L'Uomo di fuoco/26. La scomparsa del mozzo
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CAPITOLO XXVI.
La scomparsa del mozzo.
Una mischia terribile si era impegnata fra gli Eimuri ed i loro avversari.
Quei selvaggi, che Alvaro aveva giustamente paragonati più a fiere che a esseri umani, combattevano con furore estremo scambiandosi colpi di mazza che di rado cadevano a vuoto.
L’abilità con cui adoperavano quell’arma pericolosissima, preferita dai guerrieri alle gravatane dalla freccia mortale e anche alle scuri di conchiglia che d’altronde si spezzavano facilmente, era straordinaria.
Quantunque quelle mazze, formate di legno del ferro, fossero pesantissime, tali anzi che gli europei non riuscivano ad alzarle e farle girare con una sola mano e avessero sovente una lunghezza di due metri, le maneggiavano con destrezza facendole volteggiare in aria con velocità prodigiosa.
Ogni colpo faceva una vittima, giacchè miravano sempre alla testa che fendevano nettamente per metà, essendo sottili sui due lati.
Per parecchi minuti Alvaro ed il mozzo non videro che un rimescolamento orribile di corpi nudi e sanguinanti che si dibattevano fra un urlìo incessante, poi i combattenti si separarono in vari gruppi continuando la lotta con crescente furore.
Un gran numero di guerrieri giacevano al suolo coi crani spaccati ed i petti sfondati dai colpi formidabili delle mazze, ma gli altri, per nulla atterriti non cedevano ancora il campo, spinti dal desiderio di fare dei prigionieri poichè non usavano i brasiliani, chissà per quali inesplicabili cause, divorare i morti caduti sul campo di battaglia.
Gli Eimuri però più numerosi quantunque meno armati, avevano avuto subito un notevole vantaggio sui loro avversari, decimandone crudelmente le file.
Il loro capo, che ruggiva come un giaguaro e che aveva la mazza lorda di sangue fino al manico, si sforzava a raccogliere le file per dare l’ultimo colpo.
Gli avversari invece cominciavano a tentennare quantunque opponessero ancora una ostinata resistenza. Anche il loro capo faceva sforzi sovrumani per stringerseli intorno, senza però riuscire nell’intento.
Ad un tratto fu veduto scagliarsi contro il capo degli Eimuri con slancio disperato ed investirlo a colpi di mazza.
Era un bel selvaggio di alta statura, adorno di collana e di piume variopinte e di ossa che dovevano essere umane e che gli pendevano lungo i fianchi.
L’Eimuro che forse si aspettava quell’attacco, si volse di colpo e siccome nella destra teneva la gravatana gli soffiò contro una freccia, colpendolo con precisione matematica nel pomo d’Adamo, ossia nel centro della gola.
Il guerriero, quantunque non dovesse ignorare che la morte ormai doveva sorprenderlo, si gettò sull’avversario a corpo perduto, sperando ancora di fracassargli il cranio con un colpo di mazza, ma le forze lo tradirono.
Il curaro aveva agito istantaneamente ed il sangue era stato subito avvelenato.
Lasciò sfuggire l’arma che impugnava e cadde sulle ginocchia; un colpo di mazza dell’Eimuro lo finì, rovesciandolo al suolo col cranio fracassato.
I guerrieri, vedendo cadere il capo e gli Eimuri slanciarsi nuovamente all’assalto, scoraggiati e già ridotti alla metà, volsero le spalle dirigendosi verso la savana e precisamente là dove Alvaro ed il mozzo si tenevano nascosti.
— Maledizione! — esclamò il signor Viana, alzandosi precipitosamente. — Gambe, Garcia! —
I fuggenti, che correvano come daini, erano ormai troppo vicini per permettere ai due naufraghi di ritornare nel folto della foresta prima di venire scorti.
In quel supremo frangente, Alvaro si rammentò di essere il temuto Uomo di fuoco. Alzò rapidamente il fucile contro i selvaggi che si trovavano già a pochi passi di distanza.
L’effetto prodotto da quel colpo fu incredibile. Vinti e vincitori, presi da un subitaneo terrore si erano arrestati lasciandosi cadere al suolo, come se sopra le loro teste fosse scoppiata la folgore.
— Fuggi! Alla scialuppa, Garcia! — gridò Alvaro, slanciandosi a corsa disperata in direzione della savana.
Al di là degli alberi, delle grida echeggiavano:
— Caramurà! Caramurà! —
Dovevano essere gli Eimuri i quali avevano certamente riconosciuto il loro pyaie.
Alvaro, che correva a rotta di collo, credendosi sempre seguito dal mozzo, in meno di cinque minuti si trovò sulla riva della minuscola cala, presso cui trovavasi la scialuppa.
Si volse gridando:
— Presto Garcia! —
Invece udì in quel momento uno sparo, poi un grido:
— Signor Alvaro! —
Poi vide una torma di selvaggi passare come un uragano fra gli alberi e scomparire in mezzo ai cespugli con fantastica rapidità.
Erano gli sconfitti che fuggivano.
— Aiuto... signore! — udì ancora in lontananza.
Ma i selvaggi che erano stati sopraffatti erano ormai scomparsi e giungevano invece a corsa disperata gli Eimuri preceduti dal loro capo.
Alvaro mandò un urlo.
— Mio povero ragazzo! —
Per un momento, non badando che al proprio coraggio e alla propria generosità, ebbe l’idea di scagliarsi dietro ai fuggenti.
Fortunatamente s’accorse subito che non sarebbe mai riuscito a raggiungere quegli uomini che correvano meglio dei cavalli e che avrebbe dovuto misurarsi contro l’intera orda vincitrice. Per di più l’archibugio era scarico e non aveva il tempo di ricaricarlo.
Balzò nella scialuppa, afferrò le pagaie e frenando le lagrime che gli empivano gli occhi, si spinse rapidamente al largo, salutato da una pioggia di frecce, di cui alcune si infissero, malgrado la distanza, nella poppa della canoa.
Invece di avanzarsi nel mezzo della savana, piegò verso la riva meridionale, tenendosi a sufficiente distanza per mettersi fuori di portata dalle gravatane e dagli archi.
I selvaggi che avevano avuto la peggio erano fuggiti in quella direzione e sperava di ritrovarli al di là d’una lunga penisola che si spingeva nella savana per parecchie centinaia di metri.
Delle grida echeggiavano in quella direzione e si vedevano gli Eimuri a dirigersi velocemente da quella parte. Pareva che sotto le alte piante si fosse impegnata un’altra battaglia perchè si udivano a squillare i pifferi di guerra e risuonare cupamente le mazze.
— Mio povero Garcia! — ripeteva Alvaro senza cessare di remare con suprema energia. — È perduto! —
Le grida si allontanavano e non già lungo le rive della savana bensì nell’interno della foresta diventando rapidamente fioche.
Certo i vinti, dopo un tentativo di resistenza, si erano dati nuovamente alla fuga, salvandosi nell’immensa boscaglia che offriva dei rifugi ben più sicuri che le macchie di bambù che sorgevano lungo le rive.
Alvaro si era arrestato, giudicando inutile continuare la corsa in quella direzione. Era meglio tornare prontamente all’isolotto ed informare il marinaio, l’unico che potesse dare qualche prezioso consiglio sul da farsi.
— Non abbandoneremo quel caro ragazzo, — disse Alvaro, riprendendo i remi. — Se ha avuto il tempo di scaricare il suo fucile verrà considerato come un uomo superiore, ne faranno forse un pyaie e non lo mangeranno.
Quei selvaggi che sono stati vinti non saranno più feroci degli Eimuri.
Un po’ tranquillizzato da quelle riflessioni, si mise ad arrancare affannosamente, ansioso di giungere all’isolotto.
La battaglia doveva essere finita, giacchè non si udiva ormai più nulla e se continuava, i guerrieri dovevano trovarsi ormai ben lontani dalle rive della savana sommersa.
Era quasi mezzodì quando Alvaro, assai triste, approdò sulla riva dell’isolotto.
Il marinaio, stanco forse di aspettarli e non sperando che tornassero prima del tramonto, sonnecchiava all’ombra d’una pianta, colla gravatana a portata della mano.
Udendo la voce di Alvaro, aprì subito gli occhi alzandosi a sedere.
— Solo! — esclamò, non scorgendo il mozzo e facendosi smorto. — Gran Dio! Che cosa vi è toccato signor Viana? Mi sembrate sconvolto.
— Perduto, — rispose Alvaro con voce spezzata.
— Garcia!
— Rapito dai selvaggi.
— Dai Caheti?
— Non so... vi erano anche gli Eimuri... combattevano.
— Calmatevi, signor Viana e narratemi tutto. —
Alvaro quantunque fosse in preda ad un vero accesso di disperazione, lo mise subito al corrente di quanto era avvenuto.
— Ditemi, Diaz, riusciremo noi a salvarlo? — chiese Alvaro.
Il marinaio aveva ascoltato il racconto in silenzio, corrugando più volte la fronte.
— Siete certo che non siano stati gli Eimuri a portarlo via? — chiese.
— Quei selvaggi non erano ancora giunti.
— Dunque sono stati gli altri?
— Sì, Diaz.
— Ditemi come erano quegl’indiani.
— Erano di statura più alta degli Eimuri, avevano i capelli lunghi e neri ed il colorito bruno fosco.
— Avete notato se avevano delle incisioni sulle braccia e sulle cosce?
— Sì, dei tagli abbastanza profondi, delle vecchie cicatrici.
— E delle penne appiccicate agli angoli degli occhi? — chiese ancora Diaz.
— Anche quelle.
— Erano indiani Tupy, i nemici più accaniti e più formidabili dei Tupinambi. Sono lieto che le abbiano prese dagli Eimuri, quantunque sì gli uni che gli altri siano del pari crudeli.
— Potremo noi ritrovarli?
— So dove hanno il loro villaggio principale e mi immagino che avranno condotto Garcia dal loro gran capo Piragibe, che vuol dire Braccio di pesce.
— Che lo mangino?
— Forse, se non preferiranno farne uno stregone. Non avranno però fretta essendo Garcia, per sua fortuna, troppo magro per costituire un buon arrosto e prima che lo abbiano ingrassato, passeranno parecchie settimane e fors’anche dei mesi.
— Sicchè voi non disperate di salvarlo.
— La cosa non sarà facile, tuttavia ci proveremo. Se vedremo che l’impresa sarà troppo difficile, chiameremo in nostro aiuto i Tupinambi i quali a quest’ora saranno certo tornati ai loro villaggi.
— Vi sentite di poter camminare?
— Fra un paio di giorni io sarò completamente ristabilito.
— Due giorni! Sono lunghi, Diaz, — disse Alvaro.
— Non perderemo egualmente il nostro tempo, — disse il marinaio, — anzi sloggeremo subito.
Ho osservata attentamente questa savana e mi sono ormai già convinto che dirigendoci verso il sud, noi ci avvicineremo considerevolmente al territorio dei Tupy.
Abbiamo la canoa e ne approfitteremo.
— È anche necessario abbandonare l’isola per non morire di fame, — disse Alvaro, — non avendo io potuto portare nulla dalla foresta.
— Sì, partiamo, — disse il marinaio.
Si alzò senza l’aiuto di Alvaro e si diresse verso la canoa con passo abbastanza sicuro.
— La gamba funziona benissimo, — disse. — Sotto questo clima le guarigioni sono più rapide che in altri paesi. —
S’imbarcarono portando con loro la gravatana ed il fucile e presero le pagaie.
— Conducetemi innanzi a tutto là dove è avvenuto lo scontro, — disse il marinaio. — Voglio accertarmi coi miei occhi se gl’indiani sconfitti dagli Eimuri erano veramente dei Tupy.
— Che vi siano ancora gli Eimuri?
— Saranno occupati ad inseguire i loro avversari e poi non sbarcheremo che dopo il tramonto del sole. —
Si misero a remare senza affrettarsi, avendo più di tre ore di tempo, procurando di tenersi sempre dietro le isolette onde non farsi scorgere dagli abitanti delle rive, dato il caso che ve ne fossero ancora.
Il sole tramontava dietro le alte piante dell’occidente quando giunsero nella piccola cala.
Sulle rive regnava un profondo silenzio. Nell’interno invece della foresta si udivano a echeggiare le urla acute e tristissime dei guarà.
— Buon segno, — disse il marinaio sbarcando.
— Perchè dite ciò? — chiese Alvaro.
— Se i lupi rossi pasteggiano coi cadaveri dei morti, è segno che i combattenti si sono allontanati.
Quegli animali si tengono lontani dall’uomo.
Siete capace di guidarmi fino sul campo di battaglia?
— Mi rammento benissimo la via percorsa, — rispose Alvaro.
Presero le loro armi e s’inoltrarono sotto gli alberi, spiccando qua e là qualche frutto, non avendo mangiato dal mattino.
Le urla dei guarà o lupi rossi diventavano sempre più acute. Quei lupi ingordi dovevano essersi gettati avidamente sui cadaveri e dovevano farne scempio.
Un quarto d’ora dopo il marinaio ed Alvaro giungevano sul margine della vasta radura.
Vi erano là, disseminati o distesi a gruppi, non meno di duecento guerrieri fra Tupy ed Eimuri, parte trafitti da frecce ed i più colle teste orrendamente fracassate dalle terribili mazze.
Numerosi guarà giravano fra quei poveri morti, azzannando or questi ed or quelli, urlando e mugolando, e stormi di avvoltoi reali, di caracari, di gaviaos che sono specie di sparvieri e di urubu, quegli insaziabili divoratori di carogne, calavano a prendere parte a quel colossale banchetto.
Diaz senza preoccuparsi dei lupi rossi, si avvicinò ad un gruppo di cadaveri e li osservò per qualche istante.
Vi erano mescolati insieme Tupy ed Eimuri, ancora strettamente abbracciati, come se anche dopo morti cercassero di lottare.
— Sì, — disse poi. — Sono Tupy quelli che sono stati sconfitti dagli Eimuri. Li conosco benissimo dalle loro collane e dalle loro cicatrici. Non vedete questo indiano che ha dei profondi intagli sulle braccia? Sette! Doveva essere un famoso guerriero.
— Perchè? — chiese Alvaro.
— Ogni cicatrice segna un nemico ucciso.
— Sono terribili dunque questi indiani?
— Guerrieri formidabili.
— Povero Garcia, — disse Alvaro con un sospiro. — Potremo noi giungere in tempo per salvarlo?
— Vi ho detto che finchè non l’avranno ingrassato non correrà pericolo alcuno. Torniamo alla canoa, signor Viana. Non sono ancora abbastanza forte per resistere alle marce.
— Dove dormiremo?
— Nella canoa; almeno saremo al sicuro da qualunque sorpresa. —
Tornarono lentamente verso la savana, facendo raccolta di banani e anche di cocchi e s’imbarcarono spingendosi sempre verso il sud.
Verso la mezzanotte arenarono la canoa su un banco che sorgeva a cinquecento metri dalla riva, distanza sufficiente per evitare una sorpresa, e si addormentarono non ostante i muggiti, i fischi, i martellamenti, i latrati dei rospi, delle parrancia, dei sapo de minas e di tutte le altre varietà di batraci che popolavano le isolette della savana.
L’indomani, dopo d’aver vuotate due o tre noci di cocco, riprendevano la corsa, mantenendosi sempre ad una considerevole distanza dalla riva.
Quella immensa palude non accennava a restringersi, nè a finire. La riva meridionale non si delineava e nemmeno quella occidentale appariva.
Doveva avere una immensa estensione e chissà, fors’anche si prolungava verso il mare essendo le sue acque leggermente salmastre.
Il marinaio ed Alvaro arrancarono fino al mezzodì senza prendere un momento di riposo, poi vedendo che sulla riva non si mostrava nessun essere umano, presero terra per cercarsi la colazione.
Tutta la sponda era coperta da bellissime jabuticabeire, piante alte non più di sei o sette metri, dal fogliame foltissimo ed i tronchi carichi di frutta grosse come i nostri mandarini, d’un giallo lucente, che spuntano sulle cortecce degli alberi e che forniscono una polpa assai delicata e molto apprezzata anche dagli indiani.
Stormi di ani, uccelli bianchi e neri, grossi come merli, dalla coda lunghissima, che vivono di buon accordo con tutti gli animali, anche quelli feroci, perchè hanno la strana abitudine di sbarazzarli delle pulci e di tutti gli altri insetti che si nascondono fra i peli, svolazzavano fra i rami più bassi, mentre su quelli più alti cinguettavano senza posa gli japì, i più noiosi di tutti i volatili, avendo una voce sgradevolissima.
— Un arrosto di uccelli? — chiese Alvaro, vedendo il marinaio introdurre una freccia avvelenata nella gravatana.
— Penso di offrirvi qualcosa di meglio, — rispose Diaz che guardava invece fra le macchie di ortensie che crescevano intorno ai tronchi delle jabuticabeire.
Eccolo che si preparava a sorprendere gli ani. Lo vedete? —
Un animale che rassomigliava un po’ ad un gatto, col corpo esile lungo circa mezzo metro, dal pelame fitto, nero e bruno, la testa piuttosto grossa, con occhi grandi e gli orecchi pendenti, si era slanciato sul tronco d’un albero, arrampicandosi silenziosamente per raggiungere i rami sui quali strillavano noiosamente parecchi ani.
— Che cos’è? — chiese Alvaro.
— Un tayra, un vero predone che distrugge uccelli, rosicchianti e che non teme di assalire perfino i capibara che sono i più grossi roditori conosciuti. Eh! Un altro concorrente!
— Oh! Il bellissimo gatto! — esclamò Alvaro.
Un altro animale che fino allora si era tenuto nascosto fra le ortensie e che, come il primo, spiava gli ani colla speranza di sorprenderli, si era slanciato sul medesimo tronco.
Era un gatto pardino, animale comunissimo nelle selve brasiliane, dove al pari del tayra commette stragi immense di volatili e spinge la sua audacia fino a dare la caccia anche alle scimmie, che vince facilmente essendo armato di artigli solidissimi e dotato d’una agilità straordinaria.
Un bel gattone d’altronde, lungo quasi un metro, alto mezzo dalla spalla, col corpo robusto, coperto d’un pelo fittissimo, morbido, a macchie ed a strisce bianche, brune, gialle, grigie e nere.
— Pare una piccola tigre, — disse Alvaro, che si era nascosto dietro il tronco d’un albero.
— E assalito si difende tenacemente anche contro gli uomini, — rispose il marinaio. — È il più grosso di tutti i gatti selvaggi e anche il più audace.
Vedrete che assalirà anche il tayra se riesce a sorprenderlo.
Il tayra però, quantunque fosse ben in alto, si era subito accorto della presenza del suo pericoloso vicino e abbandonò frettolosamente il posto, slanciandosi, con un salto immenso, su un albero vicino e quindi nel fitto delle macchie.
— Non lasciamoci sfuggire almeno il secondo, — mormorò il marinaio che non aveva prevista quella rapida fuga.
Soffiò una cerbottana e la sua freccia infallibile andò a piantarsi nel fianco del pardino e così delicatamente che questi parve non se ne fosse nemmeno accorto, poichè continuò ad arrampicarsi dolcemente sul tronco, tenendosi celato fra i festoni di liane.
Già si trovava a qualche metro dal ramo occupato dagli ani i quali non si erano per anco accorti del pericolo che li minacciava e si preparava a spiccare il salto, quando piombò improvvisamente a terra.
— Il mio vulrali è di prima qualità, — disse Diaz, ridendo.
Raccolsero il gatto e tornarono nella canoa, contando di arrostirlo su una isoletta che sorgeva a due o trecento metri dalla spiaggia e dove almeno non correvano alcun pericolo di venire disturbati.
Attraversarono rapidamente quel braccio d’acqua che li separava da quella piccola terra e tirarono la canoa sulla riva.
— Prendete una pentola, — disse il marinaio. — Lo metteremo in stufato.
— Sarà almeno buono? — chiese Alvaro. — Non ho mai avuta alcuna fiducia nella carne dei gatti.
— Tutti gl’indiani li mangiano: d’altronde non abbiamo di meglio e..... —
Si era interrotto guardando con una certa inquietudine fra le piante che coprivano l’isoletta.
— Che cosa avete? — chiese Alvaro, vedendolo cacciare rapidamente una freccia nella gravatana.
— Vedo la punta d’una capanna, — rispose il marinaio.
— Che sia abitato quest’isolotto.
— Vi dovrebbe essere allora qualche piroga ed io non ne ho veduta alcuna.
Armate il fucile e andiamo a vedere. —
Si aprirono il passo fra le piante che ingombravano l’isolotto e giunsero ben presto presso una tettoia formata da pochi bastoni incrociati alla meglio e coperta da uno strato di foglie di banano.
— Non vedo nessuno, — disse il marinaio.
Si avanzò tenendo la gravatana all’altezza del mento per essere più pronto a soffiarvi dentro e si cacciò sotto la tettoia.
Non vi era alcuno, ma il suo proprietario non doveva averla lasciata da molto tempo, perchè in un canto, fra due sassi, si vedeva una pentola che conteneva ancora dei tuberi quasi freschi e delle cuie, ossia dei vasi formati con zucche, che sembravano pulite di recente.
Sospesa ad una traversa vi era un’amaca di grosso filo di cotone a varie tinte che serviva da letto, poi dei vasi di terra porosa per depurare l’acqua ed altri oggetti dei quali Alvaro ignorava l’uso.
— Prendiamone possesso, — disse il marinaio che pareva lietissimo di quella scoperta.
— Dove sarà andato il suo proprietario? — chiese Alvaro.
— Si sarà recato a cacciare sulla riva.
— Chi può essere?
— Un Tupinambo, ne sono certo.
Solo le indiane di quella tribù sono capaci di filare queste belle e comode amache.
— Uno dei vostri amici?
— Almeno lo suppongo.
— Che si sia rifugiato qui per sfuggire all’invasione degli Eimuri?
— Può darsi, signore. Se l’abitatore di questa bicocca è veramente un Tupinambo possiamo essere ben lieti. Egli ci servirà di guida per giungere al villaggio dei Tupy ed aiutarci validamente.
Ecco là della legna secca ed ecco qui il fornello. Prepariamoci la colazione e uniamo al gatto questi tuberi che sono eccellenti a mangiarsi. —
Accesero il fuoco e misero la pentola a bollire. Il gatto, già scorticato e ben pulito fu fatto a pezzi e gettato dentro.
— Toh! — esclamò il marinaio che frugava le cuie che erano numerose e coperte da foglie. — L’indiano si divertiva.
— Che cosa avete scoperto?
— Una cuia colma di paricà!
— Che cos’è?
— Una polvere assai inebbriante che gl’indiani estraggono dal seme d’una pianta leguminosa, l’inga, e che aspirano attraverso due penne d’avvoltoio.
— Ed a che cosa serve quella polvere?
— Fa diventare allegri come il buon vino. —
Ad un tratto mandò un grido di trionfo:
— Del tabacco! Era un bel pezzo che non ne fumavo!
— Del tabacco! — esclamò Alvaro che non capiva nulla.
— Ah! Già, mi scordavo che in Europa non si sa ancora che cosa sia.
Mandiamo giù la colazione poi faremo una pipata, giacchè vedo che il proprietario di questa tettoia ha una collezione di pipe. — Diaz, senza preoccupazione, si avvicinò ad un gruppo di cadaveri.... (Cap. XXVI).