Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
268 | Capitolo Ventisettesimo. |
conviene forse meglio ai piccini. Eccovi sbarazzato da quei pericolosi ospiti.
Lindiano mise sulle punture fatte un pizzico di paricà, poi disse al marinaio:
— Andiamo.
— Che siamo inseguiti? — chiese Diaz.
— Rospo Enfiato non ha ancora udito alcun rumore sospetto, ma è meglio allontanarsi presto dal fiume.
— Quando giungeremo all’aldèe dei Tupy?
— Questa sera, se cammineremo bene. —
Si orientò col sole, poi si mise in cammino, seguendo un sentiero che pareva fosse stato aperto da qualche grosso animale a giudicarlo dal gran numero di cespugli calpestati.
— La strada d’un anta (tapiro) — disse il marinaio ad Alvaro.
— D’uno di quegli animali che somigliano un po’ ai porci e che hanno una specie di tromba mobile all’estremità del muso? — chiese il portoghese.
— Sì, signor Viana e questo sentiero indica che noi siamo presso a qualche palude. Quegli animali non possono vivere senza l’acqua nutrendosi delle radici delle piante palustri.
— E perchè aprono questi sentieri che sembrano fatti dalla mano dell’uomo?
— Perchè hanno l’abitudine di percorrere sempre la medesima via che mette dal loro rifugio alla palude. Così a poco a poco aprono delle vere stradicciuole anche in mezzo alle più folte foreste.
— Uhao! — esclamò in quel momento Rospo Enfiato, fermandosi di colpo.
— Cos’hai? — chiese Diaz facendosi innanzi.
— Tupy passati per di qua, — rispose il selvaggio. — Correvano.
In quel luogo si vedevano cespugli strappati, felci arborescenti rovesciate, liane spezzate, orchidee calpestate come se un torrente umano fosse passato attraverso la foresta a guisa di un uragano.
Sul suolo umido della foresta si vedevano numerose orme di piedi nudi, mentre sui tronchi degli alberi si scorgevano delle frecce infisse nelle cortecce.
L’indiano ne prese una e la guardò attentamente.
— Freccia dei Tupy, — disse.
— Come la riconosci? — chiese Diaz.
— Dalla punta uncinata.