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atto quarto | 181 |
Aridosio. Quant’era meglio, in sul principio, lasciar andar ogni cosa e, se volea spendere, giucare, tener femmine, lasciarlo fare in malora! perché, in ogni modo, lo fa; ed io mi tribolo e ammazzo; e, per cercar di lui e per rimediare alli sua scandoli, ho perso el mio tesoro senza el quale non mi dá piú il cuore di vivere.
Marcantonio. E’ mi incresce di lui. Lo voglio un po’ consolare.
Erminio. Ricordatevi che voi non gli avete a dir niente de’ danari.
Marcantonio. Non dubitare. Che hai tu che si ti lamenti? Ècci nulla di nuovo?
Aridosio. Come che ho? E che non ho io di male? A raccozzarne quanti ne son nel mondo tutti son in me.
Marcantonio. In veritá, che mi duole e de’ danari che tu hai persi e de’ modi che tien Tiberio, poi che ti dispiacciono, a te. A me paion eglin convenienti alla etá sua.
Aridosio. Tu hai sempre mai detto cosí e sei stato causa di molti disordini che gli ha fatti.
Marcantonio. Oh! Non mi dir villania, che io non ti parlerò piú.
Aridosio. Tu ed Erminio ne siate stati causa.
Erminio. Buon per lui, se si fussi consigliato meco!
Aridosio. Ma facc’egli. S’i’ritruovo e’ mia danari, io li lascerò tanto la briglia in sul collo che forse li putirá.
Marcantonio. El caso è ritrovarli! Tu fusti pur pazzo a metter dumila ducati in una fogna!
Aridosio. Ognuno è savio, dop’il fatto: da me in fuora, che son sempre pazzo, sempre sto male contento e duro fatica e stento per il maggior nimico ch’io abbia al mondo; che patisce insin che Lucido mi venga a sbeffare e darmi ad intendere che la casa sia spiritata e a farmi tenere uno sciocco per tutta Lucca, insino a cavarmi l’anello di dito.
Marcantonio. A questo, do io il torto a te, che sei stato si semplice che l’abbi creduto. E, se egli aveva bisogno di venticinque ducati e tu non gne ne volevi dare, come avev’egli a fare?