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282 | l'oceano |
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— Quel dì, signor, ch’in alto mar spiegando
le vele di partir festi sembianza,
stemmo tutta la notte amoreggiando
fra le ninfe leggiadre in festa e ’n danza:
ogni tristo pensier fuggito in bando
n’era in sì bella e sì gioconda stanza:
godevamo ugualmente e n’era aviso
d’esser transumanati in paradiso.
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Ma poi che il sol ne l’oceán s’immerse
e fu la luce sua del tutto estinta,
ombra caliginosa ne coperse
di spaventose immagini dipinta:
né mai sì fiera illusion s’offerse
a l’agitato Oreste e d’orror cinta,
che s’agguagliasse a quella, onde la notte
ne furo il sonno e le speranze rotte.
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Di rauche trombe e di tamburi il suono
l’orecchie ad or ad or ne percotea:
or tremava la terra, or s’udia il tuono
de’ lampi, or del furor de la marea:
parean fuggir le fere in abbandono:
e ’n vece de le ninfe a noi parea
ch’uscissero giganti e mostri ascosi,
orribili, tremendi e spaventosi.
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Né le sembianze lor del tutto vane
erano ai sensi oppressi e conturbati:
ma d’urti fieri e di percosse strane
sentimmo i colpi da diversi lati,
e le piagge vicine e le lontane
muggiar d’urli feroci e di latrati:
così senz’aver mai riposo un’ora
fummo agitati in fin ch’uscì l’aurora.