L'Asino e il Caronte/Il Caronte/Scena VII

Scena VII.

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Giovanni Pontano - L'Asino e il Caronte (1491/1507)
Traduzione dal latino di Marcello Campodonico (1918)
Scena VII.
Il Caronte - Scena VI Il Caronte - Scena VIII
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Scena VII.


Caronte, poi Diogene, poi Crate.


Car. — Ahimè, ahimè! vedo là molta gente che m’aspetta presso il porto: dovrò andare a compiere il mio ufficio, mentre voi continuerete a discorrere... Peccato! potessi assistere ancora ai vostri colloqui! Ma, prima di tutto, il dovere...

— «Buon giorno, Diogene? Come te la passi?

Diog. — Da eroe, anzi più che da eroe. Perchè gli eroi divoravano carne di bove quasi cruda o male arrostita sopra uno spiedo improvvisato; io invece mangio pesce, e crudo per di più! Anzi, a forza di mangiar pesce, lo sono diventato anch’io per metà; sicchè, avendo disimparato come si passeggia fra gli uomini, ora nuoto solamente.

Car. — E allora accompagnami nuotando fino al porto: discorreremo un poco. [p. 117 modifica]

Diog. — Purchè tu non mi chiami «cane».

Car. — Nemmeno «pescecane»?

Diog. — Quello sì.

Car. — E allora dimmi, Pescecane: fra le tante cose originali che hai fatte in vita, quale è quella di cui ora ti ricordi più volentieri?

Diog. — Questa. Un giorno avendo fame e freddo insieme, ho preso un dio di legno, l’ho fatto in pezzi e lo arsi, scaldandomi e cuocendomi la cena.

Car. — E quel dio lasciò fare senza difendersi e senza vendicarsi?

Diog. — Oh sì! mi voleva accecare con un po’ di fumo; ma io gonfiai le gote e soffiando e agitando il berretto lo vinsi e lo scacciai.

Car. — Non fai soltanto il filosofo, ma anche il gladiatore... a quel che pare.

Diog. — Non c’è da maravigliarsi; avevo studiato scherma. E fu in Atene, alla scuola di Platone, quel giorno che presentai al maestro il suo uomo, ossia un «bipede implume». Allora quegli, vedendo le mie braccia forti e robuste, mi disse di esercitarmi nell’arte dei gladiatori; e così imparai a difendermi e parare e schermire, a ferire di punta e di taglio.

Car. — E per aver combattuto contro un dio, non t’hanno accusato di sacrilegio?

Diog. — Ma io mi difesi facilmente. La sala del tribunale era piena di gente. Quando toccò a me di parlare dissi: «Tu sai, o pretore, che tutti mi chiamano «Cane»: ora le leggi puniscono gli uomini, non i cani; dunque io non ho nulla da fare con le leggi». I presenti risero e applaudirono; il pretore mi assolse.

Car. — Oh dimmene un’altra, allora, di cui ti ricordi volentieri...

Diog. — Tu sai che Alessandro il Grande venne [p. 118 modifica]a trovarmi, mentre io mi riposavo dentro la mia botte; e, non c’è che dire, mi fece molto onore. Ma io temevo che, quando egli fosse partito, quei maleducati di soldati che aveva al suo seguito mi dessero noia, e volessero farmi ribaltare giù per la scesa con tutta la mia botte. Allora che cosa feci io! Avevo mangiato della polenta di castagne, e poi un’insalata cotta di foglie di rapa con cavoli e cipolle... E il ventre mi brontolava assai... Raccolsi tutte le mie forze, e feci una scarica così forte, che quelli, presi da paura, fuggirono a gambe levate tappandosi il naso.

Car. — E così tu vincesti da solo i vincitori di tutto l’Oriente!

Diog. — Anzi, è da questo che sono state inventate le bombarde, che, su nel mondo, oggi sconquassano mura e fortezze.

Car. — È vero che sei morto povero? e hai rifiutato le liberalità di Alessandro?

Diog. — Povero?! Ma nessun filosofo ha lasciato mai per testamento di più. Senti. Pochi giorni prima di morire, feci venire intorno a me un infinito numero di cani, tutti miei parenti; ai quali lasciai in eredità le case dei ricchi e le reggie dei re, a patto però che non dovessero poltrire nei piaceri dell’ozio. Dovevano invece di giorno farli correre qua e là per la caccia, e di notte non lasciarli dormire tranquilli abbaiando continuamente... Ma guarda che bella triglia! Lasciamela prendere per cena... Addio!

Car. — Costui è vissuto schernendo e disprezzando tutti da vivo; e continua così anche da morto: pure è contento!... Oh ecco Crate! Diciamo due parole anche a lui... «Buona fortuna, Crate!» [p. 119 modifica]

Crate. — Come vuoi che ci sia buona fortuna per chi l’ha disprezzata quand’era favorevole? Dovrò piangere ed espiare la mia stoltezza...1

Car. — Non hai dunque più speranza di ritrovare il tuo denaro?

Crate. — Poca speranza! eppure cerco sempre...

Car. — Ripòsati un poco, e vieni con me a veder quei che laggiù piangono...

Crate. — Ho abbastanza da piangere su me stesso! Lasciami, Caronte!... Non vedo laggiù una borsa?... Chi sa!... Ti lascio...

Car. — È un infelice costui; e a star con lui si diventerebbe infelici. Quando si trova qualcuno di questi pazzi infelici che hanno un’idea fissa e non vogliono ascoltar ragione, bisogna abbandonarli a sè e compatirli... Non c’è un alito di vento, e mi bisognerà far forza di remi.


Note

  1. Secondo Suida, Crate non sarebbe poi stato tanto sciocco! Nascondendo nel mare le sue ricchezze (o meglio, dice Suida, affidandole ad un banchiere tebano) volle prima di tutto essere più libero di attendere alla sapienza. Poi lasciò detto che, se i suoi figli fossero stati veri filosofi, dividessero fra i poveri le loro ricchezze; se idioti e sciocchi, fossero loro consegnate, perchè sciupandole le rimettessero in circolazione.