Atto IV

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Atto III Atto V

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ATTO IV

SCENA I

Erminio e Cesare.

Erminio. Dove diavolo stavi tu ch’ei non ti vedde?

Cesare. In fuogo ch’io vedevo lui benissimo ed egli non vedeva me. E guardossi attorno piú di cento volte!

Erminio. Oh! oh! oh! che bella festa!

Cesare. Bellissima, per me.

Erminio. Cert’è che tu hai avut’una gran ventura: non perché tu abbi guadagnati e’ dumila ducati; che, quando fussi in tuo arbitrio, non credo li volessi, sapendo el padrone d’essi. E, benché oggidí non s’usi rendere, non solo quelli che si trovono, ma ancora quelli che si accattono, pur so che tu vorrai fare piú presto l’offizio de l’uomo da bene che l’usanza. Ma dico bene che ei non ti potea accadere cosa piú opportuna al farti conseguire el tuo desiderio.

Cesare. Io la discorro bene per cotesto verso.

Erminio. Imperò bisogna che noi vadia dicendo: perché, se lui risapessi che tu avessi e’ danari, non si quieterebbe insin a tanto che non gli avessi nelle mani; dove, non lo sapendo, sará piú facile il condurlo a fare quanto desideri.

Cesare. Ei non lo sa altri che tu, Marcantonio e Lucido. Però avvertiscigli che non ne parlino.

Erminio. Lo farò. Ed ecco appunto di qua mio padre. Lasciaci, di grazia, essere un poco soli.

Cesare. Cosí farò. Intanto andrò a rivtder quei danari che non son riposti a mio modo. Addio. [p. 178 modifica]

SCENA II

Marcantonio ed Erminio.

Marcantonio. Erminio mi disse d’essere qui.

Erminio. Io v’ho obedito, padre mio.

Marcantonio. Oh! Bene hai fatto.

Erminio. Che volete comandarmi?

Marcantonio. Tu sai che, bench’io potessi comandarti, t’ho sempre pregato. Né adesso voglio cominciare; ma ti voglio avvertire.

Erminio. Oh! Dio voglia che sia cosa ch’io la possi fare, acciò che la non causi in me disobedienzia.

Marcantonio. Tu ti sei immaginato quel ch’io voglio dirti, in modo parli.

Erminio. Penso che voi vogliate dire della mia monaca.

Marcantonio. L’hai trovata.

Erminio. Nella qual cosa io conosco, padre mio, d’errare gravemente e, d’altra banda, conosco di non poter far altro; perché tanto m’era facil, in sul principio, ovviar a questo errore quanto, adesso, m’è difficile, anzi impossibile, il rimediarci. In tali lacci mi truovo essere incorso che altra liberazion non spero e non voglio che la morte; perché come poss’io non amar chi m’ama e non desiderar una cosa che io amo e desidero piú che tutte l’altre? E meritamente, perché ei non è donna nessuna al mondo, né mai ne fu, credo, né sará, che con lei o di bellezza o di gentilezza si possa paragonare. Oltre a questo, non manco è di me che io di lei innamorata; e, quando altro non ci fussi, solo questo mi sforza e mi costringe a non poter usar el libero arbitrio: el quale pur poi è libero, perché altro non voglio e non desidero che lei. Però, padre mio, non vi vogliate opporre a si ardente fiamma d’amor la qual d’altro che da tempo non può essere spenta. E lo pruovono questi vostri comandamenti: che, in tutte le altre cose, mi frangono come se di cera fussi; in questa, loro come di cera si piegono, io come [p. 179 modifica]di pietra sto duro. E, insomma, l’animo non mi patisce che io discorra se è ben o no levarsi da si fatta impresa. Ma ho chi continuamente nel cuor mi dice che io non posso né debbo mancar d’amar chi mi ama si caldamente.

Marcantonio. Figliuol mio, io t’ho gran compassione perché ho provat’anch’io che cosa è l’essere innamorato. Niente di manco e’ mi parebbe mancare dell’offizio del padre s’io non ti dicessi in questo il parer mio e dell’universale; perché e’ non è nessuno, per scellerato che sia, a chi non dispiaccia l’usar con le monache. Lasciamo star la religione. E’ par che gli omini lo faccino per voler essere da piú degli altri; e questo dispiace a ognuno, perché non è cosa che facci piú odiar gli uomini che quando e’ cercano per qualche cosa particulare farsi differenti dagli altri. Oltre a che, della relligione non si debbe però far si poca stima ch’ei non ci s’abbia aver rispetto: e, se non per conto tuo, per conto di quelli che veggiono; perché quelli che son tenuti empi dallo universale sono odiati, si che, quando questa cosa non facessi mai altro effetto tristo che l’essere odiato, li uomini se n’arebbono a guardare. Non ti dico niente che s’ingiuria chi v’ha le sorelle, chi v’ha le figliuole; portasi mille pericoli nel montar scale di corda, segare ferrate, salir muri a secco: cose da farle per guadagnar onore e gloria, e non un si breve sollazzo che si tira dreto si lunga penitenzia. Però, figliuol mio, muta questo tuo amore in uno piú ragionevole del quale tu possa sperare il desiderato fine: perché, grazia di Dio, e’ non è figliuola a Lucca la quale i suoi non te la dieno quando ti disponga a volerla per moglie; ed è oggimai tempo che ne tolga acciò ch’io ne possa veder qualche nipotino. E non mi dá noia la dote. A me basta che la ti piaccia e sia dabbene. E, a questo modo, farai contento te e me a un tratto.

Erminio. Contento non sarò io mai s’io non ho Fiammetta mia. Vi dico ben che le vostre parole hanno tanta forza che le mi fanno pensare a quello che da me mai arei pensato. Pur mi par impossibile il dispormi a quel ch’io so di non potere. Ma vi prometto e vi giuro, per quella riverenzia e amore che [p. 180 modifica]sempre vi ho portati, di far in me ogni ultimo sforzo per contentarvi, pensando dover trovar poi in voi gran compassione.

Marcantonio. Se tu pensi d’aver bisogno di compassione, io sto fresco!

Erminio. Volete voi da me quel ch’io non posso?

Marcantonio. Né da te né da nessuno altro voglio l’impossibile. Ma pruova, figliuol mio, perché quel che ti par strano e spiacevole in sul principio alla fine grato e piacevol ti sará; che questa è la natura delle cose ben fatte. Però lasciati consigliare e pensa ch’io, e’ ho piú sperienzia di te, ti dico questo per il ben ch’io ti voglio.

Erminio. Io farò quel ch’io potrò.

SCENA III

Aridosio, Marcantonio ed Erminio.

Aridosio. Oimè!

Marcantonio. Ma chi si lamenta?

Aridosio. Oimè!

Erminio. Chi diavolo è questo? Aridosio, per Dio, che si rammarica de’ dumila scudi.

Aridosio. E’ mi mancava questo! Oh figliuol del diavolo, nato per farmi morire!

Erminio. Non dite niente, di grazia, che voi guastereste el disegno a Cesare.

Marcantonio. Io lo voglio aiutare in quel ch’io posso.

Aridosio. In un medesimo di ho perso dumila ducati, sono stato ingannato d’un rubino, uccellato da Lucido e sgarato da Tiberio: si che altro non mi resta che morire. Oh sorte! Tu se’ pur troppo crudele, quando ti deliberi di far male a uno. Io non ho giá mai offeso altri che me stesso.

Erminio. E’ s’è avvisto della burla degli spiriti.

Marcantonio. Infatti la fu troppo crudele.

Erminio. E’ non si potea fare altro. [p. 181 modifica]

Aridosio. Quant’era meglio, in sul principio, lasciar andar ogni cosa e, se volea spendere, giucare, tener femmine, lasciarlo fare in malora! perché, in ogni modo, lo fa; ed io mi tribolo e ammazzo; e, per cercar di lui e per rimediare alli sua scandoli, ho perso el mio tesoro senza el quale non mi dá piú il cuore di vivere.

Marcantonio. E’ mi incresce di lui. Lo voglio un po’ consolare.

Erminio. Ricordatevi che voi non gli avete a dir niente de’ danari.

Marcantonio. Non dubitare. Che hai tu che si ti lamenti? Ècci nulla di nuovo?

Aridosio. Come che ho? E che non ho io di male? A raccozzarne quanti ne son nel mondo tutti son in me.

Marcantonio. In veritá, che mi duole e de’ danari che tu hai persi e de’ modi che tien Tiberio, poi che ti dispiacciono, a te. A me paion eglin convenienti alla etá sua.

Aridosio. Tu hai sempre mai detto cosí e sei stato causa di molti disordini che gli ha fatti.

Marcantonio. Oh! Non mi dir villania, che io non ti parlerò piú.

Aridosio. Tu ed Erminio ne siate stati causa.

Erminio. Buon per lui, se si fussi consigliato meco!

Aridosio. Ma facc’egli. S’i’ritruovo e’ mia danari, io li lascerò tanto la briglia in sul collo che forse li putirá.

Marcantonio. El caso è ritrovarli! Tu fusti pur pazzo a metter dumila ducati in una fogna!

Aridosio. Ognuno è savio, dop’il fatto: da me in fuora, che son sempre pazzo, sempre sto male contento e duro fatica e stento per il maggior nimico ch’io abbia al mondo; che patisce insin che Lucido mi venga a sbeffare e darmi ad intendere che la casa sia spiritata e a farmi tenere uno sciocco per tutta Lucca, insino a cavarmi l’anello di dito.

Marcantonio. A questo, do io il torto a te, che sei stato si semplice che l’abbi creduto. E, se egli aveva bisogno di venticinque ducati e tu non gne ne volevi dare, come avev’egli a fare? [p. 182 modifica]

Aridosio. Venticinque ducati? I’ non vo’ ch’egli abbi un soldo. Della roba mia ne voglio essere padrone insin ch’io vivo; e, quando sarò morto, la lascerò a un altro.

Erminio. Egli ara pure quelli a tuo dispetto.

Aridosio. Ma, infine, vadi ogni cosa alla malora. Quand’io mi ricordo de’ danari, io esco di cervello e, per la pena, non posso stare ritto.

Marcantonio. Di cotesto hai tu mille ragioni.

Aridosio. Io vogli’ora andare a fare altre diligenzie: benché questi mi paiono panni caldi.

Marcantonio. Va’ via; non perder tempo.

Aridosio. Poi voglio andare in casa a piagnere, tanto che a Dio o al diavolo venga compassione di me.

Marcantonio. Cotest’è la via! i Erminio. Vedesti mai la maggior bestia?

Marcantonio. Elle son pur cose da far disperare ognuno.

Erminio. Oh Dio! Io ebbi pure una gran sorte quando a voi venne voglia di tórmi per figliuolo ed a lui di darmivi.

Marcantonio. Che fanciulla è questa di chi è innamorato Tiberio?

Erminio. È una fanciulla che ha modi e aspetto di nobile. E quello che l’ha venduta a Tiberio dice avere certissimi riscontri come ella è nobilissima tortonese. Ed ha il nome del padre e della madre: a’ quali, per le guerre di Milano, fu rubata; e da un fante privo fu a costui venduta di etá di sei anni. E, da quel tempo in qua, l’ha tenuta sempre in monastero insin che n’è venuta tanta voglia a Tiberio che è bisognato gne ne dia per cinquanta ducati. E pur oggi è venut’un servidore che dice messer Alfonso (quello che pensano che sia suo padre) essere a dreto. E forse sará qui stasera o domattina: con animo che, se l’è la sua figliuola, come lui si presume per lo indizio che n’ha, di ricomperarla ogni gran prezzo e rimenarla a casa sua; in modo che quello che prima l’aveva si morde le mani, parendoli aver perso, per poco tempo, una gran ventura.

Marcantonio. Oh! Come, cosi, l’ha egli data a si buon mercato, s’egli aveva questa speranza? [p. 183 modifica]

Erminio. Era stato dua mesi che da Tortona non aveva mai avut’avviso; da poi v’aveva mandato tre volte: in modo che pensava che gli avessin trovati altri riscontri, o dove la fussi, e che fussin certi questa non essere. Da poi questo che è venuto dice a bocca tutti i segni, tal che è impossibile che la non sia dessa.

Marcantonio. Ei potevon indugiar pur un di piú, acciò che suo padre avessi avute tutte le satisfazioni di riaverla com’ei la perse. Ma, pur cosi, ha egli avuto una gran sorte, se egli è vero. A me pare ei quasi impossibile, perché son casi che accascono rade volte.

Erminio. Pur può essere; e i segni ci sono.

Marcantonio. Io voglio essere in piazza, che adesso è l’ora.

Erminio. Volete voi compagnia?

Marcantonio. Resta pure alle tua commoditá e pensa di far quel ch’io ti ho detto, se tu hai caro di tenermi contento.

Erminio. Guarda che pulce m’ha messo mio padre nell’orecchio! S’io ho caro di tenerlo contento! O come non ho io a ’ngegnarmi di tenerlo contento, che sempre ha tenuto me contentissimo? Lui m’ha lassato spendere, giucare, fare all’amore; insomma, tutte quelle cose di che io ho avuto voglia. E, in quello che da me medesimo ho a me mancato, lui con molta destrezza me l’ha ricordato e fatto acciò che in nessuna parte io non mancassi di piacere. E adesso mi ricerca d’un piacere del quale non è in mia libertá el pensare di fargnene. Oh mia mala sorte! Non era assai il dolore che di lei avevo, quando io temo che ad ogni ora la non partorisca, senza agiugnerci quest’altro? L’amor e l’affetto mi lacerano e mi squartano con tanto dolore ch’io non m’immagino il maggior quello d’un traditore legato alle code di dua possenti cavalli. [p. 184 modifica]

SCENA IV

Mona Pasqua, Erminio.

Mona Pasqua. Il mio padrone ha la cocente.

Erminio. O Dio, aiutami!

Mona Pasqua. Ah! s’tu fussi innamorato di me!

Erminio. Oimè! Io sono udito.

Mona Pasqua. Ti farei andar cento miglia per ora.

Erminio. L’è quella pazzaccia di mona Pasqua. E che bisbigli tu, befana?

Mona Pasqua. Dicevo ch’io trattavo meglio e’ mia innamorati che non fa Fiammetta voi.

Erminio. Guarda chi vuol metter la bocca in Fiammetta mia! E chi fu innamorato di te, se non fu il boia?

Mona Pasqua. El boia? Fate conto ch’io non ho quella cosa come l’altre!

Erminio. E piú un palmo. Ma che fai tu qui a quest’ora?

Mona Pasqua. Dove m’avevi voi mandato?

Erminio. Tu se’ giá stata a casa mona Gostanza?

Mona Pasqua. Che vi pensate? Si truovon poche mone Pasque!

Erminio. E massime belle come te.

Mona Pasqua. S’i’ non son bella, mio danno. Oh! Voi m’avete stracca. Sempre mai mi state a dir cento ingiurie.

Erminio. Dove è la lettera?

Mona Pasqua. Toglietela.

Erminio. Portala adesso adesso alla priora e dagnene in propria mano. Poi va’ alla maestra della Fiammetta e digli che, se la priora è contenta, che ti rimandi subito a me; e io manderò chi la porti.

Mona Pasqua. Che porti chi?

Erminio. Di’ a questo modo. La t’intenderá bene.

Mona Pasqua. Dove volete voi che ei la porti?

Erminio. Tu m’hai infastidito. Di’ a suor Manetta che ti dica se la priora è contenta; e non altro. Diavol che tu non tenga a mente! [p. 185 modifica]

Mona Pasqua. Io tengo benissimo.

Erminio. Basta. Ma va’ via; cammina.

Mona Pasqua. Oh Signor! Io vo.

Erminio. Oh! Aspetta. Io vo’ che mi porti un’altra cosa.

Mona Pasqua. Io aspetto.

Erminio. Paulino! o Paulino! Non odi, sciagurato? Olá!

Mona Pasqua. Ei sarrá a giucar, lui.

Erminio. Io li dissi pur che aspettassi. O Paulino!

SCENA V

Paulino, Erminio, Mona Pasqua.

Paulino. Signore!

Erminio. Sempre vuoi ch’io t’abbi a chiamar cento volte. È gran cosa questa!

Paulino. I’ nettavo la vostra cappa.

Erminio. Quale? Quella che io ho indosso?

Paulino. Signor si.

Erminio. Doh sfacciato, bugiardo! Guarda s’ei si vergogna, el diserto!

Paulino. Egli è per grazia vostra.

Erminio. Noi ci parleremo innanzi sia domattina. Va’ truova quattro fiaschi di trebbiano; e portateli, fra voi dua, alla Fiammetta.

Paulino. Signor si.

Erminio. Andate ratti, mona Pasqua; ch’io desidero la risposta di questa cosa, che importa assai.

Mona Pasqua. Umbè? Io andrò pure adagio, ch’io ho trottato oggi tuttodí.

Erminio. I’ t’aspetto in casa.

Mona Pasqua. Oimè ! Gli è pure una mala cosa quest’esser serva! Or ch’io son stanca morta, io ho andare a Santa Susanna; poi arò a tornar in qua; e forse poi a tornar in lá. E cosí fo ogni di, ogni di, ogni di. Oh! Almanco si facesse egli la festa di San Saturno, come si faceva al tempo antico! che dicono che, [p. 186 modifica]per otto di, le serve e i servidori diventavono i padroni e loro le serve e i servidori. A me toccherebbe a esser mona Lucrezia; e vorrei star, quelli otto di, sempre nel letto con qualche mio innamorato. E non aspetterei tanti fischi, la notte, tante lette ruzze e tante imbasciate. Pur che ei m’andassi a gusto, al primo, chiuderei l’occhio. Forse che mi bisognerebbe, come adesso, pregare sei sciagurati, s’io mi volessi cavare una vogliuzza?

Paulino. O mona Pasqua! Togliete questi fiaschi.

Mona Pasqua. Non hai tu le mani?

Paulino. E i piedi ho.

Mona Pasqua. Potrai, adunque, andare a portarli tu.

Paulino. Io ho altro che fare.

Mona Pasqua. Non ti disse ’l padrone che li portassi?

Paulino. Madonna no.

Mona Pasqua. O che ti disse?

Paulino. Che li portassimo fra noi dua.

Mona Pasqua. l’ti so dire che tu sei ciullo! Orsú! Portane tre; ed io ne porterò uno, che son vecchia.

Paulino. Ei non ne sará altro. I* li ho portati insin qui; portateli insin lá voi: e cosi, fra noi dua, li arem portati.

Mona Pasqua. Alla croce di Dio, che, se tu non li porti, ch’i’ ti farò dare delle staffilate e dirò che tu non li abbi voluti portare per ire a giucare.

Paulino. Ed io li dirò quel che voi mi facesti, l’altra notte, quando io dormii con voi.

Mona Pasqua. E che ti feci io, ladroncello?

Paulino. Che mi toccavi voi?

Mona Pasqua. Tocca’ ti il petto?

Paulino. Oh! Piú giú.

Mona Pasqua. EI corpo?

Paulino. Piú giú.

Mona Pasqua. Le gambe?

Paulino. Sono stato per dirvelo, vecchia porca! Che mi volevi voi stuzzicar? i denti?

Mona Pasqua. Allievo per le forche! S’i’ mi ti metto sotto una volta, ti insegnerò dire coteste disonestá. [p. 187 modifica]

Paulino. Ah! ah! I’ ti vedrò pure un di, come meriti, incoronata di carta, contessa di Borgo Seggiolaio.

Mona Pasqua. Tira via, sciagurato! tira via, sciagurato! che postú arrabbiare!

Paulino. Se tu mi coglievi...

Mona Pasqua. Ti corrò ora, ribaldaccio!

Paulino. O port’e’ fiaschi da te, scanfarda!

Mona Pasqua. S’i’ veggo Erminio...

Paulino. Guarda un po’ qui.

Mona Pasqua. Aspetta pure.

Paulino. I’ mi servirò, intanto, di queste pianelle.

Mona Pasqua. Rendile qua.

Paulino. F corro.

Mona Pasqua. A questo non arò io pazienza. Ei se ne è ito con esse. Se non ch’io ho fretta... Ma, per adesso, andrò senza pianelle. Va’ fidati poi tu di fanciulli! Ei ridicono ogni cosa. Io m’era messa bene, ti so dir io! E pur bisogna, qualche volta, trastullarsi. Ma lasciami andare a portar queste cose, che io son badata pur troppo, innanzi che questi che vengono di qua, che mi paion smarriti e che abbin bisogno di chi mostri loro la strada, mi domandin di qualcosa.

SCENA VI

Messer Alfonso e ’l Briga.

Messer Alfonso. Io potevo far senza mandarti innanzi, da poi che tu hai bisogno di guida. Come si chiama la strada dove gli sta?

Briga. Non lo so.

Messer Alfonso. È ella casa grande o piccola, la sua?

Briga. Io non la posi mente.

Messer Alfonso. E lui com’ha nome?

Briga. Non me ne ricordo.

Messer Alfonso. Tu se’ benissimo informato, adunque. [p. 188 modifica]

Briga. Io li ho parlato e sono stato in casa sua giá dua volte. Ma Lucca non è fatta come Tortona; che, com’io volto una strada, son beli* e smarrito.

Messer Alfonso. Tu hai pure parlato a quello che ei dicon che ha la mia figliuola?

Briga. Hogli parlato. E è dessa al certo; di questo statene sicuro.

Messer Alfonso. Ha’ia tu vista?

Briga. Non l’ho vista. Ma lui m’ha dato i segni. E dice che sempre s’è chiamata Livia (che cosí disse lei di aver nome), ch’eli’ è bionda, ha gli occhi neri e belle carni e quel contrassegno, che non può fallire, della margine apresso all’occhio. E dice che non ha mai ricordat’altro che messer Alfonso e madonn’Elena e che d’altro quasi non si ricorda che de’ nomi vostri.

Messer Alfonso. Oh Dio! Questa è una gran grazia! E afferma egli d’averla tenuta sempre in un monasterio?

Briga. Dice che non H ha quasi mai vista. Ma mi parve mal contento.

Messer Alfonso. Debb’aver paura ch’io non lo paghi a suo modo. Ma, s’io li dovessi dar mezzo lo stato mio, lo vo’ satisfare, s’i’ ritruovo esser vero ch ’ei l’abbia tenuta nel modo che ei dice. Ma va’ un po’ presto e vedi se lo truovi; che mi par mille anni di vederla e di abbracciarla.

Briga. Aspettatemi: che io tornerò a voi, s’io non mi smarrisco.

Messer Alfonso. Se Dio mi dá grazia ch’io ritruovi la mia unica figliuola che abbi salvo l’onore cosí come l’ha la persona, io mi reputo felice. Diffidi cosa mi pare, perché, essendo giá di quindici anni, in mano di persone che tengon piú conto de’ danari che dell’altre cose, s’ha a far la presunzione in contrario. Dall’altro canto, se l’è stata in monisterio come ei dicono, è facil cosa che da donna da bene si sia allevata. Ma, in qualunque modo si sia, rendo grazie a Dio che si lungo tempo l’abbi preservata fuor di casa sua perch’io abbia aver questo contento in ricompensa del dispiacer di quando ella mi fu di braccio tolta. [p. 189 modifica]

Briga. Signore, io ho ritrovato la casa. È qui apresso.

Messer Alfonso. È un miracolo! E lui è in casa?

Briga. Èvvi; e vi aspetta.

Messer Alfonso. Andiamo, adunque.

SCENA VII

Mona Pasqua Marcantonio.

Mona Pasqua. Io vo’ lassar andar via coloro. Oh! Erminio impazzerá dell’allegrezza, d’aver avuto si bel figliuolo. E le monache mi dicono che ei l’ara per male! Io non l’intendo; e non so s’io me li domando la mancia. Che può nuocer il domandare? Perché non ha egli aver caro d’avere un figlioloccio bello a quel modo? Ei l’ha pur fatto lui. Oh! Egli è d’una monaca! E’ si sia. Io credo che le mi dichin a quel modo per invidia. E fanno un ronzio, un cicalio per quel convento che paion uno sciame di pecchie quando ei gitta. Ma la priora è piú indiavolata che l’altre e dice che vuol fare scomunicare e maladire... Io non credo giá ch’ella possa far che suor Fiammetta non abbi fatto un bambino. L’altre cose son baie. Ma che indugio d’andarlo a dire a Erminio? Ecco appunto di qua Marcantonio. Io non so s’io gne ne debbo dire.

Marcantonio. Quella mi par mona Pasqua.

Mona Pasqua. Ma le mi disson ch’io non lo dicessi se non a Erminio.

Marcantonio. Mona Pasqua!

Mona Pasqua. Che fare? A saper l’ha.

Marcantonio. Siate sorda?

Mona Pasqua. Oh! Io ve lo dirò poi.

Marcantonio. E che mi dirai?

Mona Pasqua. Che Erminio...

Marcantonio. C’ha fatto Erminio?

Mona Pasqua. ... ha avuto...

Marcantonio. Che cosa?

Mona Pasqua. ... un figliuolo. [p. 190 modifica]

Marcantonio. E di chi?

Mona Pasqua. Della sua monaca.

Marcantonio. Sia col malanno che Dio ti dia! Che modo di dir le cose è questo?

Mona Pasqua. Oh! Marcantonio, perdonatemi. Le m’avevano detto ch’io non dicessi nulla.

Marcantonio. E che sai tu che l’abbi partorito?

Mona Pasqua. Sollo.

Marcantonio. E che, in malora?

Mona Pasqua. Vengo ora da lei; e ho visto el bambino e lei che l’ha fatto. E tutto el monasterio è sottosopra per questo caso. Ma, per questa croce, Marcantonio, che voi non vedesti mai il piú bel bambino.

Marcantonio. Ei debbe pur esser vero. O Marcantonio, troppo tardi sono stati e’ tua consigli! Io ho saputo prima che l’abbi fatto el bambino che ella sia grossa. Vattene, vecchia cicalacela! e fa’ che non ne parli con persona.

Mona Pasqua. Oh! A Erminio?

Marcantonio. A lui manco.

Mona Pasqua. Bisogna pur che ei proveggia la balia e l’altre cose.

Marcantonio. Provederò io quel che occorre.

Mona Pasqua. Se ei mi vede, bisogna pur ch’io li dica qualche cosa.

Marcantonio. Non ti lasciar vedere.

Mona Pasqua. Ve’ che non li potrò domandar la mancia! Volete voi altro?

Marcantonio. Oh Erminio! Tu mi dovevi pur dire che l’era per partorire; e non voler vituperare te e quel monasterio. Orsú! A’ rimedi! I’ sarei stato troppo felice, s’io non W avessi avuto aver di queste brighe. Ei bisogna pensare che i giovani faccino de’ disordini. Io voglio andar qua in chiesa e parlar con la priora e intender e’ particulari della cosa per poter pigliare poi quei rimedi che migliori ci parranno.