L'Uomo di fuoco/28. L'aldèe dei tupy
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CAPITOLO XXVIII.
L’aldèe dei Tupy.
Alla sera, dopo una marcia lunghissima attraverso foreste quasi vergini, i due europei e l’indiano giungevano sulle rive d’un altro stagno amplissimo, un’altra savana sommersa che non aveva però le dimensioni di quella che avevano attraversata due giorni prima e sulle cui isole avevano soggiornato tanto tempo.
Agli ultimi raggi del sole morente avevano già scorto, sulla riva opposta, delle immense costruzioni circondate da palizzate altissime che formavano dei bastioni tutt’altro che facili da espugnarsi, anche da parte d’un nemico numerosissimo.
Quasi tutti gl’indiani del Brasile, che vivevano in perpetua guerra onde procurarsi dei prigionieri da divorare, costruivano i loro villaggi in modo da rendere impossibile una sorpresa da parte dei loro nemici.
A differenza dei negri dell’Africa, non usavano rizzare delle capanne appena sufficienti per una famiglia, bensì delle case immense, costruite con tronchi d’alberi, che chiamavano carbet, lunghe oltre cento metri, larghe cinque e alte quasi altrettanto, coperte con foglie di bananeire e con tre porte di cui una metteva sulla piazza destinata al macello dei prigionieri di guerra.
Ognuna di quelle abitazioni serviva ordinatamente d’asilo a venti famiglie, ma non avevano alcuna divisione che separasse una famiglia dall’altra, sicchè vivevano in comune.
Ogni villaggio poi, piccolo o grosso che fosse, come dicemmo aveva la sua cinta formata da una doppia palizzata sulla quale venivano esposte le teste dei nemici divorate, prive del cervello ed immerse nell’olio vegetale dell’andiroba, onde si conservassero lungamente.
In quelle aldèe non vi restavano più di cinque o sei anni, ossia fino a quando avevano sfruttati gli alberi ed il terreno, poi col fuoco distruggevano cinte e abitazioni e andavano a fondare in altre località più ricche di frutta e di selvaggina un nuovo villaggio.
L’aldèe dei Tupy scoperta da Rospo Enfiato, doveva essere una delle più importanti della tribù, a giudicarla dallo spazio racchiuso dalla doppia cinta e dal numero considerevole di abitazioni che sorgevano nel suo interno.
— È là che risiede il gran capo dei Tupy, — disse l’indiano. — È una vera fortezza che i guerrieri della mia tribù non hanno mai osato assalire.
— E noi? — chiese Diaz.
— Noi?... Tre uomini possono passare là dove centinaia e centinaia di guerrieri non riuscirebbero ad aprirsi un passaggio, anche usando la forza.
— Ma noi non sappiamo dove i Tupy custodiscono mio figlio, il piccolo pyaie, — disse il marinaio. — Conosci tu la disposizione interna dell’aldèe?
— No.
— Hai qualche piano nel tuo cervello?
— Sì.
— Parla dunque.
— Abbiamo bisogno d’un prigioniero.
— Per interrogarlo?
— E perchè ci guidi al carbet dei prigionieri destinati ai banchetti dei guerrieri.
— Dove prenderlo?
— Tutte le mattine i ragazzi e le donne delle tribù lasciano l’aldèe per recarsi a prendere acqua. Cerchiamo lo stagno od il ruscello che alimenta la popolazione del villaggio. Non sarà difficile trovarlo.
— Ed il primo che giunge noi lo assaliamo.
— Il gran pyaie bianco sa leggere i miei pensieri, — disse Rospo Enfiato.
— Cerchiamo dunque lo stagno od il ruscello ed un posto adatto per imboscarci.
— I pyaie bianchi mi seguano. —
L’indiano, guidato dal suo istinto meraviglioso, rientrò nella foresta volgendo le spalle all’aldèe dei Tupy, e mettendosi in cerca della fonte e del ruscello, poichè i brasiliani hanno l’abitudine di innalzare i loro villaggi in prossimità d’una palude o d’un corso d’acqua.
Vagò attraverso la foresta per qualche ora, soffermandosi di quando in quando per osservare il terreno, fino a che giunse sulle I tre uomini, preceduti dal ragazzo avanzavano lentamente.... (Cap. XXVIII). rive d’uno stagno quasi circolare che si trovava dalla parte opposta dell’aldèe.
Essendo circondato da macchioni e da mazzi immensi di bambù che raggiungevano delle altezze inverosimili era facile a nascondersi.
— Che sia questo che provvede l’acqua ai Tupy? — chiese il marinaio.
— Sì, — rispose l’indiano. — Vedo sul suolo numerose impronte di piedi umani.
— Accampiamoci qui dunque e aspettiamo che la notte passi, — disse il marinaio.
Non osando accendere il fuoco per paura che i Tupy si accorgessero della loro presenza, si accontentarono per cena di alcune maraninga, quelle frutta squisite che somigliavano a delle uova, poi si cacciarono in mezzo ai bambù, sdraiandosi su uno strato di foglie di jupati recise dall’indiano. Rassicurati dal silenzio che regnava nella foresta e certi d’altronde di non correre alcun pericolo, non tardarono ad addormentarsi.
D’altronde Alvaro ed il marinaio potevano fidarsi interamente dell’acutezza dei sensi dell’indiano. Quell’uomo, anche dormendo, non si sarebbe lasciato sorprendere e si sarebbe subito accorto dell’avvicinarsi d’un nemico.
Il loro sonno non fu interrotto che da qualche urlo dei guarà, ronzanti intorno all’aldèe dei Tupy. Nè giaguari nè coguari, che pur allora erano numerosissimi e così audaci da slanciarsi perfino al di sopra delle palizzate e di entrare nei carbet per rapire i fanciulli degl’indiani, si fecero udire. Si erano appena svegliati, quando udirono in lontananza, in direzione dell’aldèe, una voce che canticchiava e a poco a poco diventava sempre più distinta.
Rospo Enfiato si era rizzato, colla gravatana in mano, dicendo al marinaio:
— Vengono a far acqua.
— Ed è la voce d’un fanciullo, — rispose Diaz che ascoltava attentamente.
— E non Tupy, — disse l’indiano che si era lasciato sfuggire un gesto di stupore. — È una canzone dei Tupinambi.
«Teniamo l’uccello pel collo e se tu fossi un tucano venuto a beccare nelle nostre campagne saresti volato via.» È così che cantano i nostri guerrieri quando legano i prigionieri destinati a essere macellati.
L’odi gran pyaie bianco?
— E aggiungerei che io ho ancora udita questa voce, — disse il marinaio il cui stupore non era meno profondo di quello dell’indiano. — Sì è la voce di Japy, non posso ingannarmi.
— Il fanciullo che noi ti avevamo affidato perchè lo istruissi nei misteri dei pyaie, è vero? — chiese Rospo Enfiato.
— E che gli Eimuri m’avevano rapito. —
Alvaro non comprendeva ciò che il marinaio e l’indiano si dicevano, ma anch’egli era convinto di aver udito altre volte quella voce ed il suo pensiero correva al fanciullo che gli aveva servito d’interprete quand’era pyaie degli Eimuri.
Il canto era cessato, ma si udivano a breve distanza le foglie secche a scrosciare e le larghe foglie delle piante basse a sussurrare.
Colui che veniva pel primo a far la provvista d’acqua doveva essere ormai vicinissimo.
Rospo Enfiato si era raccolto su se stesso come una tigre, pronto a slanciarsi.
Un ragazzo era comparso portando sul capo uno di quei vasi di terra porosa di cui si servivano gl’indiani per filtrare l’acqua.
Rospo Enfiato stava per percuoterlo colla gravatana onde stordirlo, quando Alvaro e Diaz si gettarono fra lui ed il ragazzo.
— L’interprete del capo degli Eimuri! — aveva esclamato il primo.
— Japy! — aveva gridato il secondo.
Il giovane indiano era rimasto muto, guardando ora l’uno ed ora l’altro, poi si era precipitato verso Diaz, esclamando:
— Il padrone! Il pyaie degli Eimuri! Ah! Come sono felice di rivedervi ancora vivi!
— Sei solo? — chiese Diaz.
— Precedo le donne che vengono a fare la provvista d’acqua. Fuggite o verrete scoperti.
— Seguici! —
Il ragazzo gettò il vaso nello stagno e si mise dietro ai tre uomini che fuggivano a tutte gambe attraverso la foresta.
Non si arrestarono che un chilometro più lontano, in mezzo ad un gruppo di bananeire le cui immense foglie erano più che sufficienti per nasconderli.
— Parla, Japy, — disse il marinaio quand’ebbe ripreso fiato. — È nell’aldèe dei Tupy il fanciullo bianco?
— Sì, — rispose il giovane. — L’hanno condotto prigioniero due giorni or sono, prima della seconda battaglia data agli Eimuri.
— Temevo che lo avessero divorato.
— No, ma stanno ingrassandolo.
— L’hai avvicinato? — chiese Alvaro che era in preda ad una viva emozione.
— Non è permesso a nessuno di entrare nel carbet che gli fu assegnato.
— L’hai almeno veduto?
— Sì, ieri sera, mi parve rassegnato alla sua triste sorte.
— Noi siamo venuti qui per salvarlo, — disse Diaz. — Credi possibile sottrarlo senza che i Tupy se ne accorgano?
— I Tupy sono numerosi e vegliano, — rispose Japy.
— Tu puoi aiutarci. Perchè ti hanno risparmiato pur sapendoti un Tupinambi?
— Un capo mi ha adottato, avendo saputo che io era ai servigi del gran pyaie bianco.
— Godi dunque d’una certa libertà.
— Sì, padrone.
— Puoi lasciare il tuo carbet di notte?
— È possibile farlo.
— Saresti capace di aprire una porta della palizzata?
— Basta levare le traverse interne, operazione che può compiere anche un bambino, — rispose Japy.
— Quanti indiani vegliano attorno al carbet del prigioniero?
— Una dozzina.
— Dormono alla notte? — chiese Alvaro.
— Sì, attorno al fuoco che brucia dinanzi la porta del carbet, — rispose Japy.
— Avresti il coraggio questa sera, prima che la luna sorga, di aprirci una porta e di guidarci fino al carbet? Non preoccuparti del resto. Sapremo noi entrare nella capanna ed involare il ragazzo.
— Sono un Tupinambi e non già un Tupy, — rispose il ragazzo con fierezza — e tu sei il mio padrone.
Io farò tutto ciò che vorrai gran pyaie, purchè mi riconduci nella mia tribù.
— Qual è la porta più prossima al carbet del prigioniero?
— Quella che guarda verso il sole che tramonta.
— Noi vi saremo, — disse il marinaio. — Quando udrai il sibilo del cobra cipo (serpe liana) tu l’aprirai e noi entreremo nell'aldèe.
— Puoi accostare Garcia ed avvertirlo di tenersi pronto? — chiese Alvaro.
— Glielo griderò passando dinanzi al carbet. I Tupy non conoscono la lingua degli uomini bianchi ed il piccolo pyaie mi comprenderà.
— Va, onde le donne non si impressionino della tua scomparsa, — disse il marinaio, — e facciano sorgere dei sospetti nei Tupy.
— Quando l’astro rosso tramonta, — disse il ragazzo, — io sarò al mio posto e aspetterò il segnale. —
E partì rapido come una freccia, scomparendo in mezzo alle piante.
— Sperate? — chiese Alvaro guardando il marinaio la cui fronte si era oscurata.
— O lo salveremo o ci divoreranno tutti, — rispose Diaz. — Ah! Se potessi avvertire i Tupinambi! Ma sono troppo lontani e giungerebbero forse troppo tardi. —
Rospo Enfiato che non sapeva una parola di spagnolo nè di portoghese, e che perciò nulla aveva potuto comprendere, fu informato dell’esito di quel colloquio e parve soddisfatto dell’audace progetto.
— A questa sera, — disse. — Domani i Tupy o saranno malcontenti o troppo contenti. —
Scrollò le spalle e si mise in cerca della colazione, frugando le macchie vicine colla speranza di poter sorprendere qualche coati o qualche tatù. Pareva che non si preoccupasse troppo del pericolo a cui stava per esporsi, di venire preso e cioè mangiato dai nemici secolari della sua tribù.
La giornata trascorse in continue ansie per Alvaro e per Diaz. Quantunque fossero ben decisi a tentare qualunque sforzo e ad affrontare qualsiasi pericolo, pur di strappare quel bravo ragazzo alla graticola, si sentivano tremare l’anima al pensiero di dover servire da pasto a quegli abominevoli antropofagi, nel caso, molto probabile, d’un insuccesso.
A sfidare la morte erano abituati ormai, ma finire divorati ed avere per tomba lo stomaco di quei selvaggi ferocissimi, produceva su entrambi una impressione che non riuscivano a vincere.
Alla sera Rospo Enfiato, che durante quelle dodici ore non aveva mai smentito un solo istante il suo sangue freddo, unicamente preoccupato a procacciarsi da mangiare, fece cenno ai due bianchi di seguirlo.
Si trovavano verso il lato meridionale del villaggio, mentre dovevano raggiungere la porta che guardava verso il sole che tramonta, ossia verso ponente.
L’indiano con un lungo giro li condusse verso l’altro lato dell’aldèe, marciando sempre attraverso la foresta, e verso la mezzanotte raggiungeva il margine della pianura su cui sorgeva il grosso villaggio dei Tupy.
Asciugò ad una ad una le sue frecce intinte nel succo mortale del vulrali, per essere più sicuro della loro pronta efficacia, ne cacciò una nella gravatana, poi disse con voce sempre tranquilla:
— Andiamo: Rospo Enfiato è pronto. —
La notte era tenebrosa essendo il cielo coperto di nubi. Solo le vaga lume e le perilampo rompevano, coi loro lampi, la profonda oscurità che regnava nelle foreste e sulla pianura.
Fra le alte erbe ed in mezzo ai cespugli, le parraneca, le sapos de minas ed altri batraci muggivano, fischiavano e si gargarizzavano con frastuono indemoniato, coprendo tutti gli altri rumori.
I tre uomini s’avanzavano cautamente, tenendo gli sguardi fissi sulle palizzate del villaggio che si delineavano vagamente fra l’oscurità.
L’indiano di quando in quando si fermava, alzandosi quanto più poteva per esplorare i dintorni, poi riprendeva la marcia strisciando come un serpente.
Un quarto d’ora dopo il minuscolo drappello, senza essere stato scoperto, giungeva sotto la palizzata.
Pareva che nell’aldèe dei Tupy tutti dormissero non udendosi alcun rumore e che perfino il fuoco che ardeva dinanzi al carbet dei prigionieri si fosse spento.
Seguirono la cinta procedendo carponi, finchè giunsero dinanzi alla porta dietro la quale doveva trovarsi il giovane Japy.
— Che ci sia? — chiese Alvaro sottovoce al marinaio.
— Conosco quel ragazzo da parecchi anni e so quanto vale, — rispose Diaz.
Strappò un filo d’erba, se lo mise fra le labbra e imitò il sibilo del serpente liana, così bene che Rospo Enfiato si guardò d’intorno credendo di aver realmente vicino uno di quei pericolosissimi rettili.
Un sibilo eguale rispose poco dopo dietro la palizzata, quindi si udirono dei crepitìi ed una larga tavola fu alzata lasciando un varco appena sufficiente a lasciar passare un uomo.
Rospo Enfiato, colla gravatana appoggiata alle labbra entrò pel primo, seguito da Alvaro che teneva il dito sul grilletto dell’archibugio e quindi dal marinaio.
Japy era sorto dall’ombra facendosi innanzi. Un rapido scambio di parole s’impegnò fra Diaz ed il ragazzo.
— Si sono accorti di nulla?
— No.
— Dormono tutti?
— Tutti.
— Anche i guerrieri che vegliano sul carbet di Garcia?
— Hanno lasciato spegnere il fuoco.
— Lo sa Garcia che noi siamo qui?
— Ho potuto avvertirlo.
— Benissimo: avanti, — disse il marinaio.
A destra ed a sinistra della porta s’alzavano delle enormi abitazioni rettangolari le quali proiettavano un’ombra fittissima.
I tre uomini, preceduti dal ragazzo, col cuore trepidante, la fronte bagnata di sudore, s’avanzavano lentamente, sulle punte dei piedi, tenendosi contro le pareti dei carbet.
Attraverso le cinte d’altronde mal connesse e difese da semplici stuoie di foglie di palmizi, si udivano gli abitanti a russare.
Avevano già oltrepassati quattro o cinque carbet e stavano per giungere sulla piazza sulla quale si macellavano e si arrostivano i prigionieri, quando Japy si arrestò serrandosi contro una parete e rannicchiandosi su se stesso.
— Che cosa c’è? — chiese Diaz che lo aveva raggiunto.
— Mi è sembrato d’aver veduta un’ombra umana svoltare l’angolo del carbet che ci sta di fronte.
— Carracho! Che tu sii stato seguito?
— Eppure quando io ho lasciato il mio carbet tutte le famiglie dormivano.
— Hai lasciata aperta la porta della cinta?
— Sì, padrone.
Stettero parecchi minuti rannicchiati addosso alla parete, ascoltando attentamente e guardando in tutte le direzioni, poi si alzarono.
— Devi esserti ingannato, — disse il marinaio.
Interrogò Rospo Enfiato che pareva ascoltasse ancora.
— Hai veduto nulla? — gli chiese.
— No, — rispose l’indiano, — ma Rospo Enfiato ha udito.
— Che cosa?
— La sabbia dell’aldèe a stridere.
— Io nulla ho udito.
— L’indiano delle foreste percepisce i menomi rumori, — rispose il Rospo. — Anche il serpente che striscia non sfugge ai suoi orecchi.
— Che cosa fare?
— Non siamo qui venuti per passeggiare, — disse l’indiano. — La mia gravatana ha la sua freccia avvelenata e volerà silenziosamente verso il Tupy che ci spia.
Con un gesto imperioso fece cenno al marinaio di non muoversi e si allontanò senza produrre il menomo rumore.
Attraversò lo spazio che separava i due carbet poi scomparve dietro un angolo.
Passarono alcuni istanti d’angosciosa attesa, poi un grido rauco e selvaggio ruppe improvvisamente il profondo silenzio che regnava nell’aldèe dei Tupy.
Un uomo, un indiano, si era slanciato verso la piazza, tenendosi ambo le mani strette alla gola. Fu veduto barcollare poi stramazzare pesantemente al suolo, mentre dai carbet uscivano vociferando spaventosamente i guerrieri del villaggio.
— Fuggiamo! — gridò il marinaio.
Rospo Enfiato tornava verso di loro correndo come un cervo. Dei Tupy lo inseguivano agitando le mazze.
— L’ho colpito troppo basso, — ebbe appena il tempo di dire a Diaz.
Si erano slanciati tutti tre attraverso i carbet, preceduti dal ragazzo, ma i Tupy accorrevano da tutte le parti, dalla piazza e dalle capanne che s’appoggiavano alla cinta.
— Signor Viana, fate fuoco o siamo perduti! — gridò Diaz.
Sì, un colpo di archibugio solo poteva arrestare l’orda che stava per piombare su di loro e opprimerli.
Alvaro si volse e fece fuoco in mezzo ai Tupy che irrompevano dalla piazza.
Vedendo quel lampo e udendo quel rombo, i selvaggi si erano arrestati, poi presi da un improvviso terrore si erano dispersi urlando spaventosamente.
Disgraziatamente i guerrieri che venivano dalla parte della cinta e che avevano udito solamente quel tuono senza aver veduto chi lo aveva prodotto, nella loro corsa disordinata si erano gettati fra Rospo Enfiato, Diaz e Japy tagliando fuori Alvaro il quale si era trovato chiuso fra i fuggenti.
Accortosi del pericolo che correva di venire preso e fors’anche ucciso da qualche colpo di mazza e vista l’impossibilità di raggiungere ormai i suoi compagni, si gettò istintivamente verso la piazza, spinto dalla speranza di attraversare l’aldèe e di poter giungere a qualche altra porta.
Approfittando dello spavento e della confusione che regnava fra i Tupy e anche delle tenebre, potè infatti giungere sulla piazza in mezzo alla quale sorgeva il carbet dei prigionieri, ma colà, con suo terrore s’accorse che il passo gli veniva chiuso dai guerrieri che venivano dalla cinta opposta.
Per un momento ebbe l’idea di afferrare il fucile per la canna e di scagliarsi a corpo perduto fra le file degl’indiani. Comprese però subito che sarebbe stata una follia impegnare la lotta contro quegli uomini che sapevano servirsi così abilmente delle loro terribili mazze.
— Sono preso, — mormorò con angoscia.
Era presso il carbet dei prigionieri e le sentinelle che guardavano la porta, chiusa da una semplice stuoia, erano fuggite.
Un lampo gli attraversò il cervello.
— Garcia è qui, — disse.
Si gettò dentro il fabbricato procedendo a tentoni, tanta era l’oscurità che regnava nella immensa capanna.
— Garcia! Garcia! — gridò.
Un’ombra si era alzata in un canto e brancolava nel buio.
— Chi mi chiama? — chiese una voce.
— Sei tu, Garcia?
— Il signor Alvaro! — esclamò il mozzo.
— Silenzio... tutto è perduto... siamo stati sorpresi...
— Ed il marinaio? — chiese il ragazzo con voce strozzata.
— Non so... fuggito... forse morto o preso vivo... lascia che carichi l’archibugio. Maledizione! Il cuore me lo diceva che tutto sarebbe finito male. —
Al di fuori i selvaggi continuavano ad urlare spaventosamente.
Turbe di uomini, muniti di rami accesi, correvano in tutte le direzioni agitando le mazze e cacciandosi nelle stradicciuole che separavano i carbet.
Parevano furiosi di non trovare i nemici che li avevano così audacemente sorpresi.
Anche in lontananza si udivano a echeggiare delle urla che diventavano rapidamente fioche.
— Che Diaz e Rospo Enfiato siano riusciti a fuggire? — si chiede Alvaro che ascoltava con angoscia quelle grida.
Aveva caricato il fucile e si era collocato dietro la porta, risoluto a vendere cara la vita ed a fucilare quanti Tupy avessero osato inoltrarsi.
Garcia che non era legato, non avendo i brasiliani l’abitudine di tenere i loro prigionieri immobilizzati nei carbet a loro destinati, si era messo dietro di lui armato d’un bastone che aveva trovato in un angolo della prigione, pronto per aiutarlo.
I Tupy si erano forse accorti che il terribile Uomo di fuoco si era riparato nel carbet del prigioniero, ma non osavano avanzarsi per impadronirsene.
Certo, la fama di quel Caramurà che era possessore del fuoco celeste, era giunta fino ai loro orecchi e si sentivano venir meno il coraggio di affrontarlo.
Si vedevano ronzare per la vasta piazza, a gruppi, chiacchierando sommessamente fra di loro e facendo gesti minacciosi colle loro mazze, senza osare fare un passo innanzi.
— Si sono accorti che io sono qui, — disse Alvaro.
— E hanno paura, signore, — disse Garcia. — Il ragazzo indiano deve aver raccontato a quei Tupy che voi avete rapito il fuoco celeste e che uccidete meglio delle loro frecce.
— Durerà a lungo la loro paura?
— Avete molte munizioni?
— Almeno cinquecento colpi.
— Tanto da poter sostenere un lungo assedio.
— È solida la capanna?
— È formata di grossi tronchi d’albero, signore.
— Si può salire sul tetto?
— Ho veduto delle pertiche in un angolo e vi è lassù un buco che serve a dar luce alla prigione.
— Se potessimo barricare la porta?
— Vi sono qui dei vasi enormi destinati forse a cuocere i prigionieri e che potrebbero servirci.
— Prendi il fucile e appena vedi qualcuno avvicinarsi fa fuoco. Io vado a cercarli.
— In quell’angolo oscuro, signor Alvaro. Ve ne sono almeno dodici e tutti di dimensioni straordinarie.
Chissà quanti poveri diavoli sono stati cucinati là dentro. —
Alvaro si diresse verso l’angolo indicato da Garcia e alla luce proiettata dalle torcie dei selvaggi e che filtrava fra le fessure delle pareti, scorse infatti una diecina di vasi di terra, alti un metro e mezzo e così vasti da poter contenere due uomini interi.
— Le pentole degli antropofagi, — mormorò, facendo una smorfia. — Canaglie! E forse noi dovremo finire qui dentro e cuocere come polli o come quarti di vitello. —
Trascinò, con non lievi sforzi, un vaso che appoggiò contro la porta, poi uno ad uno tutti gli altri, formando in tal modo una doppia barricata che non era facile a sfondarsi, dato il peso considerevole e lo spessore enorme di quelle pentole.
I selvaggi avevano lasciato fare, tenuti in rispetto dalla canna dell’archibugio che il mozzo di quando in quando mostrava al di sopra dei vasi.
— Ora cerchiamo di salire sul tetto, — disse Alvaro. — Da lassù potremo meglio osservare le mosse degli assedianti e sparare con maggior successo.
— Signore, badate alle frecce! Anche i Tupy conoscono il vulrali.
— Ci guarderemo, — rispose Alvaro. — E poi la piazza è vasta e le gravatane hanno una portata limitata, mentre il mio archibugio può abbattere un uomo alla distanza di cinquecento metri.
Frugando negli angoli della immensa capanna riuscirono ben presto a trovare parecchie grosse pertiche che avevano alla distanza d’un piede delle profonde tacche.
— Che siano queste le scale dei brasiliani? — si chiese Alvaro.
— Lo siano o no, possono servire per scalare il tetto. —
Nel centro del carbet s’apriva un foro circolare che dava luce all’abitazione.
Appoggiarono due pertiche ai margini e raggiunsero senza fatica il tetto formato da robuste traverse coperte da un fitto strato di bananeira.
I selvaggi non avevano lasciata la piazza. Anzi avevano formato un immenso circolo attorno al carbet pur tenendosi ad una notevole distanza ed avevano accesi qua e là dei fuochi per meglio sorvegliare gli assediati.
— Ve ne sono almeno duecento, — disse Alvaro, — senza contare quelli che si sono slanciati dietro Diaz e Rospo Enfiato. Se potessimo resistere fino all’arrivo dei Tupinambi! —
— Che quei selvaggi vengano in nostro soccorso, signore? — chiese il mozzo.
— Non ne dubito, purchè Diaz ed il Rospo riescano a sfuggire all’inseguimento. No, il marinaio non ci lascerà divorare da questi antropofagi e lo vedremo tornare alla testa dei Tupinambi.
— Ah! Se potessimo avere anche il tuo fucile!
— Mi hanno detto che si trova nella capanna dei pyaie della tribù.
— Chi te lo disse?
— Il ragazzo indiano.
— Come sei caduto nelle zampe di questi furfanti? Se tu mi avessi subito seguito non ti troveresti in questa brutta situazione e nemmeno io.
— Avevo ben cercato di fuggire anch’io verso la savana, signor Alvaro, — rispose Garcia, — quando mi vidi piombare addosso i fuggiaschi.
Feci fuoco sperando di arrestarli e mancai, per mia disgrazia, il colpo.
Un indiano gigantesco mi prese fra le braccia e mi portò via correndo all’impazzata, poi fui chiuso in una rete e trasportato nella foresta.
Gli Eimuri ci inseguivano con accanimento cercando di fare dei prigionieri per poi divorarli.
I Tupy si credevano ormai perduti, quando un’orda dei loro compatrioti, gli abitanti di questo villaggio, piombarono sui vincitori facendo una strage orrenda.
Credo che nessuno Eimuro sia sfuggito al massacro.
— Abbiamo veduto i loro cadaveri, — disse Alvaro. — E poi?
— Mi cacciarono in questa capanna facendomi comprendere che mi avrebbero divorato.
— Ti trattavano male?
— Anzi, signore. Mi mandavano perfino delle fanciulle per farmi danzare e mi rimpinzavano di cibi scelti.
— Premeva a loro che t’ingrassassi presto.
— E quando era pieno da soffocare ricorrevano alla violenza per farmi trangugiare radici dolci. Non so come le mie budelle non siano scoppiate.
— Povero Garcia, — disse Alvaro che non potè trattenere un sorriso. — Ti trattavano come un’oca di Strasburgo! Non mi pare però che tu abbia fatto notevoli progressi.
— Se avessi continuato qualche mese sarei diventato una botte, signore.
— Ah!
— Che cosa avete signore?
— E come stiamo di viveri?
— Ci sarà ancora qualche tubero avanzato dalla cena o qualche galletta di mandioca.
— Ben poca cosa, — disse Alvaro che era diventato pensieroso. — Come potremo resistere fino all’arrivo dei Tupinambi con qualche galletta?
— Vi sono invece parecchi vasi porosi che filtrano acqua nelle catinelle.
— Bah! Non disperiamo, — disse Alvaro. — Ne faremo a meno. —