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vengo, fu sconquassata da grandi terremoti,1 sicchè molte città giacciono prostrate al suolo: parte dei torrenti mutarono strada, parte seccarono; in qualche parte si sono sprofondate alte montagne, in qualche altra, come strappate alle radici da una forza immensa, furono trasportate più lontano; e là dov’erano, rimasero grandi spaccature e maggiori paludi.

Min. — Perdona se t’interrompo, o Mercurio, per domandarti (avidi come siamo di sapere!) qualche cosa.

Merc. — Domanda pure liberamente.

Min. — Han cercato gli uomini qualche rimedio... qualche modo speciale di costruire le case, perchè in queste calamità non rovinino tutte al suolo?

Merc. — Non dovunque, e non del tutto sicuro; però tali da porgere una certa salvezza per qualche tempo. Per esempio, legano le pareti con travi assai lunghe e le incatenano: ma quanto farebbero meglio a incatenare le loro passioni e i loro desideri sfrenati! Tutti si occupano di allontanare un pericolo che li minaccia sì e no una volta ogni secolo, ma corrono volonterosi e sorridenti incontro ai pericoli e ai malanni di cui son causa le sfrenate cupidigie di ciascuno. Se dopo parecchi secoli di tranquillità del suolo, in una notte di terremoto circa venti mila persone rimangono schiacciate sotto i loro tetti, tutti ne fremono di orrore e maledicono dio e la natura — che pure li tollera! E son essi poi che con ogni mezzo cercano di suscitare guerre sopra guerre, le quali quasi ogni anno


  1. Sappiamo infatti che spaventevoli terremoti sconquassarono l’Italia Meridionale nel gennaio del 1466. Siccome d’altra parte, fra i morti giunti da poco all’Acheronte si ricordano Ludovico patriarca d’Aquileia (ossia Luigi Scarampo, morto nel marzo del 1465) e il Cardinale Samorense (ossia Gio. De Mella, morto il 13 ottobre del 1467), possiamo concludere che questo Dialogo fu composto nel 1467 o poco dopo.