L'amante di sè medesimo/Atto I

Atto I

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Personaggi Atto II
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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Camera in casa di don Mauro.

Il Conte dell’Isola ed il signor Alberto.

Conte. Un’ora star con voi solo, amico, mi preme.

Berrem, se non vi spiace, la cioccolata insieme.
Alberto. Sior sì, la cioccolata, per bona che la sia,
Par che la riessa meggio bevuda in compagnia.
Che vuol dir, a proposito, sior Conte mio patron?
No la la beve al solito ancuo in conversazion?
Conte. Mi sento stamattina lo stomaco indigesto.
Gli altri la bevon tardi; noi la berrem più presto.
Alberto. Giersera qualcossetta m’ha parso de sentir.
Xelo un de quei che stenta le cosse a digerir?
Conte. So che volete dirmi. ler sera veramente

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Mi ha fatto donna Bianca scaldar terribilmente:

La bile mi è passata per altro in sul momento;
Non altero per donne il mio temperamento.
Amo con tenerezza, e con calor m’impegno,
Stimo le donne tutte, ma fino a un certo segno.
Vo’ che l’amor mi comodi, non che dolor mi dia;
Per femmina, vel giuro, non piansi in vita mia.
Mi piace, mi diletta la grazia e la beltà,
Ma stimo più di tutto la mia felicità.
Alberto. Senza doggia del cuor sarave un bell’amar,
Ma co l’è de quel bon, cussì no se pol far.
Conte. Di quel buono chiamate l’amor che vi tien privo
Di pace, di conforto? Pare a me del cattivo.
Non mancano pur troppo al mondo i nostri guai;
Accrescerli per gioco, affè non imparai.
Alberto. Donca per riparar da ste desgrazie el cuor,
Bisogna star in guardia lontani dall’amor.
Conte. Ma dall’amar lontani star sempre è cosa dura.
Amore è la più bella passion della natura.
Alberto. Ma come s’ha da far, caro sior Conte mio?
Conte. S’ha da amar, caro amico, ma far come fo io.
Amare onestamente finchè si va d’accordo;
Quando si cambia il vento, far presto a voltar bordo.
Io, quando ho un’amicizia, la venero, la stimo;
Procuro di non essere a disgustarla il primo.
Ma un menomo motivo che diami di disgusto,
Col darle il suo congedo prestissimo m’aggiusto.
Alberto. Gnente per la morosa? Gnente soffrir?
Conte.   Oibò.
Alberto. Gh’avè un bel cuor, compare.
Conte.   Nè mai mi cambierò.
Alberto. Ma se per così poco, sior Conte, ve muè,
Disè, come sarala, se ve mariderè?
Conte. Finora ho sempre amato per genio e bizzarria;
L’amor del matrimonio non so che cosa sia.

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Penso che in ogni caso, scemandosi l’affetto,

Restar può per la moglie la stima ed il rispetto.
Alberto. Co sti princìpi in testa, sior Conte mio paron,
Xe meggio che stè solo, che parerè più bon.
Conte. Basta: mutiam discorso; il caso è ancor distante.
Spiacemi, amico caro, che or son senza un’amante.
E non ci posso stare; mi viene mal di cuore,
Se sto mezza giornata senza far all’amore.
Alberto. Cossa xe sta giersera con donna Bianca?
Conte.   Appunto
Di quel che volea dirvi siete arrivato al punto.
Donna Bianca è una giovane propria, civile, onesta;
Ma parmi fastidiosa e debole di testa.
Scherzai colla Marchesa un po’ più dell’usato;
Ella in tutta la sera non mi ha nemmen guardato.
Le dico qualche cosa, le parlo civilmente.
Giustificarmi io voglio, mi fa l’indifferente.
Siedo appresso di lei; s’alza, mi lascia solo:
La seguito, mi fugge, mostra negli occhi il duolo.
Mi sforzo contro il solito di sospirar; la credo
Tocca dai miei sospiri, e ridere la vedo.
Allor sdegno mi prende; ragion chiamo in aiuto;
Se vo per questa strada, dico a me, son perduto;
Risolvo sul momento lasciarla in abbandono.
Ho dormito benissimo, e libero già sono.
Alberto. Troppo rigor, sior Conte. Se sa pur che xe fia
Del più sincero amor l’amara gelosia.
Conte. Se della gelosia padre indiscreto è amore,
In grazia della figlia ho in odio il genitore:
Se vuol ch’io lo ricovri ancor entro al mio petto.
Sia padre della gioia, sia padre del diletto;
Ma unito alla spiacente sua incomoda famiglia,
Lo mando dal mio seno lontano mille miglia.
Alberto. Voleu che ve la diga? Vedo, cognosso adesso,
Che vu, caro sior Conte, sè amante de vu stesso.

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Ve parlo da fradelo.

Conte.   Io da fratel rispondo:
Evvi dell’amor proprio più bell’amor al mondo?
Alberto. Donca tutto l’amor provien dall’interesse.
Conte. Vi è dubbio? Senza speme chi è quel che amor volesse?
Alberto. Che ne conosso tanti innamorai gramazzi,
Senza mai sperar gnente.
Conte.   Questo è l’amor dei pazzi.
Alberto. E l’amor d’amicizia saralo interessà?
Conte. Senza qualche interesse questo amor non si dà.
Alberto. Me par che andemo avanti. Quando la xe cussì,
Col ben che me volè, cossa spereu da mi?
Conte. Oh, spero molto, amico.
Alberto.   Dasseno?
Conte.   In un periglio
Vale la vita istessa d’un amico il consiglio.
E appunto stamattina desio di consigliarmi
Sopra un certo proposito: con voi vo’ confidarmi.
Alberto. Son qua pronto a servirve in quel che mai podesse.
Ma da bon Venezian, de cuor, senza interesse.
Conte. Lo so che i Veneziani son gente di buon cuore;
Ma so che non son stolidi in materia d’amore.
Alberto. Certo, che no i xe gnocchi, co i tratta una morosa.
Ma da un amigo...
Conte.   Sempre si spera qualche cosa.
Bramo un consiglio solo, ed eccovi il perchè
La cioccolata a bevere vi supplicai con me.
Alberto. Xe un’ora che parlemo, e no la vien avanti?
Conte. Intanto che si aspetta, ragioneremo innanti.
Sappiate, amico caro, come già vi accennai,
Che colle passioncelle mi divertisco assai.
Mi piace, mi diverte questa villeggiatura.
Ma senza un amoretto per me è una seccatura.
Sono però dubbioso fra tre diversi oggetti,
A qual debba di loro rivolgere gli affetti:

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Vi è la marchesa Ippolita, ma parmi un poco altera;

Vi è donna Bianca, e seco mi disgustai iersera;
Vi è madama Graziosa, moglie del commissario.
Alberto. Pian, tra questa e quell’altre ghe passa un bel divario.
Le prime xe do dame, questa xe una pedina,
Che in grazia della carica vol far la signorina.
Conte. Codeste differenze non sono essenziali:
Le donne, se son belle, per me son tutte eguali.
Non voglio maritarmi, le tratto onestamente,
Ed oltre l’amicizia da lor non vo’ niente.
Se trovo dello spirito, dell’attenzion per me,
Sono, sia chi si voglia, contento come un re.
Ora ch’io son per scegliere, qual mi consigliereste,
Se foste nel mio caso, a scegliere di queste?
Alberto. Mi ve conseggierave a preferir la dama.
Conte. Ma quale delle due?
Alberto.   Quella che più ve ama.
Conte. Bravissimo. M’avete parlato in eccellenza:
Ad una delle due darò la preferenza.
A madama Graziosa fei fare un’imbasciata;
Ma so che non mi vuole: è con altri è impegnata.
Ed io, se trovo ostacoli, prestissimo mi stancano;
Di già delle occasioni al mondo non ne mancano.
Ecco la cioccolata.

SCENA II.

Frugnolo lacchè, colla cioccolata, e detti.

Alberto.   Via, sior lacchè, xe ora.

Frugnolo. Signor Alberto, appunto lo cerca la signora.
Alberto. Chi? donna Bianca?
Frugnolo.   Certo.
Conte.   Che sì, ch’ella parlarvi
Desidera di me. Sappiate regolarvi.
Alberto. Che ordeni me deu, se la me intra in questo?

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Conte. Dirò: s’ella si cangia, son cavaliere onesto;

Non voglio d’una dama sprezzare il pentimento.
Alberto. Tornereu?
Conte.   Perchè no?
Alberto.   Ma per divertimento.
Conte. Non so; potrebbe darsi; sentiam quel che dirà.
Alberto. (Che el fazza pur el franco. Oh, se el ghe cascherà!)
Conte. Che hai, caro Frugnolo, che sei oltre l’usato
Stamane melanconico?
Frugnolo.   Signor, son disperato.
Ieri sera nel correre ho rotto i miei scarpini;
E non ho, poveraccio, nè scarpe, nè quattrini.
Alberto. Oh che baron!
Conte.   Don Mauro non ti dà il tuo salario?
Frugnolo. Me lo dà, ma si contano i giorni sul lunario.
Conte. Che vuol dir? non capisco.
Frugnolo.   Vuol dir, ch’egli è cortese.
Ma non mi dà un quattrino, se non finisce il mese.
Alberto. Sentìu che raccoletta?
Conte.   Ma la villeggiatura
Non frutta degl’incerti?
Frugnolo. Eh sì, qualche freddura.
Conte. Per esempio, quei paoli ch’io ti donai sovente,
Sono pel tuo gran merito una cosa da niente.
Frugnolo. Vossignoria illustrissima m’ha sempre fatto grazia.
Alberto. E i mi mezzi ducati, coss’èi, sior malagrazia?
Frugnolo. I ducati che spesso mi diè vossignoria,
Il leon colle ali me li ha portati via.
Alberto. Eh galiotto!
Frugnolo.   Davvero ci penso e mi confondo.
Son sempre senza un soldo, e non ho un vizio al mondo.
Alberto. Ma vardè che desgrazia!
Conte.   Vien qui; narraci un poco.
Come impieghi le ore?
Frugnolo.   Eh, mi diverto al gioco.

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Conte. Bravo! non sai, meschino, dove il denar sen va?

Alberto. Se nol gh’ha un vizio al mondo, povero desgrazià!
Frugnolo. Questo non è gran cosa. Non troverà un lacchè,
Che sia, gliel’assicuro, men discolo di me.
Non son di quei che vadano sì spesso all’osteria.
Conte. Ma ci vai qualche volta.
Frugnolo.   Così per compagnia.
Alberto. E nol gh’ha un vizio al mondo. Tiolè, sior virtuoso.
(rimette la chicchera sul tondino)
Frugnolo. E non mi dona niente? So pur ch’è generoso.
Alberto. Sì caro, un’altra volta. Vado a sentir la dama. (al Conte)
Conte. Poi venitemi tosto a dir quel ch’ella brama.
Alberto. Se de vu la me parla?
Conte.   Sappiate regolarvi.
Alberto. Possio prometter gnente?
Conte.   Sì, ma senza impegnarvi.
Alberto. Amigo benedetto, tolè sto mio conseggio:
Se ve volè taccar, tacchève al vostro meggio.
Le donne maridae le s’ha da lassar star;
Co le vedue no digo, ma ghe xe da pensar.
Per mi se anca la fusse un tantinin più brutta,
Piuttosto che una vedua, me piaseria una putta.
Ma voleu far l’amor? Felo come se deve.
O sia vedua, o sia putta, sposela, e destrigheve. (parte)

SCENA 111.

Conte e Frugnolo.

Conte. (Gran cosa! tutto il mondo vorrebbe maritarmi.

Ci penserò ben bene innanzi di legarmi). (da sè)
Frugnolo. (Non la finisce mai di ber la cioccolata?)
Conte. (Perchè non può trattarsi la donna maritata?
Servirla onestamente? Oh, madama non è
Nata una gentildonna; che cosa importa a me?)
Tieni. (rimette la chicchera sul tondino)

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Frugnolo. Con sua licenza. (vuol partire)

Conte.   Vien qui, non aver fretta.
Voglio discorrer teco.
Frugnolo.   Il padrone mi aspetta.
Conte. Via, tieni un testoncello, e non andar sì presto.
Frugnolo. Ecco, metto giù il tondo, e fin che vuole, io resto.
Conte. Dimmi: È ver che don Mauro ha della inclinazione
Per la marchesa Ippolita?
Frugnolo.   Lo fa per compassione.
La poverina è vedova, ed ha, se non m’inganno,
Di rendita sicura seimila scudi all’anno.
È imbrogliata, meschina, con tante facoltà;
E farle il mio padrone vorria la carità.
Ma per quel ch’io capisco dagli andamenti sui,
La signora Marchesa fatta non è per lui.
Il lor temperamento non si assomiglia un pelo:
Ella ha il foco negli occhi, ei nelle membra il gelo.
Quando li vedo uniti, parmi vedere al paro
Con il mese d’Agosto il mese di Gennaro.
Egli cammina adagio, nel dir non ha mai fretta;
Ella cammina e parla, che par una saetta.
Sfogarsi la Marchesa, gridar può quanto vuole,
Innanzi ch’egli arrivi a dir quattro parole.
Conte. Oh, se foss’io, vorrei farle arricciar il naso.
Frugnolo. Eppure, signor Conte, sarebbe il di lei caso.
Conte. Per me? Frugnolo caro, tu sei male avvertito.
Voglio godere il mondo. Per or non mi marito.
Frugnolo. No, davvero? Perdoni il mio parlar da strambo;
Eppur s’intese dire, che si sperava un ambo
Fra lei e donna Bianca, nipote del padrone.
Conte. È ver, ma si è mandata a monte l’estrazione.
Al lotto delle donne la sorte spesso varia,
Quando che non si pigliano i numeri per aria.
Conosci tu la moglie del commissario?
Frugnolo.   Certo.

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Che giovine di garbo, che giovine di merto!

Quando così per grazia mi misero prigione,
Mi facea la mattina portar la colazione.
E quanto ben mi ha fatto, signore, e quante notti
Andar mi fece in camera a farle i papigliotti!
Mi aveano processato; ella il marito istesso
Obbligò a lacerare le carte del processo.
E posso dir, che in grazia di sua protezione,
Mi fecero innocente uscir dalla prigione.
Conte. Cosa avevi tu fatto?
Frugnolo.   Cose di gioventù.
Portavo lo stiletto, ma non lo porto più.
Conte. A madama Graziosa mandai certa proposta;
Finora attesi in vano il messo e la risposta.
A te darebbe l’animo? So che un grand’uom tu sei.
Frugnolo. Non ho difficoltà. Per me la servirei;
Però al commissariato andar non mi è permesso,
Perchè pagar mi resta le spese del processo.
È ver che i suoi diritti donommi il commissario;
Ma quel che a lui si aspetta, pretende l’attuario.
Potrei con uno scudo sperar di liberarmi,
Ma se non ho lo scudo, non posso assicurarmi.
Conte. Galant’uom, v’ho capito. Eccovi bello e nuovo
Uno scudo di peso.
Frugnolo.   Subito andar mi provo.
Conte. Portati bene, e bada condurti con destrezza.
Frugnolo. Aprir con queste chiavi m’impegno una fortezza.
(accenna uno scudo)
Se torno colle nuove d’uom valoroso e scaltro,
Mariterem lo scudo?
Conte.   Te ne prometto un altro.
Frugnolo. (Vada due scudi al sette. Va paroli sul tre.
Sette a levar sull’asso. Sedici scudi a me).
(da sè, come se giocasse)
(Va tutto alla corona. Tutto? non son sì tondo).

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Conte. Ecco, tu pensi al gioco.

Frugnolo.   Oh, non ho un vizio al mondo.
(parte)

SCENA IV.

Il Conte solo.

Viva l’uom senza vizi. Basta, chi più, chi meno,

Ne ha la sua parte in mente, ne ha la sua parte in seno.
Io posso dir per altro: non ne son senza affatto.
Ma non ne ho di quelli che fan diventar matto.
Gioco talor, ma il gioco non giunse ad impegnarmi:
Studio sovente ancora, ma senza riscaldarmi.
Gli esercizi violenti mi piacciono per poco.
L’aria variar procuro in questo o in altro loco.
Amo, finchè mi piace. Sto saldo, finchè giova.
Non pongo mai per questo la mia salute in prova.
In somma quel mi piace, ch’esser miglior mi addita
Lo studio e la ragione al ben della mia vita.
Senza pescar affanni vo’ vivere giocondo.
Quando son io perito, tutto perito è il mondo. (parte)

SCENA V.

Giardino.

Donna Bianca ed il signor Alberto.

Alberto. Con mi la se confida senza riguardo alcun.

Con tutta segretezza; qua no ghe xe nissun.
Taserò, se la vol; parlerò, se bisogna.
Ma via co sto fiffar1, che la xe una vergogna.
Bianca. Ma quando che ci penso, signor Alberto caro,
Quel che inghiottir io devo, è un boccon troppo amaro.

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Alberto. Via, se tol delle volte delle pillole amare,

Ma le fa ben al stomego, le quieta el mal de mare.
Bianca. Il Conte... (s’arresta piangendo)
Alberto.   La finissa de dir; cossa xe sta?
Bianca. È senza discrezione, è senza carità.
Alberto. Chi ama, delle volte per troppo amar zavaria:
Xe mal tutte le mosche chiappar, che va per aria.
Vualtre putte un stomego gh’avè assae delicato.
El mondo, cara fia, savè come el xe fato.
Bianca. Se avete in cuor pietade, se siete un uom bennato,
Abbiate compassione del misero mio stato.
Questa è la prima volta che amor provai nel petto;
Il Conte mi ha obbligato amarlo a mio dispetto.
Quali attenzion, qual arte non usò il traditore,
Per mettermi infelice! una catena al cuore?
Pel corso di due mesi, sei, sette volte il giorno,
O nello sterzo, o a piedi, venia nel mio contorno.
Andassi da’ congiunti, o in altro luogo usato,
Me lo vedea mai sempre dietro le spalle, o allato.
In casa s’introdusse, e colla sua maniera
Guadagnò di mio zio la confidenza intiera.
Non eravi la sera dubbio che altrove andasse,
Godea di starmi appresso, parea che mi adorasse.
Diceami tai parole, tali mi dava occhiate...
Quali donzelle accorte, ah, non sarian cascate?
Che non fe’, che non disse cogli artifizi suoi
Per essere condotto a villeggiar con noi?
Sui primi giorni ei stava quasi le notti intere
Sotto le mie finestre, con gioia e con piacere.
Vien la marchesa Ippolita, con lei passeggia e parla;
E della vedovanza principia a consolarla.
Scherza con lei di cose che figlia non intende;
Conosce che mi spiace, conosce che mi offende,
E seguita la tresca l’ardito in faccia mia?
A simili disprezzi chi può star saldo, stia.

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Sola passeggio, e taccio; egli mi segue allora,

Col riso sulle labbra protesta che mi adora.
Eh, non è questo il modo di millantare affetto.
Si deve ad una dama più amore, e più rispetto.
Per me l’ho conosciuto, di lui più non mi fido;
E so che il di lui cuore della menzogna è il nido.
Mi costerà la vita, lo so per mia sventura.
Ma voglio dal mio cuore staccarmelo a drittura. (piange)
Piangerò qualche giorno pur troppo per suo vanto,
Ma finirà, sì certo, ma finirà anche il pianto.
Alberto. (Mo cospetto del diavolo, che son fatto cussì;
Me vien, co vedo a pianzer, le lagreme anca a mi).
(si asciuga gli occhi)
Donna Bianca carissima, ve parlerò sincero;
E po vardème i occhi, vederè se xe vero.
Digo anca mi che el Conte...
Bianca.   Zitto, che vien mio zio.
Alberto. Gh’ho voggia che parlemo.
Bianca.   Sì, che n’ho voglia anch’io.

SCENA VI.

Don Mauro e detti.

Alberto. Velo qua, l’è capace de andar drio delle ore,

E ogni quattro parole el dirà: Sì, signore.
Mauro. Oh campagna, campagna... che tu sia benedetta...
Ogni giorno si vede qualche novella erbetta....
Qua spunta un fior... là un frutto... qua, sì signor, l’ortica...
Oh campagna, campagna.... che il ciel ti benedica.
Alberto. Sior don Mauro, patron.
Mauro.   Oh schiavo... amico mio.
Nipote... vi saluto.
Bianca.   Serva sua, signor zio.
Mauro. Pensava... meditava... sì signor, fra di me,
Che... non vi è della villa... più bel piacer non vi è.

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Mi figuro i villani, che levan di buon’ora.

Oh, sarà il bel piacere... levarsi coll’aurora.
Alberto. No l’al gh’ha mai sto gusto?
Mauro.   Io no, perchè mi piace...
Star a goder in letto, sì signor, la mia pace.
Alberto. Ma per star con più comodo, ghe mancaria una sposa.
Mauro. Dieci anni, sì signore, pensato ho a questa cosa.
Bianca. E per me, signor zio, ci penserete poi?
Mauro. Eh... altri dieci anni ci penserò per voi.
Alberto. Sarà da qua dies’anni un pochetin tardetto.
Bianca. Per me, signor, so pure che avete dell’affetto.
Mauro. Qua spunta la violetta, là spunta il gelsomino.
Bianca. (Andiamo a ritirarci in fondo del giardino).
(piano al signor Alberto)
Alberto. Con so bona licenza. Andemo....
Mauro.   Sì signore.
Bianca. Io muoio, se non posso sfogar il mio dolore.
Andiam, signor Alberto, andiam per carità. (parte)
Alberto. (Oh ste putte, ste putte, le me fa un gran peccà), (parte)

SCENA VII.

Don Mauro, poi il signor De’ Martini.

Mauro. Si vede la campagna... fruttifera per tutto.

lo solo son un albero, sì signor, senza frutto.
Se la marchesa Ippolita... volesse favorire,
Vorrei far qualche cosa.. innanzi di morire.
Martini. Signor, vi riverisco. (parla sollecito ed altero)
Mauro.   Padron...
(colla solita flemma, alzando la mano al cappello)
Martini.   Son qui venuto,
Per dirvi qualche cosa di un fatto che ho saputo.
Mauro. Son qui... dove che po...
Martini.   Certo signor Contino,
Che avete in casa vostra, egli è un bell’umorino.

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Tenta le donne oneste con arte temeraria,

Tentò con imbasciate madama commissaria.
Ella è una savia femmina, che merita rispetto.
Mauro. Sì signor...
Martini.   Non riceve nessuno nel suo tetto.
E il dico, e lo sostengo, e sono un uom d’onore,
E mi farò conoscere chi sono.
Mauro.   Sì signore.
Martini. E dalla commissaria, se manderà il lacchè,
Cospetto! il signor Conte l’avrà da far con me.
Basta. M’avete inteso. Non sono un cavaliere.
Ma son chi sono al fine, e ho il modo, ed ho il potere.
Mi fu Castel Rotondo in affitto concesso,
E sono più padrone del feudatario istesso.
Poichè se vuol danari, dipendere ha da me;
E quando così parlo, parlo col mio perchè.
Capite?
Mauro.   Sì signore...
Martini.   E posso a voglia mia
Ciascun, quando mi piace, dal feudo mandar via.
Mauro. Non credo, sì signore...
Martini.   Perchè, perchè bel bello
Può darsi che mi riesca comprare anche il Castello.
E non sarebbe mica un caso estraordinario,
Che un agente si alzasse, cadendo il feudatario.
Parlo con voi, che siete buon galantuomo, amico;
E fate capitale di quel che ora vi dico.
Vi vedo volentieri, per bene vi avvertisco.
Faccio poche parole. Signor, vi riverisco. (parte)
Mauro. Questi è un uom, sì signore, che per me è fatto apposta.
Mi parla, e non ho briga di dargli la risposta.
Vuole ch’io dica al Conte?... Oibò, non me n’intrico.
Io sono, sì signore... della quiete amico. (parte)

Fine dell’Atto Primo.


Note

  1. Piangere. [nota originale]