gloria sua, del suo periglio
fosser consorti entrambi e ’n sua difesa;
o se venisse a lui del suo consiglio
da morte o rio destin l’opra contesa,
potesse uno di lor seguirla tanto
che ne portasse il desiato vanto.
52
Diego avea nome il figlio, in cui fioriva
sua speme, ancor fanciul d’etá crescente,
che giá sprezzando il mar col padre giva
a cercar nuovi regni in occidente:
quantunque volge l’una e l’altra riva
de la Liguria a l’austro e al sol nascente,
non vide amor fanciullo in quell’etade
meglio disposto o di maggior beltade.
53
E questi e assai poch’altri eran restati
seco nel porto a rispalmar le navi.
Egli poi che mandò messi iterati
attorno e delirar vide i piú savi,
andò egli stesso al fine, e gli ostinati
smover con dolci e con parole gravi
cercò; ma poco frutto i suoi ricordi
fêr predicando agli appetiti sordi.
54
— Soldati, ei dicea lor, quest’isoletta
non può mancarne mai: venite, andiamo;
ch’in così poco ciel non è ristretta
quella felicitá che noi cerchiamo.
Tutto ciò che piú gusta e piú diletta,
se dentro a questo mar piú c’ingolfiamo,
ritroveremo, e donne e frutti e fiori,
e, quel ch’importa piú, gioie e tesori.
55
Se v’arrestano qui vani diletti,
che diranno i re vostri al mio ritorno?
Voi foste meco a l’alta impresa eletti,
e fate a la lor fede oltraggio e scorno. —
Così dicea: ma gli ostinati petti
non si movean però dal lor soggiorno,
follia stimando a quel sicuro lido
le speranze antepor del mare infido.
56
Ond’ei tornò tutto dolente e mesto
fra sé volgendo il non pensato caso:
e di perder temendo ancora il resto
che vacillando seco era rimaso,
l’áncore svelse e usci del porto presto
e le vele spiegò verso l’occaso,
gridando da la poppa in alto suono:
— Poi che m’abbandonate, io v’abbandono.
57
Ma che fará con così poca gente?
egli stesso nol sa, né si sgomenta;
l’isola gira, e di lontan sovente
manda uno schifo, e gli animi ritenta;
ma sorda sempre ai prieghi suoi piú sente
farsi ogni orecchia: ogni speranza è spenta:
ond’al fin parte, e i legni in alto mare
porta il vento; né piú l’isola appare.
58
Qual tortore che i figli abbia guidati
fuora del nido in non sicura parte,
poi che s’accorge o de’ vicini aguati
o del periglio lor sospetta in parte,
gli stimola a fuggir con dolci usati
susurri, e va girando e torna e parte,
e quando vede al fin che nulla vale,
s’allontana da lor spiegando l’ale;
59
tal il Colombo infino a l’altra aurora,
col vento in poppa a piene vele corse:
pregavanlo i compagni a far dimora,
e gian piangendo e di lor vita in forse:
quando calò le vele, e la sua prora
tutto in un tempo a l’oriente ei torse;
prese il vento per fianco; e diede segno
ch’a l’isola tornar facea disegno.
60
Ma del settentrion la rabbia avversa
s’oppone, e ritornar non gli concede,
o se ritorna pur, sì l’attraversa,
che va girando e tardo e lento ei riede:
vince l’industria al fin l’aura perversa,
e giá securo ha sovra il vento il piede:
ma il vento, ch’ottener non può la palma,
subito cessa; e resta il mare in calma.
61
Alzano i marinai le vele, e vanno
cercando aura che spiri, e nulla giova.
Senz’aura il cielo, il mar senz’onda stanno,
perduto è quaggiú il moto o non si trova:
gettan gli schifi, e con fatica e affanno
cercati di rimorchiar le navi a prova:
ma sì stentata è l’opra e così lunga,
che troppo ci vorrá pria che si giunga.
62
Il capitano allora in sé raccolto
levò le mani e le preghiere a Dio,
e disse: — Alto Signor, tu che m’hai tolto
a custodir dal tuo avversario e mio;
tu che rompesti dianzi il nembo folto
e frenasti del mar l’impeto rio;
tu dammi or vento, e fa’ ch’io trovi il core
de’ cari servi tuoi tratto d’errore. —
63
Su l’ali de la Fede in un momento
saliro i prieghi a la magion celeste:
e ’l messaggier divin che stava intento
al rio pensier de la tartarea peste,
l’aurate piume giú dal firmamento
spiegò succinto in luminosa veste;
e ritrovò che gli angioli dannati
ne le spelonche i venti avean legati.
64
Gli spiriti perversi avean creduto
che sen gisse il Colombo a l’occidente,
e che piú non tornasse a dare aiuto
a la perduta sua misera gente;
ma poi che l’ebber ritornar veduto
contra il furor de l’aquilone algente,
ne le caverne lor frigide e vote
legaro i venti; e restâr l’aure immote.
65
E avean lo schernitor di scherno vinto,
se l’angelo di Dio non discendea
a disserrare il tenebroso cinto
che chiuso il vento in sua magion tenea.
A l’isola felice il duce spinto
su l’ora nona il quarto di giugnea,
e ritrovava in orrida sembianza
tutta cangiata giá sìi lieta stanza.
66
Corsero al lito i suoi compagni mesti,
tosto che di lontan videro i legni;
e con le mani alzate e con le vesti
feron chiamando ai naviganti segni;
e a l’approdar de le tre navi presti
si lanciâr giú da quei dirupi indegni,
che di prati fioriti e piagge amene
s’eran cangiati in nudi sassi e arene.
67
Fuvvi di lor chi per desio d’uscire
fuor di quel luogo inospite e diserto
corse ne l’onda a rischio di morire,
ch’eran le navi ancor nel mare aperto.
Ma poi che tempo e spazio ebbe il desire,
Blasco nel danno suo giá fatto esperto
con vergognose luci e ’n terra fisse
chiese perdono al capitano, e disse:
68
— Quel dì, signor, ch’in alto mar spiegando
le vele di partir festi sembianza,
stemmo tutta la notte amoreggiando
fra le ninfe leggiadre in festa e ’n danza:
ogni tristo pensier fuggito in bando
n’era in sì bella e sì gioconda stanza:
godevamo ugualmente e n’era aviso
d’esser transumanati in paradiso.
69
Ma poi che il sol ne l’oceán s’immerse
e fu la luce sua del tutto estinta,
ombra caliginosa ne coperse
di spaventose immagini dipinta:
né mai sì fiera illusion s’offerse
a l’agitato Oreste e d’orror cinta,
che s’agguagliasse a quella, onde la notte
ne furo il sonno e le speranze rotte.
70
Di rauche trombe e di tamburi il suono
l’orecchie ad or ad or ne percotea:
or tremava la terra, or s’udia il tuono
de’ lampi, or del furor de la marea:
parean fuggir le fere in abbandono:
e ’n vece de le ninfe a noi parea
ch’uscissero giganti e mostri ascosi,
orribili, tremendi e spaventosi.
71
Né le sembianze lor del tutto vane
erano ai sensi oppressi e conturbati:
ma d’urti fieri e di percosse strane
sentimmo i colpi da diversi lati,
e le piagge vicine e le lontane
muggiar d’urli feroci e di latrati:
così senz’aver mai riposo un’ora
fummo agitati in fin ch’uscì l’aurora.
73
Quando al fin l’alba in oriente apparve
e le sue stelle in ciel la notte ascose,
s’ascosero e fuggir tutte le larve
e le finte bellezze insidiose:
frutti, fior, fronde, ogni delizia sparve,
gli ameni prati e le selvette ombrose;
e l’isola restar vedemmo piena
d’orridi sassi e d’infeconda arena.
73
Tre giorni siamo in sì solinga stanza
senza riposo e senza cibo stati,
di rimedio non pur ma di speranza
da tutti gli elementi abbandonati.
Questo spirto, signor, per te n’avanza:
che se tu ti scordavi i tuoi soldati,
o piú tardi giungevi in lor soccorso,
di nostra vita era finito il corso. —
74
Qui tacque Blasco; e lo smarrito aspetto
degli altri confirmò le sue parole.
Li conforta il Colombo: e con affetto
paterno di lor mal seco si duole;
fa ristorargli, e ascolta con diletto
i lor vaneggiamenti e le lor fole;
e l’isola diserta intanto lassa,
e a prender acqua a la vicina passa.
75
Vede rustici alberghi e abitatori;
e d’acqua chiede; e, maraviglia strana,
trova il terren che non produce umori:
ma un grand’arbore in vece è di fontana;
stringonsi intorno a lui tutti i vapori
del luogo; e fuor d’ogni credenza umana
la virtú di quell’arbore gli scioglie,
e gli distilla giú da le sue foglie.
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Quivi egli empiè a grand’agio i vasi vòti
e tolse al dipartir rinfrescamenti:
e veggendo del mar giá queti i moti,
di nuovo fé’ spiegar le vele ai venti.
Musa, cui sono i gran perigli noti
nel girar ch’ei fe’ il mondo a nuove genti,
tu d’intelletto fior dammi e di senso,
qual si conviene a l’oceano immenso.