L'oceano (1930)/Lettera scritta ad un amico sopra la materia del Mondo nuovo
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | L'oceano | Canto primo | ► |
LETTERA SCRITTA AD UN AMICO
SOPRA LA MATERIA DEL «MONDO NUOVO»
Signor mio,
Vostra Signoria m’ha mandati due canti del suo poema, i quali non sono né i primi né seguiti. L’uno contiene la descrizione d’una battaglia e l’altro un accidente amoroso. Quanto al poema, io non posso giudicare quello ch’egli sia per essere; mentre non ne veggo né principio né mezzo né fine. Ma poich’ella me ne mostra un braccio e una gamba, io discorrerò di quel braccio e di quella gamba per quello che sono. E forse dalle qualitá loro si potrá anche venire in qualche cognizione della riuscita di tutto il corpo; come si narra che giá al tempo antico i savi d’Egitto, veggendo una scarpa sola di Rodope, fecero giudizio della bellezza di tutt’ il corpo suo.
La prima cosa adunque, lo stile a me pare assai buono e corrente: e credo che l’uso continuo glielo fará anco migliore. Sonovi alcuni pochi luoghi espressi stentatamente, ma nella revisione Vostra Signoria avrá piú facile e franca la vena da poterli mutare in meglio. Le comparazioni sono poche; e potrebbono essere alcune di loro piú nobilmente spiegate. L’arditezza de’ traslati alle volte ha qualche difficultá: e sonovi alcune voci o frasi poco toscane segnate in margine. Ma, quello che piú importa, Vostra Signoria secondo l’uso moderno ha premuto piú ne’ concetti inutili che nelle cose essenziali; e seguita (per quanto io posso giudicare) la via degli altri che trattano questa benedetta materia del Mondo Nuovo; che non sono pochi. Per ciò che, oltre il cavalier Stigliani che n’ha giá dati fuori venti canti, e il Villifranchi ch’avea ridotto a buon segno il suo poema quando morí; io so tre altri che trattano anch’essi eroicamente l’istesso soggetto: e tutti dánno in questo di voler imitare il Tasso nella Gerusalemme e Virgilio nell’Eneide; e niuno si ricorda dell’Odissea, la quale, s’io non m’inganno, dovrebbe esser quella che servisse di faro a chi disegna di ridurre a poema epico la navigazione del Colombo all’India occidentale.
Giá per publica fama e per istorie notissime a tutto il mondo si sa, che i popoli dell’India occidentale non avevano all’arrivo del Colombo in quelle parti né ferro né cognizione alcuna di lui, e che andavano tutti nudi, oltre l’essere di natura pusillanimi e vili; se non vogliamo eccettuare i cannibali, i quali, benché andassero ignudi anch’essi, avevano nondimeno piú del fiero, e combattevano con archi e saette di canna con punte avvelenate.
A che dunque voler formare un eroe guerriero, dove non si poteva far guerra? o facendosi, si faceva contra uomini disarmati, ignudi e paurosi? Non vede Vostra Signoria che questo è un confondere l’Iliade con la Batracomiomachia, e introdurre un Achille che divenga glorioso col far macello di rane? Vostra Signoria mi risponderá che i suoi Indiani gli finge armati e bravi. E questo è forse ancor peggio; per ciò che ognun sa certo che non avevano armi e che non erano tali; onde esce apertamente del verisimile: e l’intelletto non può gustare di cosa seria, che abbia fondamento di falsitá sí evidente; perché la fantasia dalle cose notissime non estrae fantasmi diversi da quel che sono (ragione che intese anche, ma non la disse, Aristotile): oltre che parimente sa ognuno, che ’l Colombo fu piuttosto gran prudente che gran guerriero.
Essendo dunque tutti gli altri popoli di quelle parti ignudi e vili, a me non pare che si possa far combattere il Colombo, eccetto che co’ cannibali; i quali, benché andassero anch’essi nudi, erano nondimeno tanto fieri e gagliardi che, combattendo con archi grandi e saette con punte di pietra avvelenate, si poteva dalla vittoria acquistar onore. Ma bisognerebbe avvertire di non introdurre, come gli altri, il Colombo con un esercito: per ciò che, oltre l’esser chiaro ch’ei non condusse se non tre caravelle con poca gente, mentre si mette in campo con un battaglione di cinque o seimila tra fanti e cavalli armati contra una moltitudine di gente ignuda, non gli si può fare acquistar fama eroica, sebbene i nemici fossero cento mila; essendo cosa ordinaria che i pochi armati e bravi vincono i molti disarmati e inesperti. E per questo l’Ariosto quando introdusse il suo Orlando contro moltitudine vile, l’introdusse sempre solo. Però anche il Colombo, se non si vuole introdur solo, si dee almeno introdurre con cosí pochi compagni, che a quei compagni ed a lui sia glorioso ed eroico il vincere.
Quanto agli amori, ognuno sa parimente che le donne ritrovate dal Colombo erano brune e andavano anch’esse ignude: però era vanitá l’andar fingendo in loro bellezze diverse dal colore e dal costume di quelle parti. L’introdurre poi in India altra gente d’Europa diversa da quella del Colombo, che combatta con lui, è il maggior errore che si possa fare; venendosi contra l’istoria a levare a lui la gloria della sua vera azione eroica; che fu d’essere stato il primo senza controversia a tentare e scoprire il mondo nuovo.
Però, quanto all’imprese gloriose ed eroiche del Colombo, io mi restringerei, come fece Omero quand’egli cantò gli errori d’Ulisse, a fortune di mare, a contrasti e machine di demòni, a incontri di mostri, a incanti di maghi, a impeti di genti selvaggie, e a discordie e ribellioni de’ suoi; che furono in parte cose vere. E negli amori andrei molto cauto, per non uscire del cerchio; e fingerei piuttosto le Indiane innamorate de’ nostri, che i nostri di loro, come nell’istoria si legge d’Anacaona. E quanto all’invenzione che hanno trovata alcuni di trasportare donne d’Europa in quelle parti su le navi del Colombo, io l’ho per debole assai; e tanto maggiormente, sapendosi che ’l Colombo a fatica ritrovò uomini che il seguitassero in quel suo primo passaggio.
Ma, perché pensai anch’io una volta a questo suggetto, e ne feci cosí all’in fretta un poco di abbozzamento del primo canto, che contiene quello che occorse al Colombo dallo stretto di Gibeltaro fino alle Canarie dette l’isole fortunate; vegga Vostra Signoria s’egli potesse servire a lei per quello ch’ella disegna di fare; ché gli ne mando qui congiunta una copia, e le bacio le mani.
Servitor di V. S. |