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Rospo Enfiato. 269

— E questa è degli Eimuri, — proseguì, staccandone un altra. — La punta è spina di palmizio.

— Che i Tupy battuti sulle rive della savana sommersa siano passati per di qui?

— Sì, — rispose Rospo Enfiato.

Ad un tratto alzò la testa fiutando a più riprese l’aria.

— Cammina gran pyaie, — disse.

— Che cosa c’è ancora?

— Morti... laggiù...

— Che i Tupy siano stati raggiunti dagli Eimuri e distrutti fino all’ultimo? — si chiese il marinaio con angoscia. — Allora Garcia non avrebbe potuto sfuggire alla morte. —

Seguì l’indiano, col cuore stretto da una profonda ansietà, senza nulla dire ad Alvaro e dopo tre o quattrocento passi giungevano sulle rive di un ampio stagno, le cui rive erano quasi sgombre d’alberi.

Un terribile combattimento doveva essere avvenuto anche in quel luogo. Parecchie centinaia di cadaveri, già in via di putrefarsi, giacevano intorno allo stagno fra una confusione indicibile di archi, di gravatane e di mazze.

Pozze di sangue già coagulato si scorgevano dovunque nelle depressioni del suolo.

— Eimuri, — disse Rospo Enfiato, con un sorriso di crudele soddisfazione. — I Tupinambi sono stati vendicati.

— Che siano stati vinti a loro volta dai Tupy? — chiese Diaz.

— Sì, e sono caduti tutti o quasi tutti. Guarda la testa del loro capo. —

In mezzo ad un mucchio di cadaveri, infissa in una pertica, una testa umana semisfracellata da un terribile colpo di mazza, adorna ancora d’una corona di penne lorde di sangue e priva d’occhi, si ergeva.

Scorgendola Alvaro aveva mandato un grido.

— Il capo degli Eimuri, — disse. — Lo riconosco anche se così atrocemente conciato.

— Meglio per noi, — rispose Diaz. — Almeno quello non ci darà più alcun fastidio. —

L’indiano che percorreva il campo di battaglia rimuovendo i cadaveri come se cercasse qualche cosa, ad un tratto si curvò e raccolse qualche cosa.

— Il figlio del gran pyaie bianco è passato pure per di qua,