L'impresario delle Smirne/Atto I

Atto I

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Personaggi Atto II

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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Sala comune nella locanda di Beltrame.

Beltrame aggiustando i mobili della sala, poi il Conte Lasca.

Lasca. Buon giorno, messer Beltrame.

Beltrame. Servitor umilissimo del signor Conte. Che cosa ha da comandarmi?

Lasca. Mi è stato detto, che al vostro albergo sono arrivati ieri de’ virtuosi; è egli vero?

Beltrame. Sì signore. Un soprano e una donna.

Lasca. Il soprano chi è?

Beltrame. Un certo Carluccio...

Lasca. Detto Cruscarello?

Beltrame. Credo di sì. [p. 204 modifica]

Lasca. Lo conosco, è un giovane che ha qualche abilità, ma impertinente all’eccesso. Io lo proteggo, perchè, se vuole, può divenir qualche cosa di buono. Ma per renderlo un po’ ragionevole, non vi è altro rimedio, che quello di trattarlo grossamente, e umiliarlo. L’ho mandato a Genova il carnovale passato, e credo che quegl’impresari, attese le sue impertinenze, abbiano avuto poco motivo di ringraziarmi. E la donna chi è?

Beltrame. La donna è la signora Lucrezia Giuggioli fiorentina, detta l’Acquacedrataia.

Lasca. Acquacedrataia? Che diavolo vuol dire acquacedrataia?

Beltrame. Non sa ella, che in Firenze i caffettieri si chiamano acquacedratai? Sarà probabilmente figlia di uno di tal professione.

Lasca. Sarà così; è brava?

Beltrame. Non lo so, signore. Non l’ho sentita.

Lasca. È bella almeno?

Beltrame. Non c’è male.

Lasca. È stata più in Venezia?

Beltrame. Credo di no.

Lasca. Si potrebbe farle una visita?

Beltrame. Ella sta lì in quella camera, ma è troppo di buon’ora.

Lasca. Dorme ancora?

Beltrame. Ho sentito che è desta, ma vi vorran due ore innanzi che sia in stato di ricever visite.

Lasca. Vorrà lisciarsi.

Beltrame. Senza dubbio. Può essere, che s’ella la vedesse ora, da qui a due o tre ore non la riconoscerebbe più.

Lasca. Bene. Verrò più al tardi. Fatele intanto l’imbasciata, ditele che un cavaliere desidera riverirla.

Beltrame. Venga pure liberamente. Le dirò in confidenza: mi ha fatto l’onore di dirmi, ch’io procurassi di farle fare la conoscenza di qualche signore. Ella può venire ad offerirle la sua protezione.

Lasca. Della protezione ne avrà da me quanta ne vuole. Ma se credesse di piluccarmi, s’inganna. Pratico le virtuose, le assisto, procuro i loro vantaggi, ma del mio non ne mangiano. [p. 205 modifica]

Beltrame. Bravo. Fa benissimo a stare all’erta. Senta un caso che è arrivato in questa mia locanda tre giorni sono ad un signor bolognese, che aveva speso quanto poteva, e più che non poteva, per una giovane virtuosa. Essendo ella chiamata per una recita in un altro paese, giunse qui dal medesimo servita ed accompagnata. Desinarono insieme, e dopo aver desinato, la giovane domandò dell’acqua per lavarsi le mani. Si lava, si accosta alla finestra, getta l’acqua in canale, e volgendosi all’amante afflitto, lo guarda, e ride, e gli fa questo bel complimento: Non sono più in Bologna, sono ora in Venezia, mi lavo le mani, e getto in canale la memoria di tutti i Bolognesi. Il povero galantuomo resta qualche tempo immobile senza parlare, poi: Ingrata, dice, merito peggio. Non mi vedrete mai più. Ciò detto, se ne va come un disperato, ed ella lo accompagna con una solenne risata.

Lasca. Pover’uomo! il caso è doloroso, ma non è caso nuovo.

Beltrame. Mi chiamano, con sua buona licenza. (parte)

SCENA II.

Il Conte Lasca solo.

Io non condanno la donna per essersi disfatta del Bolognese, ma la maniera aspra con cui l’ha fatto. Per altro si sa che queste donne avvezze a cambiar paese, sono pronte a cambiare una passione alla settimana; e non è poca fortuna se uno può dire, la tale mi fu costante finchè fu a me vicina.

SCENA III.

Carluccio ed il suddetto.

Carluccio. Servo del signor Conte.

Lasca. Oh signor Carluccio, vi riverisco. Ben tornato da Genova. Come è andata la vostra recita? Siete voi contento di quel paese? [p. 206 modifica]

Carluccio. Mai più a Genova, nemmeno se mi ci tirano colle catene.

Lasca. Perchè?

Carluccio. Quell’impresario ha trattato meco sì male, che se più ci torno, mi contento di essere bastonato. Io solo ho sostenuto l’impresa. Tutti erano incantati della mia voce, e l’impresario avaraccio ed ingrato volea obbligarmi a cantare tutte le sere. Io che era innamorato morto della prima donna, quand’era disgustato di lei non potea cantare, ed egli che lo sapeva, in luogo di compatirmi, mi volea per dispetto obbligar a sfiatarmi. Sentite che cosa ha fatto quel cane. Si è dichiarato, e mi ha imposto per legge, che ogni aria ch’io avessi lasciata, mi avrebbe levato due zecchini del mio onorario; onde per non ridurmi a recitare per nulla, sono stato sforzato a cantare continuamente.

Lasca. Bravo impresario, benedetto impresario. Se tutti voi altri musici foste così trattati dagl’impresari, oh quanto sareste meno svogliati, e meno raffreddati! Un galantuomo va a spendere il suo danaro, credendo di godere la bella voce del signor canarino, o del signor rosignuolo, ed ei, perchè la bella non l’ha guardato, si sente male, non può cantare, corbella l’uditorio, l’udienza si scema, e l’impresario lo paga. Bella giustizia! benedetto sia un’altra volta l’impresario di Genova.

Carluccio. Questa ragion non serve con un virtuoso della mia sfera. I pari miei non si trattano in questa guisa. Canto quando ne ho voglia, e una volta ch’io canti, ha da valere per cento.

Lasca. Se farete così, signor Carluccio amatissimo, credetemi, voi sarete poche volte impiegato.

Carluccio. Io non cerco nessuno. Sostengo il mio grado; e gl’impresari han più bisogno di me, ch’io di loro.

Lasca. Per quel ch’io sento, voi siete carico di ricchezze. Avete fatto in poco tempo de’ gran progressi.

Carluccio. Sono ancora nel fiore. Non ho ammassato gran cose; ma coll’andar del tempo ne ammasserò.

Lasca. Ora, per esempio, come state a danari? [p. 207 modifica]

Carluccio. Ora.... ora.... ora non ho un quattrino, e ho lasciato il mio baule al corriere.... Ma che serve? Non mi mancheranno fortune.

Lasca. Bella davvero! Siete ancora spiantato, e cominciate di già a strapazzare l’imprese? Acquistatevi prima dei fondi e dei danari, e poi fate anche voi quel che fanno gli altri. Allora potrete dire, voglio mille zecchini, e vo’ cantar quando voglio.

Carluccio. Favorisca, signor Conte, avrebbe ella l’occasione di procurarmi una recita?

Lasca. Volete andare a Mantova?

Carluccio. A Mantova? perchè no? Ma per primo soprano.

Lasca. E per secondo?

Carluccio. Oh, questo poi no.

Lasca. Il primo è già provveduto, e so che è uno di prima sfera.

Carluccio. Io non cedo a nessuno.

Lasca. Mi fate ridere, e attesa la vostra albagia, dovrei lasciarvi lì, e non impacciarmi con voi; ma mi fate compassione, e voglio farvi del bene, benchè non lo meritiate. Considerate che il tempo è avanzato, e che se non accettate questa recita, può essere che per quest’anno restiate senza.

Carluccio. Quanto danno d’onorario?

Lasca. So che l’anno passato hanno dato al secondo soprano cento zecchini; ma quest’anno....

Carluccio. E bene, che me ne diano trecento, e accetterò la recita, e la prenderò per una villeggiatura.

Lasca. Quest’anno, voleva dirvi, hanno delle spese moltissime, e non possono passare i cinquanta.

Carluccio. Che vadano per questo prezzo a contrattar de’ somari. I pari miei non cantano per cinquanta zecchini.

Lasca. Bravissimo. E se restate senza far niente?

Carluccio. Mi spiacerebbe per cagione dell’esercizio.

Lasca. Li volete i cinquanta?

Carluccio. Tutto quello che posso fare, è contentarmi di duecento.

Lasca. Non vi è rimedio, l’assegnamento è fissato. [p. 208 modifica]

Carluccio. Orsù, per questa volta voglio cantar per niente: che me ne diano cento.

Lasca. È inutile il parlarne.

Carluccio. Ma! che me ne diano ottanta.

Lasca. Volete che ve la dica? Mi avete un poco seccato.

Carluccio. Signor Conte, le preme veramente quest’impresario?

Lasca. Sì, è mio amico, vorrei servirlo, ma lo faccio più per voi...

Carluccio. Non occorr’altro. Quando si tratta di far piacere al signor Conte, accetterò i cinquanta zecchini, ma voglio per onore una scrittura simulata di cinquecento, e la mallevadoria di un banchiere.

Lasca. Bene, la scrittura, per contentare la vostra albagia, si farà come volete; e per la paga rispondo io.

Carluccio. Non si potrebbe avere qualche danaro a conto?

Lasca. Scriverò all’impresario.

Carluccio. Non potrebbe ella favorirmi?

Lasca. Non son io quel che paga.

Carluccio. Mi presti almeno sei zecchini....

Lasca. Deggio andar in un luogo.... ne parleremo.

Carluccio. Se mi fa questa grazia....

Lasca. Sì, sì, ci rivedremo. (parte)

SCENA IV.

Carluccio solo.

Che caro signor Conte! Ricusa di darmi sei zecchini in prestito? Teme ch’io non glieli renda, come se sei zecchini fossero una gran somma. Quando io ne ho, li spendo in una merenda. È vero che ho de’ debiti, ma li pagherò, o non li pagherò; anch’io, come dice il proverbio, col tempo e colla paglia maturerò. Se vado in Portogallo, se vado in Russia, porterò via de’ tesori, e tornerò ricchissimo, e farò fabbricar de’ palazzi, e non saranno castelli in aria, ma palazzi in terra, grandi e magnifici, con possessioni stupende, qualche contea, qualche marchesato, ricchezze immense, e che venga allora il signor conte Lasca a offerirmi una recita di cinquanta zecchini. [p. 209 modifica]

SCENA V.

Beltrame e detto.

Beltrame. (Non so se la signora Lucrezia sia ancora in istato....)

Carluccio. Oh signor oste....

Beltrame. Locandiere, per servirla.

Carluccio. Mandate alla posta di Bologna a prendere il mio baule.

Beltrame. Sarà servita; ma lo daranno liberamente?

Carluccio. Lo daranno. Fate dare al corriere due zecchini, ch’io gli devo per il viaggio.

Beltrame. Ella favorisca....

Carluccio. E fate dare otto lire di mancia agli uomini della barca corriera.

Beltrame. Favorisca, diceva....

Carluccio. Fate presto, signor oste.

Beltrame. Locandiere, per servirla. Diceva, che mi favorisca il danaro,

Carluccio. Fate voi. Vi pagherò tutto insieme.

Beltrame. Ma io, mi perdoni....

Carluccio. Mi conoscete voi, signor oste?

Beltrame. Non sono oste, ma locandiere, e non ho l’onor di conoscerla. (Lo conosco pur troppo.) (da sè)

Carluccio. Oste, o locandiere che siate, voi siete uno sciocco, se non conoscete gli uomini della mia sfera.

Beltrame. Credo benissimo, ch’ella sia un virtuoso di merito, di stima, e ricchissimo, ma io non ho danari da prestare a nessuno.

Carluccio. Sciocco! io non vi domando danari in prestito.

Beltrame. Mi dia dunque le cinquantasei lire....

Carluccio. Non mi seccate. Mandate a prendere il mio baule.

Beltrame. Non manderò a prender niente.

Carluccio. Meritereste, ch’io andassi via dalla vostra osteria.

Beltrame. La mia locanda non ha bisogno di nessuno.

Carluccio. Corpo di bacco! mandate a prendere il mio baule.

Beltrame. Mi maraviglio di lei.... [p. 210 modifica]

Carluccio. Mi maraviglio di te.

Beltrame. Cosa è questo te....

Carluccio. Te e tu, ti tratto come tu meriti.

Beltrame. Parli bene.

SCENA VI.

Lucrezia e detti.

Lucrezia. Che cosa è questo strepito? Che cosa avete, signor Carluccio?

Carluccio. Oh, la mia cara Lucrezia! la mia dea, la mia regina, come state? Come avete riposato la notte?

Lucrezia. Poco bene. La mia camera è sopra il canale, e l’odor di canale mi offende.

Carluccio. Signor oste, bisogna cambiar la camera a madama Lucrezia.

Beltrame. Io non ho altre camere a darle, e chi non è contento, è padrone d’andarsene; ed ella specialmente, signore, che prende la mia locanda per un’osteria...1

Carluccio. Via, via, siate buono. Mi preme che questa virtuosa sia contenta. Se vuole, le cederò la mia camera, ed io passerò nella sua. Vedrete, signora, che sarete contenta. Fate subito trasportar le robe. Animo, signor oste.... ah no, signor locandiere. Chiamate gente, fate portar le robe della signora nella mia camera, e le mie mandate a prendere il mio baule.

Beltrame. Io le dico liberamente....

Carluccio. Mia bella, se vi contentate, faremo ordinario insieme.

Lucrezia. Son contentissima. Star sola non mi piace, e la vostra compagnia mi diverte.

Carluccio. Amico, trattateci bene. Buon pranzo, buona cena: del buono e del meglio che dà il paese, sopra tutto buon vino e buoni liquori. Noi siamo avvezzi a vivere con magnificenza. Trattateci, e non temete niente. (Pagherò io.) (piano a Beltrame) [p. 211 modifica]

Beltrame. Ma io, signore....

Carluccio. Voglio che stiamo allegri quel poco tempo che restiamo qui, aspettando l’occasione di una buona recita. (a Lucrezia)

Lucrezia. Ma io, per dirvi la verità, non sono ora in caso di far grandi spese.

Carluccio. Non ci pensate. Lasciate fare a me. Voi siete la mia principessa. Amico, mi avete capito. (a Beltrame)

Beltrame. Parliamo chiaro, signore....

Carluccio. Fatevi onore. Fate onore alla vostra locanda. Locanda celebre, famosa, rinomata. Voi siete il primo locandiere d’Europa, e noi siamo due virtuosi, che vi possono far del bene.

Beltrame. Tutto questo, mi scusi, non mi fa niente. Io sono un galantuomo, che faccio col mio, e non voglio....

Carluccio. Animo, animo; meno ciarle, e più rispetto. Mia cara Lucrezia, volete che andiamo a divertirci?

Lucrezia. Come vi piace.

Carluccio. Volete gondola? Presto, mandate a prendere una gondola a due remi. (a Beltrame)

Beltrame. Mandi ella, signore.

Carluccio. Che impertinenza è questa? Voglio esser servito. Pago, e pago bene, e voglio essere servito.

Beltrame. Se paga.... (oh, ecco il Conte.) (osservando fra le scene)

Carluccio. E non mi fate andar in collera, perchè quando mi monta....

Beltrame. Signora, un cavaliere desidera riverirla.

Lucrezia. E chi è quel cavaliere?

Beltrame. Il conte Lasca, amico e gran protettore de’ virtuosi.

Carluccio. (Il conte Lasca!) Madama, all’onore di riverirvi. (parte)

SCENA VII.

Lucrezia e Beltrame.

Lucrezia. Addio, signor Carluccio. Com’è partito tutto in un tratto. (a Beltrame)

Beltrame. (So io perchè è partito. Il Conte, a quel che mi ha detto, gli fa paura.) Lo vuol ricevere il signor Conte? [p. 212 modifica]

Lucrezia. Mi farà grazia.

Beltrame. Vuol passare nella sua camera?

Lucrezia. Il letto non è rifatto. Lo riceverò qui.

Beltrame. Come comanda. La sala è propria. Vado a dirgli che entri.

Lucrezia. Eh, dite. È ricco?

Beltrame. È persona comoda.

Lucrezia. È generoso?

Beltrame. In questo poi non so che dirle. Lascio a lei la cura di sperimentarlo. (parte)

SCENA VIII.

Lucrezia, poi il Conte Lasca.

Lucrezia. In un paese nuovo avrei bisogno di poter far capitale di qualcheduno. Per conto di Carluccio so chi è, vi è poco da sperare. Molto fumo, e pochissimo arrosto.

Lasca. Servitor umilissimo della signora.

Lucrezia. Serva sua riverente.

Lasca. Scusi se mi ho preso l’ardire....

Lucrezia. Anzi mi ha fatto grazia il signor cavaliere.... si accomodi. (siedono)

Lasca. Ella è fiorentina, a quel che mi dicono.

Lucrezia. Per servirla!

Lasca. E il suo nome2 è Lucrezia.

Lucrezia. Sì, signore, Crezzina per obbedirla.

Lasca. È molto tempo, ch’ella fa questa professione?

Lucrezia. Scusi, non può essere molto tempo. A poco presso, ella può vedere dalla mia età.... Non ho cantato che a Pisa. Volevano subito fermarmi per Livorno, ma io ho voluto escire dal mio paese, e desidero di farmi sentire in Venezia.

Lasca. Se volete una buona recita, spero non mi tarderà l’occasione di potervela procurare o in Venezia, o in Lombardia, [p. 213 modifica] o in qualch’altra parte, dove possiate farvi onore. Conosco tutti gl’impresari più rinomati d’Italia, tutti questi mezzani di virtuosi e di virtuose; e mi adopro con tutto lo spirito per favorire chi merita.

Lucrezia. Spero ch’ella non sarà malcontenta della mia abilità, e che gli amici suoi forse forse la ringrazieranno.

Lasca. Ne son sicurissimo. Siete voi soprana, o contr’alta?

Lucrezia. Oh, signore, che cosa dice? Mi vergognerei di cantare il contr’altro. Sono soprana, sopranissima, e delle mie voci se ne trovan poche.

Lasca. Me ne consolo infinitamente. A Pisa avete recitato da prima, o da seconda donna?

Lucrezia. Le dirò. Era la prima volta ch’io escia dalla buccia, e quel babbeo d’impresario mi diede una picciola parte; ma quando mi sentirono, m’ebbero in tanta e tale stima, ch’io cacciai la prima sotto le tavole. Quando gli altri cantavano, si sentiva un baccano, ma quando cantava io, tutti faceano silenzio, e poi battean le mani da disperati. Se la ricordano ancora quell’aria maravigliosa:

                    " Spiegando i suoi lamenti
                    " Sen va la tortorella.

Lasca. Vorrebbe ella aver la bontà di farmi sentir questa bell’arietta?

Lucrezia. La3 servirei volentieri; ma il cembalo che ha fatto portare il locandiere nella mia camera, è scordatissimo.

Lasca. Che cosa importa? La sentirò senza il cembalo.

Lucrezia. Scusi, signore: io non canto senza instrumento. Non credo ch’ella mi prenda per una cantarina da dozzina.

Lasca. Scusatemi, non andate in collera. Cantate, o non cantate, son vostro buon servitore; ma deggio dirvi, per vostra regola, ch’io fo stima delle virtuose che sono compiacenti, e che non si fanno pregare.

Lucrezia. Oh, io non sono di quelle. Anzi mi picco di essere compiacentissima. [p. 214 modifica] Lasca. Via dunque, se così è, fatemi il piacer di cantar qualche cosarella, niente per altro che per sentir la vostra voce.

Lucrezia. Scusi, non posso, sono fresca dal viaggio, e son moltissimo raffreddata.

Lasca. Bravissima. Anche questa me l’aspettava. Il raffreddore è la solita scusa.

Lucrezia. No, davvero. S’ella mi farà l’onore di venire da me, vedrà ch’io sono sincera e compiacente, e il mio debole è qualche volta di esserlo anche troppo: quando una persona ha della bontà per me, mi creda, signore, so essere riconoscente, (con qualche affettazione di tenerezza)

Lasca. (Ho capito. È giovane, ma sa il mestiere). ed io vi assicuro, signora, che di me potrete fare tutto quel che vorrete. Son buon amico, e quando m’impegno, non manco.

Lucrezia. Favorisca. Avrebbe ella per le mani un buon parrucchiere per assettarmi il capo?

Lasca. Oh, di questi non ne conosco nessuno. Io mi faccio assettar dal mio cameriere.

Lucrezia. E non mi potrebbe favorir del suo cameriere?

Lasca. Non è buono per assettare le donne.

Lucrezia. Signore, e un calzolaio....

Lasca. Oh, per il calzolaio potrete dirlo al locandiere, che so che ne ha uno, che serve la sua locanda, ed è buonissimo, ma non so dove stia, nè come si chiami.

Lucrezia. (A quel che vedo, ci ho dato dentro.)

Lasca. (Con me non c’è niente da fare.)

SCENA IX.

Nibio e detti.

Nibio. Riverente m’inchino alla signora Lucrezia. Servo del signor Conte.

Lucrezia. Quest’uomo chi è? Come mi conosce? (al Conte)

Lasca. Questi è il signor Nibio, galantuomo provato e sperimentato, gran conoscitor di teatri, sensale famoso di virtuosi e di virtuose. [p. 215 modifica]

Nibio. Tutta bontà del signor Conte.

Lasca. Amico, se voi avete qualche occasione d’impiegare una virtuosa, vi assicuro che questa signora ha un merito infinito. Ha una voce portentosa, chiara e netta come un campanello d’argento. Sa la musica perfettamente; e quello ch’è più da stimarsi, non è mai raffreddata.

Nibio. Questo è un buon capitale.

Lucrezia. (il signor Conte, a quel ch’io vedo, mi corbella un poco).

Nibio. Se il signor Conte l’ha sentita, io son sicuro della sua abilità, e non cerco altro.

Lasca. È un portento, ve l’assicuro. E un’altra qualità ammirabile: non è di quelle che cerchino a incomodar gli amici. Le ho offerto il parrucchiere ed il calzolaio, ed ella per delicatezza li ha ricusati.

Lucrezia. (Ti venga la rovella, è un chiacchierone di primo rango).

Lasca. Che sì, che il signor Nibio, sapendo ch’io ho della stima per questa virtuosa, è venuto ad offrirle qualche buona occasione?

Nibio. Potrebbe anche darsi.

Lucrezia. Signore, badate a me, che sono una che, quando parlo, parlo di cuore; se farete qualche cosa per me, non sarò sconoscente. (a Nibio)

Lasca. Oh sì, vi assicuro, è generosa qualche volta, a quel che ella dice, anche troppo.

Lucrezia. Ma non con tutti, signore, non con tutti. (al Conte)

Lasca. Ho capito; ed io son lo stesso con tutte. Su via, signor Nibio, diteci quel che avete da dirci.

Nibio. Per verità, ieri mi è capitato un incontro estraordinario, stupendo, e che può dirsi una vera fortuna. Ma non voglio che nessuno lo penetri. Lo confiderò solamente a lei, ed a questa signora. Ma silenzio, per amor del cielo, silenzio.

Lasca. Oh, io non parlo.

Lucrezia. Son donna, son giovane, ma per la segretezza posso promettervi e assicurarvi.

Lasca. Se ve lo dico, è una donna d’incanto. [p. 216 modifica]

Nibio. Sappiate dunque, che un Turco, negoziante famosissimo delle Smirne, è venuto in Venezia con una sua nave, per ispacciare le sue mercanzie. Alcuni amici suoi, non so se per ozio, o per qualche interesse, gli hanno fitto nel capo, che sarebbe un buonissimo affare, se conducesse alle Smirne una compagnia di virtuosi e di virtuose, per fare un’opera in musica in quel paese. Gli hanno fatto osservare, che in quel porto vasto e mercantile vi è una quantità prodigiosa di Francesi, d’Inglesi, d’Italiani e Spagnuoli, che là non vi è alcun pubblico divertimento, e che questa novità farebbe del merito ad un uomo di spirito come lui, e potrebbe far la fortuna di qualche suo dipendente, se egli non si degnasse di appropriarsi l’utile immenso, che produrrebbe una tale impresa. Il Turco, che è galantuomo, che non è avaro, e che è un po’ capriccioso, aderì al consiglio, e si è messo nell’intrapresa; ma egli non ha alcuna conoscenza di questi affari. Gli amici suoi hanno promesso di assisterlo, ed io ho avuto l’incombenza di provvedere i musici e le virtuose. Credo certamente, che i primi che anderanno in quei paesi, porteranno via de’ bauli pieni di zecchini, ed io, per il rispetto che ho per il signor Conte, vengo a far la prima proposizione a questa signora, per la quale ei professa della parzialità e della stima.

Lucrezia. (Ah, questo sarebbe per me il miglior negozio del mondo).

Lasca. Caro signor Nibio, vi ringrazio infinitamente. Vedete, signora, se vale qualche cosa la mia amicizia?

Lucrezia. Avrò a voi tutta l’obbligazione. (Oh sì, di parole mi par generoso).

Lasca. Sollecitate, signor Nibio; il tempo è pericoloso. Se avete l’autorità di far la scrittura, accordiamo il prezzo, e fatela immediatamente.

Nibio. È vero che l’impresario, in grazia degli amici suoi, si fida di me; ma voglio ch’egli la senta, prima ch’io la fermi, acciò non dica un giorno, ch’io l’ho gabbato. Non ha conoscenza di musica, ma voglio che sia contento. [p. 217 modifica]

Lasca. Bravo; così mi piace. Conducetelo qui. La signora Lucrezia canterà senza alcuna difficoltà, e stupirà il Turco sentendo quella bellissima aria:

               " Spiegando i suoi lamenti
               " Sen va la tortorella.

Lucrezia. (Or ora mi fa venire il moscherino davvero, davvero).

Nibio. Vado a veder se lo trovo, e subito qui lo conduco.

Lucrezia. Se verrà, sarà ben ricevuto; ma mi dispiace che il cembalo è scordato. Signor Conte, favorisca almeno mandarmi un cembalaro ad accordare il mio cembalo.

Lasca. Sì, sì, lo manderà il signor Nibio. Queste cose appartengono a lui. Egli è pratico; egli conosce.... Mandate un cembalaro a madama. (a Nibio)

Lucrezia. (Spilorcio cacastecchi!)

Nibio. Lo manderò immediatamente. Vado a cercare del Turco, e vado subito, perchè la cosa è gelosa, e questo dovrebbe essere un buon negozio anche per me; spero imbarcarmi anch’io per direttore dell’opera, e fra l’onorario e gli incerti, se le cose van bene, spero ritornar ricco in Italia, e di poter far l’impresario. Chi ha preso il gusto del teatro una volta, non sa staccarsene finchè vive, ed io, se alfln dei conti resterò senza niente, pazienza, non potrò finire che come avrò principiato. (parte)

SCENA X.

Il Conte Lasca e Lucrezia.

Lasca. Mi consolo, signora, d’avervi procacciata una buona occasione.

Lucrezia. Gli sono obbligatissima, ma il favore, per dir la verità, non gli è costato una gran fatica.

Lasca. Ecco, voi cominciate di già ad essere riconoscente alla vostra foggia. Vi pare che io abbia fatto poco, ad essere stato cagione che una persona, che mi conosce, vi preferisca. Ma di ciò non me ne ho punto a male. Conosco perfettamente [p. 218 modifica] il vostro sesso ed il vostro mestiere. Scusatemi se vi parlo con libertà; io son uomo sincero. Non desidero niente da voi, nè dalla vostra liberalissima compiacenza. Faccio del bene generalmente. Me ne compiaccio, mi diverto nel medesimo tempo. Stimo chi merita, sono amico di tutti, e particolarmente della brava, eccellente e compiacente signora Lucrezia. (salutandola con un risetto parte)

SCENA XI.

Lucrezia sola.

Oh, che ti venga il fistolo. Che protettore sguaiato! Per quanto si tenti, sta forte allo scongiuro; se vado alle Smirne, troverò là di quelli che si fanno un merito ad essere liberali. È vero che nella musica non sono ancora valente, ma in altro genere non la cedo a nessuno; so obbligare con grazia, so unire l’onestà alla compiacenza, e so pelare la quaglia senza farla gridare. (parte)

Fine dell’Atto Primo.


Note

  1. Nell’ed. Zatta c’è punto fermo.
  2. Ed. Zatta: Il suo nome ecc.
  3. Ed. Pasquali: Vi.