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206 ATTO PRIMO

Carluccio. Mai più a Genova, nemmeno se mi ci tirano colle catene.

Lasca. Perchè?

Carluccio. Quell’impresario ha trattato meco sì male, che se più ci torno, mi contento di essere bastonato. Io solo ho sostenuto l’impresa. Tutti erano incantati della mia voce, e l’impresario avaraccio ed ingrato volea obbligarmi a cantare tutte le sere. Io che era innamorato morto della prima donna, quand’era disgustato di lei non potea cantare, ed egli che lo sapeva, in luogo di compatirmi, mi volea per dispetto obbligar a sfiatarmi. Sentite che cosa ha fatto quel cane. Si è dichiarato, e mi ha imposto per legge, che ogni aria ch’io avessi lasciata, mi avrebbe levato due zecchini del mio onorario; onde per non ridurmi a recitare per nulla, sono stato sforzato a cantare continuamente.

Lasca. Bravo impresario, benedetto impresario. Se tutti voi altri musici foste così trattati dagl’impresari, oh quanto sareste meno svogliati, e meno raffreddati! Un galantuomo va a spendere il suo danaro, credendo di godere la bella voce del signor canarino, o del signor rosignuolo, ed ei, perchè la bella non l’ha guardato, si sente male, non può cantare, corbella l’uditorio, l’udienza si scema, e l’impresario lo paga. Bella giustizia! benedetto sia un’altra volta l’impresario di Genova.

Carluccio. Questa ragion non serve con un virtuoso della mia sfera. I pari miei non si trattano in questa guisa. Canto quando ne ho voglia, e una volta ch’io canti, ha da valere per cento.

Lasca. Se farete così, signor Carluccio amatissimo, credetemi, voi sarete poche volte impiegato.

Carluccio. Io non cerco nessuno. Sostengo il mio grado; e gl’impresari han più bisogno di me, ch’io di loro.

Lasca. Per quel ch’io sento, voi siete carico di ricchezze. Avete fatto in poco tempo de’ gran progressi.

Carluccio. Sono ancora nel fiore. Non ho ammassato gran cose; ma coll’andar del tempo ne ammasserò.

Lasca. Ora, per esempio, come state a danari?