L'Asino e il Caronte/Il Caronte/Scena VI
Questo testo è completo. |
Traduzione dal latino di Marcello Campodonico (1918)
◄ | Il Caronte - Scena V | Il Caronte - Scena VII | ► |
Scena VI.
Minosse, Eaco; poi Mercurio e Caronte.
Eaco. — Che bella cosa un po’ di silenzio, dopo tanto fracasso infernale!... rotto solamente dal vario concento di questi uccelli, che ci toglieva ogni volontà fuor che di ascoltare!
Min. — Una giornata come questa, così bella, lieta e riposata, presso i miei Cretesi si sarebbe segnata con la pietruzza bianca: io me ne sento tutto ristorato.
Eaco. — ... Ma mi sembra di udir la voce e i passi di Mercurio... Sì sì; eccoli, per Plutone! Son lì dietro quella siepe di ginepro.
Min. — La venuta di Mercurio poi compie la nostra gioia: ci porterà tante notizie! Ma come mai oggi cammina così lento?
Eaco. — Lo fa per non lasciare indietro Caronte, che è lento nel camminare, come lo sono generalmente i barcaioli.
Min. — Eh già! esercitano più le braccia che i piedi... Ben arrivato, sapientissimo Iddio, messaggero celeste, tanto desiderato da me e da questo mio collega, quanto non sapremmo dire!
Eaco. — Grande è il piacere che ci arreca la tua venuta, ma più grande sarà quando ti sentiremo parlare.
Merc. — Sono lieto che la mia venuta vi faccia tanto piacere; e quanto a quel maggior piacere che v’aspettate da ciò ch’io possa dirvi, sta a voi domandarmi, se così vi piace; ed io vi risponderò perchè so che le vostre domande non possono essere che giuste ed eque. Vi parlerò anche volentieri, perchè mi fa piacere vedermi trattato da voi come un dio saggio e benefico... Gli uomini invece... che triste concetto si son fatti di me!... Si direbbe che m’han foggiato a loro simiglianza! Essi m’han fatto protettore del furto e degli inganni mercantili e delle fallacie di parole, come fossi anch’io un prestigiatore e un ciarlatano! Ma già, gli uomini volentieri buttano addosso agli dei la colpa dei loro peccati... Io, come gli altri dei, non ho cura di cosa che non sia onesta; anzi chiudiamo le orecchie anche alle oneste preghiere, se si rivolgono ad un fine che onesto non sia.
Quanto poi al fatto che tu, chiamandomi Dio, m’hai salutato come sapientissimo, si vede che tu seguiti anche qui l’abitudine di venerazione e di culto che avevi verso di me quando vivevi sulla terra; però sappi che io sono Dio, ossia uno del numero dei Celesti, quando sto in cielo o sulla terra. Ma quando son qui presso gl’Inferni, il mio ufficio è di araldo o di littore, e non di Dio. Sapientissimo poi non dovresti dire nè me nè alcun altro degli Dei... perchè un Dio non può errare, nè ingannarsi, nè ignorare cosa alcuna. Sono gli uomini, offuscati nella mente da tanta caligine d’ignoranza, che hanno inventato questo nome di «sapiente» per distinguere dalla moltitudine ignorante e stolta colui che qualche cosa sapesse. Ma tu sai che il più saggio fra essi dichiarava di saper solo «che non sapeva»; sicchè vero sapiente fra gli uomini non s’è trovato nessuno.
Io vengo dunque a voi, non come Dio, ma come littore ed araldo; e come tale sono pronto ai vostri comandi.
Min. — Noi ti venerammo come Dio e ti chiamammo sapientissimo, non avendo titolo più onorevole da darti. Che se tu dici di far qui ufficio soltanto di littore, tu sai anche che su nel mondo i littori, in nome dei più grandi sovrani, esercitano giurisdizione sovrana. Perciò noi ti riconosciamo ogni diritto di comandarci. E noi avremo sommo interesse ad obbedirti ed ascoltarti...
Eaco. — Non contendere di eloquenza con Mercurio, o Minosse, con lui che ne fu il primo maestro. Meglio sarà dirgli subito perchè lo aspettavamo con tanto desiderio.
Merc. — A Dio sono noti tutti i pensieri e i desideri degli uomini; non avete quindi bisogno di esprimerli. D’altra parte Caronte me n’ha già parlato.1 Vi dirò dunque che l’Italia, donde ora vengo, fu sconquassata da grandi terremoti,2 sicchè molte città giacciono prostrate al suolo: parte dei torrenti mutarono strada, parte seccarono; in qualche parte si sono sprofondate alte montagne, in qualche altra, come strappate alle radici da una forza immensa, furono trasportate più lontano; e là dov’erano, rimasero grandi spaccature e maggiori paludi.
Min. — Perdona se t’interrompo, o Mercurio, per domandarti (avidi come siamo di sapere!) qualche cosa.
Merc. — Domanda pure liberamente.
Min. — Han cercato gli uomini qualche rimedio... qualche modo speciale di costruire le case, perchè in queste calamità non rovinino tutte al suolo?
Merc. — Non dovunque, e non del tutto sicuro; però tali da porgere una certa salvezza per qualche tempo. Per esempio, legano le pareti con travi assai lunghe e le incatenano: ma quanto farebbero meglio a incatenare le loro passioni e i loro desideri sfrenati! Tutti si occupano di allontanare un pericolo che li minaccia sì e no una volta ogni secolo, ma corrono volonterosi e sorridenti incontro ai pericoli e ai malanni di cui son causa le sfrenate cupidigie di ciascuno. Se dopo parecchi secoli di tranquillità del suolo, in una notte di terremoto circa venti mila persone rimangono schiacciate sotto i loro tetti, tutti ne fremono di orrore e maledicono dio e la natura — che pure li tollera! E son essi poi che con ogni mezzo cercano di suscitare guerre sopra guerre, le quali quasi ogni anno spengono migliaia e migliaia di vite, sconquassano interi regni, distruggono popolose nazioni! E ci gavazzano nel sangue!... È uno scherzo per loro! una delizia! Che cosa volete di più bello e di più onorevole che portare la testa di un nemico conficcata sull’asta?
Eaco. — Non han punto mutato in meglio, gli uomini, da quando abbiamo cessato di esserlo noi!
Merc. — In una cosa sì.
Eaco. — Quale?
Merc. — Quando voi regnavate, i mariti, le mogli adultere le ripudiavano: ora le sgozzano.
Min. — Bel progresso! Ma senza domandare a Mercurio, non sappiamo anche noi che diventano ogni giorno peggiori?
Merc. — E allora passiamo oltre. S’è vista in questi giorni anche una cometa,3 la quale — siccome essi credono che sia presagio di gravissime guerre e di sconvolgimenti di regni — ha percosso tutte le menti anche con la paura dei mali futuri. E in ciò Dio Ottimo e Massimo operò giustamente, dando loro come pena del grande affaticarsi che fanno per conoscere il futuro, non solo il tormento dei mali presenti, ma anche l’ansietà e la paura dei mali che possono accadere.
Min. — Permetti una parola, Mercurio. Perchè Dio non ha voluto che l’uomo conoscesse l’avvenire? mentre tutti sono così desiderosi di conoscerlo!
Merc. — Conoscere il futuro sarebbe stato inutile agli uomini.
Min. — Come mai, inutile! Conoscendoli prima, i mali potrebbero evitarsi o almeno diminuirsi; i beni poi si godrebbero in spe anche prima che venissero...
Merc. — Ogni questione intorno agli imperscrutabili decreti di Dio è profana, e nemmeno a noi è permesso divulgarli. Tuttavia si può umanamente ragionare così: Tutto ciò che avviene, o avviene per fortuita contingenza, oppure per fato, cioè per decreto e provvidenza divina. Nel primo caso, è da sciocchi voler conoscere con la ragione cose di cui non c’è ragione; nel secondo, ossia se le cose dipendono dal fato, quantunque nell’uomo sia insita la bramosia di conoscerle, tuttavia la natura lo ha fatto poco capace di conoscere il futuro, che eccede la comprensione dell’uomo. Poichè, sia pure che l’anima sua è divina; ma essendo essa impedita e quasi carcerata fra i legami della massa corporea, vien per ciò stesso resa meno capace di comprendere ciò in cui si manifesta la Divinità.
Di più, gli eventi possono essere o beni o mali: se sono mali, a saperli prima l’uomo non avrebbe più pace e vivrebbe disperato. E Dio, che non ha creato l’uomo perchè fosse più infelice di quello che la sua natura richiede, ha voluto nascondergli la conoscenza di un male che non potrebbe assolutamente evitare. Quanto poi ai beni, è vero che nella aspettazione la vita sarebbe più gioconda; tuttavia chi sapesse che quelli devono succedere necessariamente, diventerebbe inerte ed ignavo, e li aspetterebbe — per così dire — dormendo. Ma Dio ha creato l’uomo per l’azione, e perchè con l’azione si acquisti la virtù; e non vuole ch’egli dorma se non quanto è necessario a ristorare le forze del corpo: e perciò ha voluto dargli compagna nella vita la Miseria, e che dovesse sempre affaticarsi nell’incertezza, avendo la sola certezza del lavoro.
Voi però mi obietterete che ci sono degli avvenimenti, per così dire, «medii», che non sono di per sè nè beni nè mali. E questi, siccome appariranno sempre dubbiosi, basterà che, quando sopravvengono, l’uomo cerchi di convertirli in proprio vantaggio, o almeno non a proprio svantaggio. E d’altra parte, se il Caso e la Fortuna sono, per l’intima loro stessa natura, incerti ed instabili, come mai potrebbe la ragione renderli stabili e certi? E molto meno potrà evitarsi il fato; perchè, ciò che è fatale che avvenga, è non meno necessario di ciò che è già avvenuto.
Basti che sia libera la volontà dell’uomo: ma questa stessa libertà rende inutile la conoscenza del futuro. Infatti, che utilità potrebbe esserci in questa conoscenza, se — quando una cosa è avvenuta, la voglia o no l’uomo — non è in sua volontà prenderla o lasciarla andare? Non vediamo noi che l’uomo esita continuamente anche oggi, non bastandogli la volontà di scegliere, variando quasi da un momento all’altro il proprio giudizio su di uno stesso fatto? Sicchè spesso, a causa di questa incertezza, si lascia sfuggir l’occasione.
Ma basti ora della Fortuna; e così non ne avessero discorso tanto nelle scuole quelli che si chiamano filosofi! E si occupassero un po’ più del modo di sopportarle le cose e di profittarne, piuttosto che perdere il tempo e sciupare le forze dell’ingegno in coteste discussioni!
E torniamo alla nostra Cometa. Le gente stupefatta le ammira le guarda le teme, ma non cerca di conoscere che cosa sono. Tutti ne hanno paura, ma poi dicono che son di cattivo augurio soltanto ai re; come se anche i privati guai dei re non si risolvessero in malanni per i popoli! Diceva bene quel poeta che ho sentito a Roma, in teatro, ai giochi megalensi, parlando delle guerre dei Greci coi Troiani:
Quidquid delirant reges, plectuntur Achivi.
Eaco. — «Le colpe dei re sono espiate quasi sempre dai popoli» è vero; e noi da tempo lo abbiamo imparato. Anzi, volendone cercar la ragione, ci parve di dover ammettere che i re avessero sui loro popoli lo stesso ufficio e lo stesso diritto che ha l’anima sopra il corpo: e come le perturbazioni dell’anima fanno male al corpo, così anche i difetti dei re ricadono sui popoli.
Min. — A proposito di re, vorresti ora dirci, Mercurio, qualcosa sulla vita e i costumi e i governi dei principi odierni? Da quel che ne abbiamo sentito stando al nostro tribunale, ci sarebbe poco da sperare.
Merc. — Non è il caso di parlarne, ora. Toccare i re è cosa poco sicura, su nel mondo; qui all’inferno non è necessario. Basti sapere che di essi alcuni trattano male i loro popoli, ed altri ne sono maltrattati. Vi dirò invece di un terzo portento che ha turbato le menti dei mortali: per molti giorni il sole fu privo di raggi, mentre l’aria intorno appariva cerulea.4
Car. — Mi permettete di fare anch’io una piccola domanda?... Vorrei sapere se la superstizione degli uomini riesce gradita agli dei.
Merc. — Non c’è cosa che torni loro più molesta...
Car. — Perchè?... se è lecito...
Merc. — Perchè essendo cosa ridicola, rende ridicoli gli dei.
Car. — Spiega un po’ perchè la superstizione è ridicola...
Merc. — Non solamente è ridicola, ma spregevole e calamitosa. Perchè quando l’animo di qualcuno n’è preso, lo rende infelicissimo: di tutto ha paura, è sempre sotto l’incubo di un qualche cosa di terribile e d’ignoto, e consuma i giorni e le notti stando in ginocchio a supplicare gli dei e a borbottare orazioni e giaculatorie, e magari a piangere per nulla... Non son queste le cose che muovono gli dei, ma le buone azioni, gli onesti pensieri, e la volontà di fare il bene. Ti pare, Caronte, che sia degno d’un dio godere dello spavento e delle lagrime degli umani? Dio ama i buoni, i giusti, gli onesti, non i piagnucoloni. E che onore ne viene a Dio, se uno sale al tempio a piedi nudi?... Ai medici forse ne verrà qualche utile! Quanto è grata agli dei la vera religione, altrettanto è loro molesta la superstizione. La quale talvolta giunge ad eccessi così detestabili, che, come se noi Numi ingrassassimo volentieri nel sangue, l’uomo non solo ci sacrifica vittime umane, ma ci versa anche il proprio sangue!
Car. — E i sacerdoti e i pontefici non cercano d’impedire queste scelleratezze? Quantunque... so pur troppo che, fra quanta gente trasporto nella mia barca, quelli mostrano in fronte il marchio più brutto...
Merc. — Pontefici? sacerdoti?... Ma se la loro cura più grave è quella di arricchire, di accrescere il patrimonio e d’ingrassare il ventre! Avari sì, ma per aver di che spendere nel vestire e nel mangiare... So p. es. d’un Cardinale, che per poco non scacciò il suo dispensiere, perchè gli era parso troppo caro un pesce lupazzo (ne chiedevano sessanta fiorini d’oro!) e non lo aveva comprato. «Hai così poca cura della mia vita?» gridava il prete inferocito... Religione? santità?... «Far la bella vita» ecco il loro primo pensiero...
Car. — Non vorrei aver orecchie per non sentir ciò: che vergogna! E la gente li tollera?
Merc. — C’è di peggio: un altro, del medesimo Sacro Collegio dei Cardinali, ha lasciato per testamento 30 mila fiorini d’oro a un suo bagascione...
Car. — E la gente li sopporta? e non li punisce?
Merc. — Vuoi dell’altro? Avvelenano anche con l’ostia consacrata...
Car. — Che orrore! Dio dovrebbe vergognarsi di aver tali ministri! E tu dici che tutto dipende dalla superstizione?
Merc. — Sì; è quella che lega le mani ai buoni. C’è da ridere a pensare p. es. alle femminucce del volgo, che si struggono per questa più che per quella immagine sacra dipinta; e la supplicano piangendo per cose da nulla, p. es. se una loro gallina od un papero han la pituita... E riempiono di queste sciocchezze l’animo dei loro bimbi, maschi e femmine. Ma che dico io di donnucole e di bimbi?! Se ogni giorno so di principi che ricorrono agli Dei perchè il falcone è volato troppo lontano, perchè il cavallo s’è storpiato un piede... come se gli Dei fossero allevatori d’uccelli o maniscalchi o veterinari... e dovessero guadagnarsi la vita con quel che ci guadagnano! Tant’è vero che tu potresti veder nelle chiese, appesi come ex-voto degli sparvieri d’argento, o dei cavalli, o dei pappagalli...
Car. — Vedo bene che l’uomo è un essere sciocco, e ben poco ragionevole...
Merc. — E tu vedrai appese davanti agli altari non solo gambe e mani di cera o di metallo, ma anche quelle parti oscene del corpo, che si vergognano poi di mostrare al medico.
Car. — Ma solo in Italia sono così superstiziosi?
Merc. — Fuori è forse peggio. Te ne dirò una che ho visto in una città della Germania. Devi sapere che la festa di S. Martino capita l’undici novembre, e coincide generalmente con la svinatura: dunque, in quel giorno bisogna che tutti siano ubbriachi in onore del Santo. E non solo in Germania, sai; ma anche in Francia, Italia, Spagna... dappertutto!
Min. — Bel modo invero di onorare gli Dei e i Santi!
Merc. — Dunque, vi dicevo, la mattina di quel giorno, appena è chiaro, si tira fuori dalla chiesa la statua di S. Martino, e la si fa girare per tutta la città.
Car. — In Germania?
Merc. — Si, in Germania. Se c’è il sole e la giornata è bella, — la chiamano appunto l’estate di S. Martino — tutti accompagnano il Santo portando orci e boccali pieni di vino. E tutti bevono allegramente; ma il fondo del boccale lo schizzano a gara addosso al Santo... tutti gliene offrono del più buono e glielo versano addosso: le strade sono piene di barilotti, a cui tutti attingono finchè son zuppi e pieni... e così va per le strade, le piazze, le chiese. Ma se invece piove, povero Santo! lo lordano tutto di fango, e gli riversano addosso le cloache delle strade.
Eaco. — Dicono che Napoli è molto dedita alle superstizioni...
Merc. — A Napoli, la capitale dei Campani, nel mese di maggio, i preti vanno in processione per la città coronati di fiori, come fossero giovinetti innamorati. Ma questo è nulla. Vi dirò una cosa che uomini seri come voi stenterete a credere... C’è una chiesa a Napoli dove, in un certo giorno dell’anno, si fa calare giù dal tetto per una fune un porcellino, ben unto di sego e di sapone. I contadini ci vengono in folla dalla campagna per disputarselo; e la gente ci si diverte un mondo a vederli fare alle spinte, con salti e lazzi e risa, per cercare di appropriarselo. Ma quelli che dall’alto tengono la fune, ora la tirano su, ora la fanno dondolare, per aumentare le risa e il divertimento. Ed ecco che sul più bello, quando tutti sono attenti al giuoco... da molte parti del tetto si rovescia loro addosso una pioggia di acqua sporca, di broda e di urina con tutti gli escrementi... Che te ne pare, Caronte?
Car. — Con tua buona pace, o Mercurio, non vedo perchè si debba biasimare...
Merc. — Dici sul serio?...
Car. — Sul serio. Quelli che fan questi luridi scherzi onorano il loro S. Martino da quello che sono, cioè da porci ubbriachi. E quelli che son così conciati per impadronirsi del porco, si rivoltolano come il porco nel brago della loro superstizione.
Merc. — Confesso che queste tue buone ragioni mi persuadono.
Car. — Gli è che sono abituato a filosofare, io! Ma sai che quando poco fa hai ricordato i Campani, m’hai trafitto il cuore? Temevo proprio che tu volessi farmi l’elogio delle campane, mentre io non posso nemmeno sentirle nominare. Sai tu che il loro fragore non mi dà tregua nemmeno qui sotto terra? e si sente specialmente di là, sotto quell’albero funebre, a circa sette miglia di qui... che è l’albero degli impiccati per disperazione: il fico di Timone. Ve lo ricordate, o giudici? Ve l’ha chiesto lui, il misantropo, che gli fosse concesso quel fico e una corda in quel luogo solitario: e ha promesso che, in cambio, avrebbe pagato a Plutone un bel tributo d’impiccati, facendo il carnefice ed il boia. Difatti non è permesso impiccarsi in altro luogo, e chi vi spinge i disperati è il suono delle campane...
Merc. — Non dir male delle campane e di chi le suona. Caronte!
Car. — Tu vuoi farmi impazzire!
Merc. — Eppure, tu che sei filosofo, avresti dovuto capirla la ragione per cui gli uomini suonano tanto le campane! Tu sai che, se essi han molto ventre, testa ne hanno poca, e anche quella poca par loro troppa. Perciò, pensa e ripensa come dovessero fare per perderla bene, hanno inventato le campane!
Car. — Bene, per dio! — perdonami, littore degli Dei! — tu m’hai reso la pariglia.
Ma se tu me lo permetti, ti farò ancora una domanda, che ti parrà forse sciocca. Se il Destino ti costringesse in qualche modo a diventare uomo e a vivere fra gli uomini, chi vorresti essere?
Merc. — Povero me! in che imbroglio tu mi metti! Fortuna che a un Dio non possono capitare di queste disgrazie... E io che ci vivo anche troppo fra gli uomini, conosco bene quanto sono infelici e disgraziati: come dunque vuoi che io scelga fra questa universale infelicità? Unico loro bene è proprio la Speranza, quel bene cioè che sarebbe loro tolto anch’esso, se conoscessero il futuro; come si diceva pocanzi. Nessuna scelta dunque. Vi dirò invece qual è la genìa che fra gli uomini io odio di più.
Car. — Chi sono?
Merc. — I Giudei e tutta la loro stirpe.
Car. — Forse perchè hai paura di essere circonciso, o di cadere sotto le unghie d’uno strozzino?
Merc. — Eh no! La circoncisione è comune anche fra i Turchi, i Mauri, i Siri; lo strozzinaggio poi lo è dappertutto. Ma temerei che l’infinita loro superstizione mi rendesse infelicissimo...
Car. — Forse hai ragione. Ma non c’è nulla che tu approvi fra i Giudei?
Merc. — Una cosa sola; che non si curano affatto del come saran sepolti, e abbandonano i loro morti sui prati e sotto il cielo... I Cristiani invece sono quasi più solleciti della tomba che della casa. Che anzi, come se i vivi volessero fare guerra anche coi morti, estraggono i cadaveri dai sepolcri che quelli si son fatti fare spesso ancora da vivi, e li occupano a forza! Si direbbe che per i Cristiani non c’è pace nè riposo, nè da vivi, nè da morti!
Car. — Ciò mi dimostra sempre più che, nè per i Cristiani nè per gli altri, non c’è cosa che l’uomo possa dir sua a lungo. Eh! temo che abbian proprio ragione quelli che invidiano i morti!
Note
- ↑ N. — Mercurio gli aveva parlato di venti terribili, ma non di terremoti.
- ↑ Sappiamo infatti che spaventevoli terremoti sconquassarono l’Italia Meridionale nel gennaio del 1466. Siccome d’altra parte, fra i morti giunti da poco all’Acheronte si ricordano Ludovico patriarca d’Aquileia (ossia Luigi Scarampo, morto nel marzo del 1465) e il Cardinale Samorense (ossia Gio. De Mella, morto il 13 ottobre del 1467), possiamo concludere che questo Dialogo fu composto nel 1467 o poco dopo.
- ↑ Parrebbe da questo che il Pont. non creda ai presagi delle Comete; nell’Urania invece...
- ↑ Questo eclissi di sole avvenne il 14 settembre del 1465, il giorno stesso in cui Ippolita Sforza, sposa di Alfonso II d’Aragona, entrava in Napoli.