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il caronte | 109 |
riranno sempre dubbiosi, basterà che, quando sopravvengono, l’uomo cerchi di convertirli in proprio vantaggio, o almeno non a proprio svantaggio. E d’altra parte, se il Caso e la Fortuna sono, per l’intima loro stessa natura, incerti ed instabili, come mai potrebbe la ragione renderli stabili e certi? E molto meno potrà evitarsi il fato; perchè, ciò che è fatale che avvenga, è non meno necessario di ciò che è già avvenuto.
Basti che sia libera la volontà dell’uomo: ma questa stessa libertà rende inutile la conoscenza del futuro. Infatti, che utilità potrebbe esserci in questa conoscenza, se — quando una cosa è avvenuta, la voglia o no l’uomo — non è in sua volontà prenderla o lasciarla andare? Non vediamo noi che l’uomo esita continuamente anche oggi, non bastandogli la volontà di scegliere, variando quasi da un momento all’altro il proprio giudizio su di uno stesso fatto? Sicchè spesso, a causa di questa incertezza, si lascia sfuggir l’occasione.
Ma basti ora della Fortuna; e così non ne avessero discorso tanto nelle scuole quelli che si chiamano filosofi! E si occupassero un po’ più del modo di sopportarle le cose e di profittarne, piuttosto che perdere il tempo e sciupare le forze dell’ingegno in coteste discussioni!
E torniamo alla nostra Cometa. Le gente stupefatta le ammira le guarda le teme, ma non cerca di conoscere che cosa sono. Tutti ne hanno paura, ma poi dicono che son di cattivo augurio soltanto ai re; come se anche i privati guai dei re non si risolvessero in malanni per i popoli! Diceva bene quel poeta che ho sentito a Roma, in teatro, ai giochi megalensi, parlando delle guerre dei Greci coi Troiani:
Quidquid delirant reges, plectuntur Achivi.