L'Uomo di fuoco/27. Rospo Enfiato
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CAPITOLO XXVII.
Rospo Enfiato.
Non era da stupirsi che Alvaro si fosse mostrato altamente sorpreso a udir parlare di tabacco, foglia che in quell’epoca era assolutamente sconosciuta a tutti gli europei e anche agli asiatici.
Anche Cristoforo Colombo era rimasto assai stupito vedendo gl’indiani delle terre da lui scoperte, gettar fumo dalla bocca, ciò che gli aveva fatto supporre dapprima che quegli uomini mangiassero il fuoco.
Quantunque i suoi marinai a più riprese e anche i navigatori spagnoli che continuarono più tardi le scoperte, l’avessero provato, pure il tabacco rimase sconosciuto in Europa fino al 1580, epoca in cui Nicoti, ambasciatore di Francia alla corte del Portogallo, lo rese popolare, introducendolo alla corte francese dove fu subito apprezzato non per fumarlo bensì per fiutarlo.
Fu Caterina de’ Medici, regina di Francia, che per la prima diede a quell’aromatica foglia una certa celebrità che divenne ben presto mondiale.
Sir Walter Raleigh, l’esploratore dell’Orenoco, l’aveva però già fatta conoscere in Inghilterra.
Vedendo gli indiani a fumare quelle foglie si provò ad imitarli e ne contrasse presto l’abitudine.
Si narra anzi un grazioso aneddoto che dimostra la sorpresa che provarono i primi europei nel vedere del fumo a uscire dalla bocca d’un uomo.
Tornato Raleigh in Inghilterra, stava un giorno seduto nella sua sala da pranzo, dinanzi al caminetto, fumando in una pipa regalatagli da un capo indiano, quando entrò improvvisamente un suo vecchio e devoto servo.
In vita sua, ed era da credervi, il brav’uomo non aveva mai veduto una cosa simile ed attribuendo quel fumo che usciva dalla bocca del suo padrone, ad un fuoco interno, corse nella camera vicina, afferrò una brocca d’argento piena d’acqua e gliela rovesciò addosso gridando:
— Al fuoco! Al fuoco! —
Chi avrebbe detto che cent’anni più tardi quella pianta, ignorata dal mondo intero e nota solo agl’indiani dell’America del Sud, avrebbe portata una vera rivoluzione nei costumi e nelle abitudini di milioni e milioni d’uomini e che tutti i governi ne avrebbero approfittato per arricchire le casse dello Stato?
Alvaro e Diaz avevano già divorata la colazione e stavano provando il tabacco dell’indiano, quando verso la riva udirono un cozzo come se due barche si fossero urtate.
Entrambi si erano alzati, balzando sulle loro armi.
— Che sia il proprietario della tettoia che torna? — chiese Alvaro, armando per precauzione il fucile.
— Deve essere lui, — rispose il marinaio. — Aspettate: se risponde al richiamo è un Tupinambi. —
Accostò alla bocca un pezzo di foglia piegata in due e cavò due o tre sibili stridenti che si potevano udire a grande distanza, poi attese.
Un momento dopo tre suoni consimili echeggiarono sotto le palme nane che coprivano la riva.
— È un amico, — disse il marinaio.
Si udiva fra le fronde un fruscìo che aumentava rapidamente, poi le foglie d’una bananiera s’aprirono ed un indiano balzò sulla piccola spianata su cui si ergeva la tettoia.
Era un uomo di mezza età, alto, slanciato, dai lineamenti un po’ angolosi, cogli occhi piccoli, neri e mobilissimi ed i capelli lunghissimi e piuttosto grossolani.
La sua pelle, come tutti quelli della sua tribù, invece di essere rossastra era verdognola, tinta dovuta al soverchio uso che facevano d’olio di cocco e di grasso pei tatuaggi sul petto e sulle braccia rappresentanti degli orribili batraci colle bocche aperte.
Era interamente nudo; aveva solo una collana di denti umani, probabilmente strappati ai vinti nemici e nella destra una gravatana.
— Mi riconosci Cururupebo (Rospo Enfiato)? — chiese il marinaio facendosi innanzi.
— Il gran pyaie di Zoma! — esclamò l’indiano, facendo un gesto di stupore.
Poi guardando con viva curiosità Alvaro, proseguì:
— È tuo figlio?
— Che ho ritrovato dopo tanti anni. Dove sono i Tupinambi? E tu che cosa fai qui?
— Mi sono rifugiato su quest’isolotto dopo la distruzione della mia aldèe1, — rispose l’indiano.
— Sono sempre in fuga le tribù?
— Lo ignoro, ma so che gli Eimuri, dopo d’aver devastati i villaggi dei Tupy sono in ritirata dovunque, perseguitati dai Caheti, dai Tamoi e dai Guaitacazi.
Fra pochi giorni quei predoni saranno ricacciati nei loro deserti. Tutte le loro colonne sono in fuga e non resistono più.
— Eppure ieri hanno dato battaglia ai Tupy.
— Lo so, ma mentre li inseguivano, a loro volta sono stati sorpresi e battuti. Ed il gran pyaie di Zoma che cosa fa qui?
— Ero in viaggio per cercare l’altro mio figlio che è stato preso dai Tupy. —
Gli occhi dell’indiano si accesero d’una luce sinistra.
— Sempre quei lupi immondi, — disse. — Sono peggiori degli Eimuri costoro e non rispettano nemmeno i nostri pyaie dalla pelle bianca.
— Lo hanno divorato?
— Non ancora.
— Perchè ti sei fermato qui?
— Zoma, il padrone dei venti e delle acque, della terra e del sole, che insegnò ai figli rossi delle foreste a coltivare la mandioca, mi aveva suggerito di venir a trovare Rospo Enfiato onde mi aiutasse a salvare mio figlio. —
L’indiano si rizzò quanto era lungo e prese un atteggiamento fiero.
— Dunque Zoma mi reputa un grande guerriero? — chiese.
— Sì e te ne dà una prova mandandomi qui.
— La mia carne, il mio sangue e la mia gravatana appartengono al gran pyaie bianco, — disse l’indiano. — Che cosa devo fare?
— Guidarmi al villaggio dei Tupy ed aiutarmi a liberare mio figlio.
— Cururupebo è pronto a partire: egli è un grande guerriero e non ha paura di quei lupi maledetti.
— Prendi quello che ti può essere utile e partiamo. —
Mentre l’indiano entrava nella tettoia per staccare la sua amaca e prendere i suoi vasi, il marinaio che era lietissimo dell’esito di quel colloquio condusse Alvaro verso la riva, dicendo:
— Tutto va bene. Rospo Enfiato ci condurrà sul territorio dei Tupy e ci aiuterà con tutte le sue forze nella difficile impresa. Sarà un compagno preziosissimo.
— È un valente guerriero?
— Uno dei più indemoniati, che ha ucciso più di quattordici nemici e mangiati non so quanti.
— Essendo la canoa dell’indiano troppo piccola e anche assai avariata, decisero d’imbarcarsi sull’altra che era più comoda e anche meglio tagliata.
— Dove approderemo? — chiese Diaz all’indiano.
— Vi è un fiume più al sud, che conduce nel territorio dei Tupy, — rispose l’indiano. — Se sarà libero lo saliremo.
— È lontano? —
Rospo Enfiato guardò il sole, poi disse:
— Dopo il tramonto vi giungeremo. —
Avendo tre paia di pagaie, ed essendo l’indiano, al pari della maggior parte dei suoi compatrioti, un battelliere inarrivabile, la canoa partì rapidissima, tenendosi a mezzo chilometro dalla costa.
La savana era sempre cosparsa di banchi, coperti ora di paletuvieri rossi ed ora da enormi mazzi di taquara, bambù altissimi di cui gl’indiani si servono per fabbricare le loro frecce.
Gli uccelli acquatici vi svolazzavano sopra a migliaia e migliaia, senza troppo spaventarsi della presenza della canoa.
Eppure l’indiano, remando, approfittava sovente per mandare una freccia, con abilità prodigiosa ora a qualche piassoie ed ora a qualche bel mahitaco od a qualche canindè che schiamazzavano sulle cime dei bambù.
Da uomo previdente pensava alla cena e anche alla colazione dell’indomani.
Qualche altra volta invece, mandava le sue frecce a fior d’acqua arrestando qualche traira, quei grossi pesci che popolano le paludi o qualche rascudo dalle squame durissime, ma non sufficienti a ripararlo dalla sottilissima punta di quei dardi.
— Come sono destri questi selvaggi, — diceva Alvaro che ammirava la bravura di Rospo Enfiato. — Se i miei compatrioti vorranno occupare questo paese colla violenza avranno ben da fare a tener testa a questi indiani. —
Verso sera la canoa che non aveva cessato d’avanzarsi sotto la spinta delle sei pagaie, giungeva all’imboccatura d’un fiume largo un centinaio di metri e che pareva fendesse per un tratto immenso la gigantesca foresta, a giudicarlo dal volume delle sue acque.
— L'Ibira, — disse Rospo Enfiato, volgendosi verso il marinaio. — Salendolo noi giungeremo in un paio di giorni nel paese dei Tupy.
— Sono abitate le sue rive?
— Lo sospetto, — rispose l'indiano.
— Dai Tupy?
— Sì.
— Allora ci scopriranno.
— Navigheremo solamente di notte.
— Se si accorgono della nostra presenza ci chiuderanno il passo.
— Lo so ed i Tupy non mancano di canoe. Saliremo fin che potremo, poi ci getteremo nella foresta. Là almeno saremo al sicuro e ci sarà più facile accostarci ai villaggi dei Tupy.
Riposiamoci un po’ e ceniamo. —
Si spinsero verso la riva sinistra la quale era coperta da enormi palme maurizie, piante preziosissime perchè, prima che mettano i fiori, dai loro tronchi si può estrarre una certa sostanza farinosa che disseccata ed impastata può benissimo surrogare le gallette di mandioca, e col succo fermentato, che cola abbondante incidendo la corteccia, si può ottenere una specie di vino dolce ed inebbriante che è assai gustato anche dagl’indiani.
Rospo Enfiato battè la riva per cinque o seicento metri onde assicurarsi che non vi fosse nei dintorni alcuna abitazione, poi accese il fuoco e preparò rapidamente la cena, mettendo sui carboni una bella traira e nella pentola un paio di uccelli acquatici e due tuberi lunghi quasi un piede, grossi come il polpaccio d’un uomo e dolcissimi, che aveva raccolti durante la sua breve esplorazione.
Quando tutto fu pronto, si trasse in disparte, non usando gl’indiani brasiliani mangiare l’un presso l’altro, nemmeno in famiglia e vuotò destramente la sua pentola colma di brodo, servendosi non già del cucchiaio, bensì del dito indice e medio e con tale rapidità da terminare prima dei due europei.
Anche la traira fu divorata senza che perdesse tempo a pulirla delle spine e delle scaglie. Di boccone in boccone separava le une e le altre servendosi della lingua al pari delle scimmie, cacciandole in un angolo della bocca, per rigettarle poi tutte insieme a pasto finito.
Durante i loro pasti gl’indiani non usavano nè parlare, nè bere. Dopo però amavano chiacchierare come pappagalli per delle ore intere e bere in abbondanza, specialmente casciri e altri liquori forti fino a ubriacarsi.
Mancando però dell’uno e degli altri, Rospo Enfiato dovette accontentarsi dell’acqua del fiume e d’una presa di paricà che aspirò attraverso un doppio tubetto formato con due ossa alari d’avvoltoio e che lo mise subito di buon umore, essendo quella polvere inebbriante.
Quella fermata, necessaria per dare un po’ di riposo alle loro membra, si prolungò fino alla mezzanotte, poi tornarono ad imbarcarsi volendo approfittare delle tenebre per guadagnare via, senza correre il pericolo di venire notati e disturbati dagli abitanti delle rive.
Da una parte all’altra del fiume, dei superbi palmizi proiettavano un’ombra così fitta da rendere la canoa quasi invisibile.
Erano palme da cera, le più belle e le più eleganti della numerosa famiglia delle palmares, dal tronco altissimo, esile, bianchissimo e coronato sulla cima da un elegantissimo ciuffo di foglie lunghe cinque o sei metri.
Di quando in quando, in mezzo ai folti cespugli che avvolgevano i tronchi di quelle palme si vedevano vagare delle ombre e luccicare dei punti giallo-verdastri e si udivano dei miagolii soffocati e delle urla rauche che si ripercuotevano lungamente sotto le infinite vôlte di verzura.
Erano giaguari e coguari, lupi rossi e gattoni pardini che vagavano sui margini della foresta cercando la cena.
Rospo Enfiato, appena s’accorse della loro presenza, s’affrettò a spingere la canoa in mezzo al fiume. Conosceva per prova lo slancio e l’audacia dei giaguari e dei puma per non prendere le sue precauzioni.
— Che abbondanza di belve! — disse Alvaro, vedendo due grosse ombre spingersi rapidamente verso una lingua di terra che si prolungava fino a quasi in mezzo al fiume.
— Tutte le rive dei corsi d’acqua sono così popolate di carnivori, — rispose Diaz. — La grande foresta è poco frequentata dai tapiri, dalle scimmie, dai pecari e dai caspybara, le vittime ordinarie dei giaguari e dei coguari, essendo scarsa di stagni e di ruscelli.
— Silenzio gran pyaie, — disse in quel momento Rospo Enfiato, ritirando le pagaie.
— Che cosa c’è? — chiese il marinaio.
— Aldèe!...
— Dove?
— Lassù, verso quella punta.
— Dei Tupy?
— Certo, — rispose l’indiano.
— Potremo passarvi dinanzi senza destare l’attenzione degli abitanti? A quest’ora devono dormire come i sucuriù durante la stagione secca.
— Se gli Eimuri non sono stati completamente scacciati dal territorio, nell’aldèe si veglierà.
— Già, è vero. Che cosa ci consigli di fare?
— Lasciare la canoa e gettarci nella foresta. Marcieremo con maggior sicurezza e potremo avvicinarci, senza venire facilmente scoperti, alla grande aldèe dei Tupy.
Tuo figlio deve trovarsi colà, ne sono sicuro.
— Mi spiace abbandonare la canoa.
— L’affonderemo, così potremo ritrovarla nel ritorno e rifugiarci ancora nella savana sommersa.
— Che cos’ha dunque l’indiano? — chiese Alvaro che s’impazientiva.
— Vi è un aldèe dinanzi a noi, ossia un villaggio di Tupy, — rispose Diaz. — Rospo Enfiato non osa passarvi dinanzi e ci consiglia di gettarci nella grande foresta.
— Possiamo fidarci di lui?
— Interamente.
— Allora andiamo alla riva. —
Attraversarono il fiume approdando sulla riva destra e sbarcarono.
L’indiano legò la canoa al tronco d’un albero, servendosi d’una liana molto lunga, mise a terra le sue provviste, la sua amaca ed un paio di pentole, poi riempì d’acqua la scialuppa, facendola affondare in mezzo ad un gruppo di enormi foglie di victoria regia onde nessuno potesse scorgerla.
Stavano per salire la riva e coricarsi sotto i palmizi, quando l’indiano tese un braccio verso l’alto corso del fiume, dicendo al marinaio:
— Vede il gran pyaie? —
Una forma allungata e nera si era staccata dalla penisoletta sulla quale sorgeva il villaggio e scendeva rapidamente il fiume.
— Una canoa, — disse Diaz.
— Vegliavano nei carbet, — rispose l’indiano. — Vengono ad assicurarsi se noi siamo sbarcati.
— Sì, ci avevano già scoperti.
Presto, nel bosco e marciamo con lena. —
Si cacciarono sotto le palme che s’intrecciavano con rigogliose felci arborescenti, con liane, con piante di vaniglia selvatica e con gruppi d’orchidee, che cadevano dai rami in festoni olezzanti di soave profumo e partirono con passo veloce, temendo di venire inseguiti dai canottieri della piroga.
L’indiano i cui sensi e specialmente l’udito erano acutissimi, di quando in quando si fermava ad ascoltare, poi riprendeva la marcia con maggior velocità, addentrandosi sempre più nella tenebrosa foresta.
Il marinaio, abituato alle rapidissime marce degl’indiani, i quali in una sola notte attraversavano delle distanze incredibili, non aveva difficoltà a seguirlo, ma Alvaro invece doveva fare degli sforzi disperati per non rimanere indietro.
E, poi da quando era sbarcato aveva cominciato a provare dei dolori acuti alle dita dei piedi, come se delle spine vi si fossero confitte.
Dopo due ore di corsa indemoniata fu costretto a confessarsi vinto.
— Arrestiamoci, Diaz, — disse. — Non posso più seguirvi e mi sembra d’altronde che nessun pericolo ci minacci.
— Sì, fermiamoci, — rispose il marinaio. — Voi non siete abituato alle lunghe corse dei selvaggi brasiliani.
— E poi non so che cosa abbia, mi pare che le dita dei piedi siano in cattivo stato.
— Ah! — disse Diaz, ridendo. — So che cosa avete. La bestia maligna vi mangia.
Bisogna sbarazzarvene subito o vi rovinerà i piedi.
— Una bestia!
— Veramente è una specie di pulce: la chique2. Rospo Enfiato ve la leverà. Aspettate fino all’alba perchè se il sacco non viene levato intero e si rompe si svilupperà un’ulcera maligna che vi rovinerà i piedi per parecchie settimane.
— Una pulce avete detto?
— Che è comunissima qui e che non risparmia nemmeno i piedi degl’indiani. Non si sa il perchè si caccia di preferenza nelle dita e se è una femmina vi si annida, formando entro la carne un minuscolo sacchetto che raggiunge le dimensioni d’un pisello entro cui deposita le uova.
Guai se non si leva a tempo; come vi dissi il piede corre il pericolo di venire rovinato.
Accampiamoci sotto questa pianta e aspettiamo che il sole si alzi.
— Che i battellieri della piroga ci abbiano inseguiti?
— Se Rospo Enfiato è tranquillo, vuol dire che nessuno ci minaccia. —
Infatti l’indiano non dava alcun segno di essere inquieto. Appoggiato al tronco d’una palma aspirava beatamente un pizzico di paricà, guardando distrattamente le splendide vaga lume, quelle superbe lucciole dei boschi brasiliani, che volavano a ondate fosforescenti, ora abbassandosi verso il suolo ed ora innalzandosi fino alla impenetrabile vôlta di verzura.
Quando l’aurora spuntò, diffondendo sotto gli alberi una dolcissima luce rosea, Rospo Enfiato che era già stato avvertito dal pyaie bianco dell’inconveniente che aveva colpito Alvaro, andò a levare alcune spine da una palma carà scegliendo con cura quelle che avevano la punta più sottile.
Il marinaio fece cenno al portoghese di levarsi le scarpe e di denudare i piedi.
— L’operazione sarà rapida e niente dolorosa, — disse poi. — Levato il nido della chique potrete riprendere la marcia senza provare disturbo alcuno. —
L’indiano esaminò i piedi d’Alvaro e mostrò su entrambi due piccolissime rigonfiature.
Prese una delle spine e con destrezza meravigliosa e senza che il portoghese provasse quasi dolore, strappò una dietro l’altro tre granelli grossi come piselli che gettò via.
— Le pulci avevano trovati i vostri piedi più adatti per deporre le loro uova, — disse Diaz, sorridendo. — Il sangue bianco conviene forse meglio ai piccini. Eccovi sbarazzato da quei pericolosi ospiti.
Lindiano mise sulle punture fatte un pizzico di paricà, poi disse al marinaio:
— Andiamo.
— Che siamo inseguiti? — chiese Diaz.
— Rospo Enfiato non ha ancora udito alcun rumore sospetto, ma è meglio allontanarsi presto dal fiume.
— Quando giungeremo all’aldèe dei Tupy?
— Questa sera, se cammineremo bene. —
Si orientò col sole, poi si mise in cammino, seguendo un sentiero che pareva fosse stato aperto da qualche grosso animale a giudicarlo dal gran numero di cespugli calpestati.
— La strada d’un anta (tapiro) — disse il marinaio ad Alvaro.
— D’uno di quegli animali che somigliano un po’ ai porci e che hanno una specie di tromba mobile all’estremità del muso? — chiese il portoghese.
— Sì, signor Viana e questo sentiero indica che noi siamo presso a qualche palude. Quegli animali non possono vivere senza l’acqua nutrendosi delle radici delle piante palustri.
— E perchè aprono questi sentieri che sembrano fatti dalla mano dell’uomo?
— Perchè hanno l’abitudine di percorrere sempre la medesima via che mette dal loro rifugio alla palude. Così a poco a poco aprono delle vere stradicciuole anche in mezzo alle più folte foreste.
— Uhao! — esclamò in quel momento Rospo Enfiato, fermandosi di colpo.
— Cos’hai? — chiese Diaz facendosi innanzi.
— Tupy passati per di qua, — rispose il selvaggio. — Correvano.
In quel luogo si vedevano cespugli strappati, felci arborescenti rovesciate, liane spezzate, orchidee calpestate come se un torrente umano fosse passato attraverso la foresta a guisa di un uragano.
Sul suolo umido della foresta si vedevano numerose orme di piedi nudi, mentre sui tronchi degli alberi si scorgevano delle frecce infisse nelle cortecce.
L’indiano ne prese una e la guardò attentamente.
— Freccia dei Tupy, — disse.
— Come la riconosci? — chiese Diaz.
— Dalla punta uncinata.
— E questa è degli Eimuri, — proseguì, staccandone un altra. — La punta è spina di palmizio.
— Che i Tupy battuti sulle rive della savana sommersa siano passati per di qui?
— Sì, — rispose Rospo Enfiato.
Ad un tratto alzò la testa fiutando a più riprese l’aria.
— Cammina gran pyaie, — disse.
— Che cosa c’è ancora?
— Morti... laggiù...
— Che i Tupy siano stati raggiunti dagli Eimuri e distrutti fino all’ultimo? — si chiese il marinaio con angoscia. — Allora Garcia non avrebbe potuto sfuggire alla morte. —
Seguì l’indiano, col cuore stretto da una profonda ansietà, senza nulla dire ad Alvaro e dopo tre o quattrocento passi giungevano sulle rive di un ampio stagno, le cui rive erano quasi sgombre d’alberi.
Un terribile combattimento doveva essere avvenuto anche in quel luogo. Parecchie centinaia di cadaveri, già in via di putrefarsi, giacevano intorno allo stagno fra una confusione indicibile di archi, di gravatane e di mazze.
Pozze di sangue già coagulato si scorgevano dovunque nelle depressioni del suolo.
— Eimuri, — disse Rospo Enfiato, con un sorriso di crudele soddisfazione. — I Tupinambi sono stati vendicati.
— Che siano stati vinti a loro volta dai Tupy? — chiese Diaz.
— Sì, e sono caduti tutti o quasi tutti. Guarda la testa del loro capo. —
In mezzo ad un mucchio di cadaveri, infissa in una pertica, una testa umana semisfracellata da un terribile colpo di mazza, adorna ancora d’una corona di penne lorde di sangue e priva d’occhi, si ergeva.
Scorgendola Alvaro aveva mandato un grido.
— Il capo degli Eimuri, — disse. — Lo riconosco anche se così atrocemente conciato.
— Meglio per noi, — rispose Diaz. — Almeno quello non ci darà più alcun fastidio. —
L’indiano che percorreva il campo di battaglia rimuovendo i cadaveri come se cercasse qualche cosa, ad un tratto si curvò e raccolse qualche cosa.
— Il figlio del gran pyaie bianco è passato pure per di qua, — disse, volgendosi verso Diaz. — Ora siamo sicuri che si trova nelle mani dei Tupy.
— Che cos’hai trovato?
— La polvere che tuona.
Rospo Enfiato così dicendo mostrava una borsa di pelle dalla quale aveva fatto uscire alcuni granelli neri, raccogliendoli nel palmo della destra.
— Me ne ricordo ancora, — disse. — Il gran pyaie con questa provocava il lampo ed il tuono. —
Diaz si era slanciato verso di lui, strappandogli la borsa dalle mani.
— La riconoscete? — chiese, mostrandola ad Alvaro.
— La provvista di polvere da sparo di Garcia! — esclamò il portoghese con viva commozione.
— Sì, la sua, — disse Diaz.
— Sicchè voi credete?
— Questa è una prova che Garcia è stato rapito dai Tupy.
— Che sia ancora vivo?
— Non ne dubito.
— Ah! Povero ragazzo!
— Oh! Noi lo salveremo, dovessimo raccogliere tutte le tribù dei Tupinambi e piombare sui rapitori.
Signor Viana ecco della polvere che può diventare preziosa.
— E che non lascerò a questi morti, — rispose Alvaro. — La mia provvista comincia già a scarseggiare.
— Il gran pyaie bianco mi segua, — disse in quel momento Rospo Enfiato. — Ormai siamo sul sentiero di guerra dei Tupy e lo seguiremo fino alla grande aldèe dove tuo figlio si trova prigioniero. —