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186 | l’aridosia |
per otto di, le serve e i servidori diventavono i padroni e loro le serve e i servidori. A me toccherebbe a esser mona Lucrezia; e vorrei star, quelli otto di, sempre nel letto con qualche mio innamorato. E non aspetterei tanti fischi, la notte, tante lette ruzze e tante imbasciate. Pur che ei m’andassi a gusto, al primo, chiuderei l’occhio. Forse che mi bisognerebbe, come adesso, pregare sei sciagurati, s’io mi volessi cavare una vogliuzza?
Paulino. O mona Pasqua! Togliete questi fiaschi.
Mona Pasqua. Non hai tu le mani?
Paulino. E i piedi ho.
Mona Pasqua. Potrai, adunque, andare a portarli tu.
Paulino. Io ho altro che fare.
Mona Pasqua. Non ti disse ’l padrone che li portassi?
Paulino. Madonna no.
Mona Pasqua. O che ti disse?
Paulino. Che li portassimo fra noi dua.
Mona Pasqua. l’ti so dire che tu sei ciullo! Orsú! Portane tre; ed io ne porterò uno, che son vecchia.
Paulino. Ei non ne sará altro. I* li ho portati insin qui; portateli insin lá voi: e cosi, fra noi dua, li arem portati.
Mona Pasqua. Alla croce di Dio, che, se tu non li porti, ch’i’ ti farò dare delle staffilate e dirò che tu non li abbi voluti portare per ire a giucare.
Paulino. Ed io li dirò quel che voi mi facesti, l’altra notte, quando io dormii con voi.
Mona Pasqua. E che ti feci io, ladroncello?
Paulino. Che mi toccavi voi?
Mona Pasqua. Tocca’ ti il petto?
Paulino. Oh! Piú giú.
Mona Pasqua. EI corpo?
Paulino. Piú giú.
Mona Pasqua. Le gambe?
Paulino. Sono stato per dirvelo, vecchia porca! Che mi volevi voi stuzzicar? i denti?
Mona Pasqua. Allievo per le forche! S’i’ mi ti metto sotto una volta, ti insegnerò dire coteste disonestá.