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182 | l’aridosia |
Aridosio. Venticinque ducati? I’ non vo’ ch’egli abbi un soldo. Della roba mia ne voglio essere padrone insin ch’io vivo; e, quando sarò morto, la lascerò a un altro.
Erminio. Egli ara pure quelli a tuo dispetto.
Aridosio. Ma, infine, vadi ogni cosa alla malora. Quand’io mi ricordo de’ danari, io esco di cervello e, per la pena, non posso stare ritto.
Marcantonio. Di cotesto hai tu mille ragioni.
Aridosio. Io vogli’ora andare a fare altre diligenzie: benché questi mi paiono panni caldi.
Marcantonio. Va’ via; non perder tempo.
Aridosio. Poi voglio andare in casa a piagnere, tanto che a Dio o al diavolo venga compassione di me.
Marcantonio. Cotest’è la via! i Erminio. Vedesti mai la maggior bestia?
Marcantonio. Elle son pur cose da far disperare ognuno.
Erminio. Oh Dio! Io ebbi pure una gran sorte quando a voi venne voglia di tórmi per figliuolo ed a lui di darmivi.
Marcantonio. Che fanciulla è questa di chi è innamorato Tiberio?
Erminio. È una fanciulla che ha modi e aspetto di nobile. E quello che l’ha venduta a Tiberio dice avere certissimi riscontri come ella è nobilissima tortonese. Ed ha il nome del padre e della madre: a’ quali, per le guerre di Milano, fu rubata; e da un fante privo fu a costui venduta di etá di sei anni. E, da quel tempo in qua, l’ha tenuta sempre in monastero insin che n’è venuta tanta voglia a Tiberio che è bisognato gne ne dia per cinquanta ducati. E pur oggi è venut’un servidore che dice messer Alfonso (quello che pensano che sia suo padre) essere a dreto. E forse sará qui stasera o domattina: con animo che, se l’è la sua figliuola, come lui si presume per lo indizio che n’ha, di ricomperarla ogni gran prezzo e rimenarla a casa sua; in modo che quello che prima l’aveva si morde le mani, parendoli aver perso, per poco tempo, una gran ventura.
Marcantonio. Oh! Come, cosi, l’ha egli data a si buon mercato, s’egli aveva questa speranza?