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L'IMPRESARIO DELLE SMIRNE | 213 |
o in qualch’altra parte, dove possiate farvi onore. Conosco tutti gl’impresari più rinomati d’Italia, tutti questi mezzani di virtuosi e di virtuose; e mi adopro con tutto lo spirito per favorire chi merita.
Lucrezia. Spero ch’ella non sarà malcontenta della mia abilità, e che gli amici suoi forse forse la ringrazieranno.
Lasca. Ne son sicurissimo. Siete voi soprana, o contr’alta?
Lucrezia. Oh, signore, che cosa dice? Mi vergognerei di cantare il contr’altro. Sono soprana, sopranissima, e delle mie voci se ne trovan poche.
Lasca. Me ne consolo infinitamente. A Pisa avete recitato da prima, o da seconda donna?
Lucrezia. Le dirò. Era la prima volta ch’io escia dalla buccia, e quel babbeo d’impresario mi diede una picciola parte; ma quando mi sentirono, m’ebbero in tanta e tale stima, ch’io cacciai la prima sotto le tavole. Quando gli altri cantavano, si sentiva un baccano, ma quando cantava io, tutti faceano silenzio, e poi battean le mani da disperati. Se la ricordano ancora quell’aria maravigliosa:
" Spiegando i suoi lamenti
" Sen va la tortorella.
Lasca. Vorrebbe ella aver la bontà di farmi sentir questa bell’arietta?
Lucrezia. La1 servirei volentieri; ma il cembalo che ha fatto portare il locandiere nella mia camera, è scordatissimo.
Lasca. Che cosa importa? La sentirò senza il cembalo.
Lucrezia. Scusi, signore: io non canto senza instrumento. Non credo ch’ella mi prenda per una cantarina da dozzina.
Lasca. Scusatemi, non andate in collera. Cantate, o non cantate, son vostro buon servitore; ma deggio dirvi, per vostra regola, ch’io fo stima delle virtuose che sono compiacenti, e che non si fanno pregare.
Lucrezia. Oh, io non sono di quelle. Anzi mi picco di essere compiacentissima.
- ↑ Ed. Pasquali: Vi.