Italiani illustri/Tommaso Campanella

Tommaso Campanella

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Ippolito Pindemonte Aonio Paleario

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Da Geronimo Campanella e Caterina Martello, in San Biagio, borgatella della città di Stilo nella Calabria Ultra, il 3 settembre 1568 nacque un figliuolo, che al battesimo fu chiamato Giovanni Domenico. Nella memoria De libris propriis, raccontando sè stesso al celebre Naudée, così egli descrive la sua infanzia: — Veramente ancor quinquenne, alle prime lettere ed alla religione così studiosa opera diedi, che qualunque cosa i parenti, gli avi e i predicatori delle divine èd ecclesiastiche cose dicessero, e similmente i miei pedagoghi, addentro all’animo io riponeva. Nell’anno poi quattordicesimo così le regole della grammatica e dell’arte versificatoria aveva apprese, da poter dire in prosa o in verso qualunque cosa ad alcuno piacesse; e molti carmi mandai fuori in quel tempo, non però molto efficaci: di poi subito incappando per sei mesi in una quartana, passato l’anno quattordicesimo accadde che il padre mi volesse mandare in Napoli per invito di Giulio Campanella professor di giurisprudenza; ma nel medesimo tempo volli professar la religione de’ Domenicani, avendo udito in quella un famosissimo predicatore, e da esso gustati i principj logici, e massimamente essendomi sentito preso della vita di san Tommaso e di Alberto Magno».

Vestitosi dunque domenicano col nome di frà Tommaso, pigliava parte alle pubbliche controversie che allora erano di moda, combattendo acremente i peripatetici. Principalmente in una in Santa Maria la Nuova a Napoli, vinse tutti, donde cominciarono le malevolenze, troppo solite contro chi primeggia, e l’astiarono i superiori del convento, ai quali


                              l’adulterato
Aristotele e l’irto sillogismo
Fruttavan agi riverenza e fama,

[p. 216 modifica]e che s’invelenirono allorchè comparve poeta, mago, astrologo. Contro di essi cercossi un protettore, ricoverando in casa dei marchesi Lavello (1590). — Ivi (narra egli nella sua autobiografia) sotto gli occhi di Mario del Tufo suo figliuolo, scrissi due opere: l’una Del senso, l’altra Dell’investigazione delle cose. A scrivere il libro De sensu rerum mi spinse una disputa, avuta prima in pubblico poi in privato con Giambattista della Porta, lo stesso che scrisse la Fisionomia, il quale sosteneva che della simpatia e dell’antipatia non si può render ragione: disputa con lui avuta appunto quando esaminavamo insieme questo suo libro. De investigatione poi scrissi, perocchè a me pareva che i peripatetici e i platonici per un’ampia via conducessero, ma non per la diritta, i giovani alla investigazione del vero. Il perchè, col solo senso e colle cose che si conoscono pe’ sensi, le quali io riduceva a nove generi di cose sensibili, avvisava poter far sì, che ciascuno, non per mezzo de’ vocaboli, come faceva Raimondo Lullo, ma per gli oggetti sensibili giungesse a ragionare, e la definizione essere inizio d’insegnamento ed epilogo di scienza da esporre altrui; quindi essere essa fine, non principio di scienza. Scrissi di poi un certo esordio di nuova metafisica, nel quale statuiva principi metafisici la necessità, il fato e l’armonia. Similmente inaugurai la filosofia pitagorica con un carme lucreziano, mosso veramente dalla lettura di Occello Lucano e dai detti de’ platonici. Ma nell’anno 1592 mi accusarono dicendo: Come sa di lettere costui, che mai non le imparò?

E prosegue: — Essendo inquieto, perchè mi sembrava una verità non sincera, o piuttosto la falsità in luogo della verità aggirarsi nel peripato, esaminai tutti i commentatori di Aristotele, greci, latini ed arabi, e cominciai a dubitare viepiù dei loro dommi, e perciò volli indagare se le cose che essi dicevano, ancora si leggessero nel mondo, che dalle dottrine de’ sapienti aveva appreso esser codice di Dio, vero. E poichè i miei maestri non potevano soddisfare ai quesiti che io traeva fuori contro i loro insegnamenti, statuii percorrere io stesso tutti i libri di Platone, di Plinio, di Galeno, degli stoici, de’ seguaci di Democrito e principalmente i telesiani, e paragonarli col codice primario del mondo, affinchè per l’originale ed autografo conoscessi che cosa gli esemplari contenessero di vero o di falso. Imperocchè quando io disputava in Cosenza, nonchè privatamente co’ miei frati, trovava poco di certo nelle loro risposte. [p. 217 modifica]Ma Telesio mi dilettò, tanto per la libertà del filosofare, quanto perchè pendeva dalla natura delle cose, non dai detti degli uomini; e perciò quando morì Telesio, a cui vivente non mi era stato lecito discorrere, gli feci una elegia». E nella prefazione alla Philosphia sensibus demonstrata: «Mentre io stava a Cosenza morì il grande Telesio, di cui non mi fu lecito udir le sentenze, nè vederlo vivo, ma morto e portato nel tempio, il volto suo discoprendo, io mi ammirai, e sparsi sul suo tumulo parecchi carmi».

Girò dappoi, come soleano i frati, ad Altomonte, a Roma, a Firenze, ove il granduca volle conferirgli una cattedra nell’Università di Pisa, poi a Padova. — Mentre io dimorava in Bologna, nascostamente mi furono involati tutti i sopradetti libri e certi carmi latini non dispregevoli, ed insieme un compiuto libro di fisiologia, con dispute contro a tutte le sètte, al quale dovean tener dietro altri diciannove libri già meditati. Ma nulla sconfortato da questa perdita, cominciai di poi in Padova a instaurare la filosofia di Empedocle, e scrissi una nuova fisiologia, giusta i proprj principj, mandandola a Lelio Orsino. Similmente, per volere del medesimo Orsino, un apologetico dell’origine e della pulsazione delle vene, de’ nervi e delle arterie, come commentario dell’Animal universo, e di altri scritti del Telesio: e lo feci contro il medico veronese Andrea Chioco, che avea scritto contro Telesio, mandandolo ad Antonio Persio telesiano, abitante in Roma presso Lelio Orsino. Dettai eziandio una nuova retorica per alcuni nobili scolari veneti. Dipoi portandomi a Roma perdei questi libri, ma quelli che mi erano stati involati in Bologna li ritrovai tutti in quella città nel Sant’Uffizio, ove interrogato li difesi; ma pur non li richiesi, essendo sul punto di rifarli migliori. In Roma adunque di nuovo dettai un Compendio di fisiologia, nè vi posi mai più cura: ma Tobia Adami nell’anno 1611 da non so chi avendolo ricevuto in Padova, lo fece di pubblico diritto sotto il titolo di Prodromo di tutta la filosofia del Campanella. Oltracciò cominciai un altro compendio di fisiologia, sperando risarcire la passata perdita di un gran volume, ed in questo proponeva le opinioni di tutti li antichi, e le conferiva con quelle de’ nostri: il quale inviai a Mario Tufo. Al medesimo Mario scrissi commentari della prestanza dell’arte cavalleresca. Similmente per altrui istanze una consultazione in lingua vulgare, se sia bene o no che la Repubblica Veneta permetta agli oratori degli altri principi parlar nella loro lingua in senato: e la [p. 218 modifica]diedi ad Angelo Correr patrizio veneto. Scrissi pure in Padova un Commentario sulla monarchia de’ cristiani, tale da dovermene compiacere; ove mostrava per quali arti la potenza cristiana crebbe e crescerà e per quali suol decrescere, e per quali sarebbe da restaurare, parlando politicamente; ed ivi istituiva un parallelo fra il regno e il re degli Ebrei, e il regno e i re ed imperatori cristiani. Similmente scrissi al pontefice del reggimento della Chiesa, con quali modi non sottoposti alle contraddizioni dei principi di tutto il mondo può il pontefice massimo, con le sole armi ecclesiastiche, fare un solo ovile sotto un solo pastore; e tutti questi ultimi diedi a Lelio Orsino e Mario Tufo; l’originale però mi rubarono in Calabria alcuni amici infedeli. A Roma aveva anche scritto versi toscani del modo del sapere, ed una fisiologia, ma li perdei amendue in Napoli. Composi pure a Roma una poetica secondo i proprj principi, la quale diedi a Curzio Aldobrandino cardinal San Giorgio, e va per le mani di molti, benchè un tale spagnuolo l’abbia vôlta in sua lingua, e vi abbia posto il suo nome. Il che quand’io vidi in Napoli nella rôcca regia l’anno 1618, diedi in un grandissimo riso; ma gli esemplari nostri che sono sparsi ovunque, attestano contro il plagiario; e lo stesso ladro poco accorto, quasi per coprire il furto, nel fine si scusa di citare poeti italiani, come l’Ariosto, il Tasso, il Guarino, essendo egli spagnuolo. Scrissi eziandio in Roma un dialogo in lingua vulgare, del modo di convincere gli eretici del nostro tempo, e tutti i settarj insorgenti contro la Chiesa romana, buono a qualunque mediocre ingegno e con un’unica e sola disputa; e lo diedi a Michele Bonello cardinal Alessandrino, e ad Antonio Persio; di poi trasfusi questo dialogo nella lettera antiluterana ai filosofi e principi oltramontani per istaurare la religione. Oltracciò, orazioni e politici discorsi e poesie toscane e latine in buon dato, da darsi agli amici, anche da spargere col nome loro. Qui pure cominciai a comporre versi toscani in metro latino come ve ne ha nelle nostre cantiche, e per sicure regole mostrai la prosodia del nostro sermone similissima alla latina, colla quale tu puoi conoscere la quantità di ciascuna sillaba; la quale opera diedi a Giovan Battista Clavio, medico dell’arciduca Carlo a Roma e a due giovani ascolani. Finalmente nell’anno 1598 terminai in Napoli un Epilogo di fisiologia ed una Etica: di poi volgendomi in Calabria a Stilo mia patria, composi secondo la nostra poetica una tragedia [p. 219 modifica]non dispregevole su Maria Stuarda regina di Scozia. Similmente scrissi degli argomenti de’ tomisti contro Molina, e diversi opuscoli per gli amici. Ma finiti tutti questi lavori, accadde a me quello che vien detto da Salomone: Quando l’uomo avrà finito, allora comincierà; quando riposerà sarà affaticato. E sorgendo la persecuzione, la quale tanto lungamente esercitò tanti altri, fui condotto a Napoli come reo di maestà».

Arditissimo pensatore ma disordinato, mal distingue le proprie illusioni dalle intuizioni, e cambia facilmente secondo la passione1. Fissosi a sottrarsi alle possibilità di Lullo e alle formole della scolastica, divaga nella speculazione di principj supremi organici per riordinare tutto il sapere e l’operare umano, e stabilire sopra l’esperienza una filosofia nuova della natura, «il libro dove il senno eterno scrisse i proprj concetti». Volendo però combinarla colla rivelazione, non potendo esser vero in filosofia ciò che sia falso in teologia, evita d’affrontare con indipendenza il problema fondamentale della metafisica, e intanto trascende i limiti teologici, per raffigurar la rinnovazione dell’uomo mediante la scienza. Venera la rivelazione, fondamento della teologia, come della filosofia è fondamento la natura; ammira san Tommaso e Alberto Magno, ma la procellosa insofferenza lo getta nelle temerità della logica; riprova i Gentili, non approva i Cristiani, i quali ex parte christianizant et ex parte gentilizant: disgustato dei peripatetici, predilige il Telesio per la sua libertà di filosofare; scriveva al granduca Ferdinando II lodando i padri suoi, che, col revocare la platonica, avessero sbandita la filosofia aristotelica, e sostituito ai detti degli uomini l’esperienza della natura. «Io con questo favore ho riformato tutte le scienze secondo la natura e la scrittura de’ codici di Dio. Il secolo futuro giudicherà di noi, perchè il presente sempre crocifigge i suoi benefattori, ma poi resuscitano al terzo giorno del terzo secolo». E mandandogli da Parigi le sue opere, — Vedrà (dice) che in alcune cose non mi accordo con l’ammirabile Galileo, suo filosofo e mio caro amico e padrone. Può stare la discordia degli intelletti con la concordia della volontà di amendue: e so che è uomo tanto sincero e perfetto, che avrà più a piacere le opposizioni mie (del che tra me e lui c’è scambievole licenza) che non le approvazioni di altri (6 luglio 1638)». [p. 220 modifica]

Secondo lui, tutto il creato consta di essere e non essere: l’essere è costituito di potenza, sapienza, amore, cui scopo sono l’essenza, la verità, il bene, mentre il nulla è impotenza, odio, ignoranza. L’Ente supremo, nel quale le tre qualità primordiali sono une, benchè distinte, nel trar le cose dal nulla trasferisce nella materia le inesauribili sue idee, sotto la condizione di tempo e di spazio; e vi comunica le tre qualità che divengono principj dell’universo sotto la triplice legge della necessità, della provvidenza, dell’amore. Così procedendo per triadi, contro i machiavellisti difende la libertà del sapere e i diritti della ragione; contro gli scettici stabilisce un dogmatismo filosofico sopra il bisogno che la ragione prova di raggiungere la verità, a segno, che, per impugnarlo, anche lo scettico ha mestieri di certi postulati. Al qual vero egli suppone che l’umanità arrivi per una scala, la quale ricorda l’educazione progressiva dei Lessing. Perocchè mette che Iddio, dalla prima antichità, parlò agli uomini mediante le varie religioni, rivelandosi agli Assiri cogli astri, ai Greci cogli oracoli, ai Romani cogli auspicj, agli Ebrei coi profeti, ai Cristiani coi Concilj, ai Cattolici coi papi, dilatando, la cerchia delle sue rivelazioni man mano che lo scetticismo e l’incredulità corrompevano i popoli. Le scoperte moderne sono l’ultimo termine di questa tradizione divina, che, sempre superiore alle operazioni deplorabili e alla gretta politica degli uomini, finirà col congiungere tutti in una sola credenza, in quell’unità del genere umano che Augusto intravide, e che la ragione esige affinchè cessino i flagelli naturali, e le regioni più diverse ricambiino fra sè tutti i beni.

Non vi pare questa una pagina de’ Sansimoniani?

I suoi concetti filosofici e politici atteggiò nella Città del Sole, specie di utopia, dove il frate; non sa dimenticar la gerarchia e le regole claustrali, ma che previene di due secoli i falansteri e le fraternite de’ socialisti nostri contemporanei. Vinta l’imprevidenza dell’uomo, l’antagonismo degli Stati, sin la fatalità della natura, si formerà una società felice, dove (tacendo il resto) un nuovo culto senza misteri raccoglierà nel tempio medesimo le immagini di Pitagora, di Cristo, di Zamolxi, dei dodici apostoli.

Eppure il Campanella era un intollerante. Coi novatori non vuole si stia a disputar su minuzie di parole sacre; ma si domandi, — Chi v’ha mandato a predicare? Dio o il demonio? Se Dio, lo [p. 221 modifica]mostrino coi miracoli: se no, bruciali se puoi, o gl’infama. In nessun modo si facciano discussioni di grammatica o di logica umana, ma soltanto di divina, e non moltiplicare parole o allungar il diverbio, lo che è una specie di trionfo a chi sostiene il torto. Bisogna dannarli al fuoco secondo le leggi imperiali, perchè tolgono fama e roba a persone autorizzate da Dio con lunga successione, quali sono il papa e i religiosi. Il primo errore che s’è commesso fu il lasciar vivo Lutero nelle diete di Worms e d’Augusta; e se Carlo V il fece (come dicono) per tener il papa in apprensione, e così obbligarlo a soccorrere esso Carlo di danari e indulgenze nelle aspirazioni verso la monarchia universale, operò contro ogni ragion di Stato, perchè snervando il papa s’indebolisce tutto il cristianesimo, e i popoli si ribellano col pretesto della libertà di coscienza2.

Sulla Spagna riconosceva il marchio della predilezione divina perchè cattolica e destinata ad abbattere l’islam e l’eresia, e assicurare il trionfo della Chiesa vera, quando, restaurata l’unità del mondo, rifabbricherà il tempio di Gerusalemme. Consiglia a quel re di remunerare i più dotti teologi; «ne’ consigli supremi aver sempre due o tre religiosi, Gesuiti, Domenicani, Francescani, per cattivarsi gli ecclesiastici e fare che i suoi ufficiali sieno più accorti in non errare e più autorevoli nelle loro determinazioni: in tutte le guerre ogni capitano deve avere un consigliere religioso, perchè i soldati riveriranno più i precetti loro, e non si tratterà cosa senza saputa loro, e massime le paghe che si danno a’ poveri soldati debbano per mano di religiosi passare»3.

«Quella medesima costellazione che trasse fetidi effluvj dalle cadaveriche menti degli eretici, valse a produrre balsamiche esalazioni dalle rette intelligenze di quelli che fondarono le religioni de’ Gesuiti, de’ Minimi, de’ Cappuccini»4.

«I dominj sono costituiti da Dio, dalla prudenza, dall’occasione. La parte che vi ha Dio, mantiene il sacerdozio: i sacerdoti riconoscono le cose che si devono fare; i governanti le comandano; soldati e artéfici le eseguiscono. Il sacerdozio non devesi far vulgare perchè perde dignità e credenza; ed è ignoranza dei Calvinisti il creder che tutti siano sacerdoti»5. [p. 222 modifica]

Altrove attacca quel «tedesco luterano, che nega l’opre ed afferma la fede»6: e ripetutamente combatte Lutero e Calvino, insegnatori di dottrine avverse alla politica naturale. «La setta luterana e calviniana, che nega la libertà dell’arbitrio e di far bene o male, non si deve mantener in repubblica, perchè i popoli ponno rispondere ai predicante della legge che essi peccano per fato, e possono osservare che non sono liberi in questo. Oggi gli oltremontani, negata l’autorità del papa, negarono l’opera della fede che se gli predicò; poi negarono la libertà di far bene e male; poi negarono i santi e il peccato e si fecero libertini, poi negarono la provvidenza, poi l’immortalità, come in Transilvania. Molti finalmente negarono Iddio e fecero un libro abbominevole De trìbus impostoribus7. E nelle Lettere, professando esatta ortodossia, dice che il dogma della predestinazione «fa li principi cattivi, li popoli sediziosi, e li teologi traditori».

«S’inganna chiunque dice che il papa non ha se non il gladio spirituale e non il temporale, perchè la monarchia sua sarebbe diminuita mancando di questo, e Cristo Dio legislatore sarebbe diminuito; cosa imprudente ed eretica ad affermarsi. La religione, nella quale il sommo sacerdote non regna con le armi, non può capire più principati, se non faranno sètte di eresie; e però i Persiani, i Turchi, i Tartari e quelli di Fez, morì sotto il sacerdozio di Macone disarmati, vivono ognuno con l’eresia propria senza da un capo pendere; imperò ivi fa eresia: Ma sotto il papato, sacerdozio cristiano armato, vi è il re Gallo, lo Spagnuolo, il Germano, il Veneziano, potentissimi signori sotto la medesima religione senza far eresie. La maggioranza del papa giova ai principi cristiani temperati di signoria, perchè agguaglia le loro differenze; è arbitro della pace e guerra giusta, e inclina colle arme alla parte che ha ragione, ed astringe [p. 223 modifica]a cedere chi ha il torto, o li unisce contro li gemici del cristianesimo, o li disunisce dai nimici; e contro ai buoni o tristi regnatori accomoda le cose loro e del cristianesimo.... Nè può sfrenar le sue voglie un principe che vive sotto una religione, la quale ha il sommo sacerdote armato che tenga maggioranza sopra di lui.... Dunque la monarchia cristiana va declinando sempre, finchè arriva in man del papa».

Per mantenere la monarchia in questa religione, altri si sono dichiarati del tutto ministri del papa e liberatori, come Carlo Magno e Costantino; «ma i figli inimicandosi col papa mancaro. Altri vollero fare il papa senz’armi temporali, e fecero rovina più che acquisto, e nacquero Ghibellini e Guelfi, Papali e Imperiali; altri fecero eresia di Ario e di Lutero, come Arrigo Vili, ma tutti rovinaro come Jeroboamo e Acab. Giuliano tornò alla gentile, e rovinò col vecchiume»8.

Le stesse idee ribadisce nei Discorsi politici ai principi d’Italia: — Aggrandire ed esaltare il papato è il vero rimedio di rassicurarci di non esser preda del re di Spagna, e di sostenere insieme la gloria d’Italia e del cristianesimo.... Talchè, per assicurarsi dal re di Spagna, devono gl’Italiani solo attendere ad autorizzare il papato con fatti e scritti e parole, perchè in questo sta la sicurtà loro.... Per la sicurezza dei Stati e contra interni principi, è necessario il papato ricco e potente. Dipiù il papato non è principato peculiare d’alcuno, ma di tutto il cristianesimo; e quanto possiede la Chiesa è a tutti comune, e quel che donano i principi e le persone pie ai religiosi non è dare, poichè essi e i figli loro ponno diventar padroni di quel dato; ma è un mettere in comune e far tesoro per il bene pubblico. Il papato dunque è il tesoro del cristianesimo; talchè gl’Italiani devono sempre fomentar le ricchezze dei religiosi, perchè quelle sono del comune, e fanno mancar la forza agli emuli loro....

«Ma questo principato è più proprio d’Italiani, perchè li papi e cardinali sono per lo più italiani, e fomentano sempre la sicurtà. Pertanto io dico che i principi italiani, non aspirando a monarchia, tutti devono far la Chiesa romana erede de’ Stati loro quando mancasse la linea legittima di loro progenie, e con questa maniera, con successo di tempo s’anderia acquistando la monarchia italiana e la [p. 224 modifica]gloria ancora; e le repubbliche dovrieno far una legge che, venendo esse in mano di tiranno, s’intenda la signoria loro esser devoluta alla Chiesa romana; e certo se amano il ben d’Italia questo devono fare.... Intanto dovrebbe farsi a Roma un senato cristiano, dove tutti i principi avesser voce per mezzo di loro agenti: il papa vi presedesse per mezzo d’un collaterale: vi si risolvesse a pluralità di voti sulla guerra agl’infedeli ed eretici, sulle differenze tra principi, obbligando colia guerra qual vi si rifiutasse»9.

Soliti rifugi.

Esorta l’Italia a tenersi stretta agli Spagnuoli perchè cattolici, mentre gli altri forestieri, essendo eretici «le torrebbero l’unica gloria rimastale, il papato». E gran rispetto si deve al papa che «solo con la venerazione difende più gli Stati suoi, che gli altri principi coll’armi: e quando è travagliato, li principi tutti si muovono ad ajutarlo, altri per religione, altri per ragioni di Stato»10.

O come un tal uomo udiamo citarsi tuttodì quale una vittima della intolleranza cattolica e un martire della Inquisizione romana? Niente a meravigliarsene quando si sappia che gli storici sempre scrivono a passione, e la più parte ripetono il detto, senza vagliarlo. Il Campanella, studiando i filosofi a paragone del senno eterno, cioè della natura, trovò che la legge di Cristo, a fronte di tutte le altre e delle filosofie, è identica a quella della natura, ma avvalorata dalla Grazia e dai sacramenti. Ben nella Chiesa cristiana conosceva mal osservati i precetti divini: Lutero e Calvino però erangli l’anticristo, Aristotele la causa del disordine scientifico, Machiavello del morale e politico11. Pertanto mirava a una riforma, a un rinnovamento del secolo, intorno al quale disponeasi a dissertare nell’anno del giubileo: la conversione delle nazioni, profetata da santa Brigida, da Dionisio Cartusiano, dall’abate Gioacchino, da san Vincenzo Ferreri, da don Serafino da Fermo, da santa Caterina, la quale predisse che i fratelli di san Domenico porteranno l’ulivo della pace ai Turchi12. [p. 225 modifica]

Con tali idee tornato nella Calabria il 1598, vi trovava soffogate ma non estinte le dottrine dei Valdesi; bollenti le contese di giurisdizione ecclesiastica cogli Spagnuoli, e il vescovo Montario n’era fuggito, lanciando l’interdetto sulla città di Nicastro. — Tutte le città principali (scrive egli stesso) oltre le discordie tra gli ecclesiastici e i regj, erano divise in fazioni; e tutti i conventi erano pieni di banditi, e il vescovo li dava da mangiare per zelo della giurisdizione, mentre erano assediati dagli sbirri in sostegno delle attribuzioni regie». Il Campanella s’intromise di pace fra il vescovo e la città, ascoltato, dice il Naudée, come un oracolo; ma con ciò spiacque a coloro, cui le risse giovavano nè la scomunica facea paura; e viepiù quando sostenne le pretensioni ecclesiastiche contro del Governo. Straordinarie inondazioni, tremuoti, eruzioni di vulcani lo persuasero che il rinnovamento fosse vicino: e doverne essere stromento lui, che sentivasi capace «d’insegnar in un solo anno la filosofia naturale, la morale, la politica, la medicina, la retorica, la poesia, l’astrologia, la cosmografia e ogni altra scienza, e di render abile ogni mediocre ingegno a convincere in una sola disputa tutti gli eretici»: e che cantava:

Io nacqui a debellar tre mali estremi,
Tirannide, sofisma, ipocrisia:
Stavano tutti al bujo, io accesi il lume13.

La fede può tutto: nulla è impossibile al credente, pensava egli: e più l’incoraggivano i delirj astrologici, perocchè, dic’egli stesso, «degli astrologi un tempo fai nimicissimo, e in gioventù scrissi contro di loro, ma dalle mie sventure imparai che molte verità scoprono essi»14. Computando sulle nuove scoperte celesti, avea veduto come certe grandi innovazioni succedono nel mondo ogni ottocento anni. Una fu al tempo di Cristo; e ora stavano per compiersi la seconda volta gli ottocent’anni15, sicchè si attuerebbe una civiltà religiosa, che fosse il regno della ragione eterna nella vita dell’umanità. [p. 226 modifica]

Avendo tali persuasioni è facile credere che tentasse qualche novità: più facile che ne venisse sospettato; novità diretta a sovvertire la dominazione spagnuola in Calabria, benchè dappoi fosse lodatore esagerato degli Spagnuoli: e traendo divinazioni dagli astri, dall’Apocalissi, da varj santi, insinuava che nel 1600 accadrebbero grandi rivolture nel regno di Napoli. Fosse egli motore o stromento, si formò in fatti una cospirazione di trecento frati e quattro vescovi. Faceano la propaganda delle sue speranze fra Giambattista di Pizzoli, fra Pietro di Stilo, frà Domenico Petroli di Stignano ed altri venticinque domenicani del convento di Pizzoli; principalmente frà Dionigi Ponzio smaniava di levar tumulto per ammazzare certi frati che aveano fatto ammazzar suo zio: e valeasi delle parole del Campanella; poi preso, riuscì a fuggire, e si fe turco.

Costoro trovarono ascolto ne’ casali e tra le famiglie di Catanzaro, di Squillace, di Nicastro, di Cerifalco, di Taverna, di Tropea, di Reggio, di Cassano, di Castrovillari, di Sant’Agata, di Cosenza, di Terranova, di Satriano, insomma in quasi tutta Calabria. Già milleottocento banditi eransi raccolti, e ogni giorno altri se ne ragomitolavano; tenevansi intelligenze colla flottiglia turca del bascià Cicala. Trucidati i Gesuiti e i frati che non aderissero, prosciolte le monache, bruciati i libri, fatto statuti nuovi, doveano fondar una repubblica, cui centro sarebbe Stilo, patria del Campanella, appoggiati dai Francesi, come sempre i sommovitori dell’Italia.

Fernando Renitz de Castro, vicerè di Napoli, n’ebbe notizia, e fece arrestare i rei ed impiccare alle antenne delle galee. Il Campanella, ch’erasi rimbucato in un pagliajo, fu denunziato e consegnato al nobile Carlo Spinelli, eletto commissario speciale. I frati reclamarono il privilegio del fôro, onde salvi dalla forca, vennero dati al Sant’Uffizio. A questo spettava pure processare il Campanella, ma si volle far prevalere il delitto di Stato, e il fiscale Sanchez personalmente recossi a Roma onde ottenere che potesse venir torturato per quarantott’ore con funicelle sino alle ossa, stirato sulla corda colle braccia arrovesciate, e spenzolando sopra un legno acuto, e tagliatagli la carne, del che stette poi lunghissimo tempo malato. «Come s’arresterebbe il libero procedere dell’uman genere (esclama il Campanella) quando quarantott’ore di tortura non poterono piegare la volontà d’un povero filosofo, e strappargli neppur una parola che non volesse?» [p. 227 modifica]

Tale è la leggenda. Persone, che consideravano come delitto l’apostasia e la cospirazione, cercarono scagionare il Campanella16: altri che giudicavate eroismo, sostenne l’opposto17. Il servile Parrino e dietro a lui il Giannone, poi il Botta copiandoli, il fanno reo di aver cospirato contro la monarchia spagnuola con frati e vescovi. In somma si è tuttora incertissimi sul costui processo, e tre differenti ne esistono; uno che mostra volesse ribellar il regno per sottoporlo al papa; uno per darlo al Turco; uno per ridurlo a repubblica eretica; poi nel Sant’Uffizio se ne costruì un nuovo, dove i testimonj delle predette accuse si ritrattarono18. Forse alcuni, raccogliendo parole sparse e avventate, lo denunziarono come cospiratore: lanciata una accusa, ogni scaltrito sa come sostenerla e darle apparenza di vero, al che singolarmente s’adoprò l’avvocato fiscale Luigi Xarava, che per le quistioni giurisdizionali essendo stato scomunicato, avea preso vendetta coll’erigere un processo contro Clemente Vili e vescovi. L’assecondarono quei molti che sempre avversano chi ha ingegno distinto e opinioni non comuni; ma difensore del Campanella fu sempre il papa. Il Giannone (lib. XXXV, 1), ricalcando il Parrino come suole, dice che il Campanella aveva in Roma sostenuto lunga prigionia «per la sua vita poco esemplare, e anche per sospetto di miscredenza», dopo di che fu rimandato al suo convento di Stilo. Nulla di ciò risulta; e il nunzio pontifizio, dandone ragguaglio l’11 febbrajo 1600, non ne far cenno: bensì che a quella sua [p. 228 modifica]azione non avea mai voluto dar nome di ribellione, «ma detto che volea fare repubblica la Calabria per mezzo delle armi e delle prediche, quando però seguissero i garbugli d’Italia, che lui si era presupposto». E in fatti, se macchinò, non dovea mirare a sovvertimento, bensì a organare il paese al modo della sua Città del Sole, ricongiungendo la legge di natura colla cristiana.

Chiuso in castel Sant’Elmo «dentro a una fossa oscura, ventitre gradi sotterra, sempre alla puzza, oscuro e acqua, e quando pioveva s’empia d’acqua e mai entrava luce; inferrato sopra uno stramazzo bagnato con appena mezzo reale di vitto», senza libri, senza comunicazione, scrisse varie opere, lodate perchè d’un martire, come l’intitolarono, ma dove la vanità è pari all’immensa inopportunità. Per riguardo al re lodava la Spagna: per riguardo al papa protestava della sua ortodossia; prometteva, se lo lasciasser libero, comporre libri che convertirebbero i Gentili delle Indie, i Luterani, gli Ebrei, i Maomettani: e in prova dice aver fatto un’esposizione del capo Vili dell’Epistola ai Romani, della quale moltissimo si giovano Calvinisti e Luterani.

Lettere sue ultimamente pubblicate, se nulla aggiungono alla cognizione del suo intelletto, attestano un esaltamento che tocca alla pazzia, se non vogliasi perdonarlo alla sua smania di liberazione, stando «dentro una fossa puzzolente dove non vedo giorno, sempre inferrato e morto di fame e di mille afflizioni fra cinquanta leopardi che mi guardano.... Son accusato per ribello ed eretico, per lo che otto anni cominciano che sto sepolto.... Sono stato preso io e molti frati per ribello, quasi volessimo ribellar il regno a favor del papa, in tempo che molti officiali e baroni del regno erano scomunicati e perseverano, e la città di Nicastro interdetta, e in tutte queste cose io mi trovai, e fu gridato in seminario Viva il papa dal clero,, che armata mano liberò un chierico dalle carceri secolari. Furo necessitati gli amici di dire che ribellavano per far eresie, e non per il papa: altrimenti morivano tutti de facto inconsulto pontifice».

Così scrive al cardinal Farnese19, e proseguendo, dà in delirj astrologici, promette mari e monti a migliorar il regno di Napoli, fabbricare al re una città mirabile, salubre, inespugnabile, che sol mirandola s’imparino tutte le scienze storicamente; far vascelli che senza remi navighino anche tacendo il vento, quando gli altri stanno [p. 229 modifica]in calma, con magistero facile; far camminare li carri per terra col vento; far che i soldati a cavallo adoprino ambe le mani senza tener la briglia, e guidar bene il cavallo; e far libri contro dei machiavellisti e della dottrina greca, zizania del Vangelo, e persuadere all’unità, convertire i principi di Germania e screditare Calvino. Conchiude firmandosi frà Tommaso Campanella spia delle opere di Dio.

Sul tenore stesso va una lettera latina al papa e cardinali. Post Lutherum triginta annos expectatur antichristus magnus, ut prophetavit Joachinus abbas, qui etiam Lutheri adventum prædixit, et astipulantur Ubertinus et Joannes Parisiensis, et d. Seraphinus Firmanus et alii multi; jam præesens est, vel anno 1630 revelabitur: et hoc tempor e luna convertetur in sanguinem, etc... Dixit Dominus ad divam Catherinam nostram, renovationem Ecclesiæ mox futuram, de qua D. Vincentius et B. Joannes episcopus et B. Egidius et Savonarola, et B. Brigida et B. Raymondus et magister Caterinus expectant, et alii innumeri, et ille Firmanus vir prudens et spiritualis: et addidit se facturum flagellum de funiculis creaturarum malarum ad purgandam Ecclesiam ab ementibus et vendentibus. Quis autem non vidit illud? In Græcia ìnvaluit, in Germania convaluit, in Italia præsto est. Ego natus sum contra scholas antichristi, contro Aristotelem qui dixit mundum æternum, et æquinotia et stellas et motus semper eodem ordine et situ et modo fieri. Et ego ostendam quod non perseverant sicut ab initio, et quod verum est quod dicit D. Seraphinus, quod Aristoteles et Averroes sunt unum de septem capitibus Antichristi, et phiala iræ Dei.... Machiavellus dogmatisavit cum eo quod religio sit inventìo sacerdotum et illusio populorum: et ubi Macometus et Lutherus non habent potestatem (hoc est in Italia et Hispania) regnant Machiavellus et Politici.

E la tira innanzi lunghissima ed irta di citazioni; e raccomanda allo Scioppio di presentarla: Si porrigas pontifici literas, non malum puto. Si de miraculis qua? policeor riserit, dicito me habere fidem, quantum sinapis grammi.

Di simil tono scrive al re di Spagna, all’imperatore, agli arciduchi d’Austria, quoniam reipublicæ Christiana salus omnis in invictissima, piissimaque familia vestra versatur.

Ad esso Scioppio dicea: Videant me non modo ho3reticum non esse, sed etiam a Deo excitum ad omnes haìreses eliminandas, precipue vero philosophorum et astronomorum et latentium machiavellistarum, . [p. 230 modifica]quorum opera evangelium latet. E lo esorta a persuadere al pontefice ch’egli non opera per magia o strologamene ma per vera fede, e crede che miracoli evidenti accadranno per convertire i Tedeschi e far unire contro i Turchi; confida che, coll’ajuto di Dio, svellerà dalla mano dei Luterani san Paolo: con un solo argomento insegnerà anche agli illetterati a sterminar tutte le eresie. «S’io dirò ai Luterani, Passiamo pel fuoco, e chi sarà abbruciato non è da Dio, credi che l’oseranno? ma io sì. Così il padre mio Domenico e san Francesco sedarono le eresie: perchè non gl’imiterei?»

E miracoli proponeva, appellandosi a Pio V contro le testimonianze false di suoi compatrioti, che erano premiati e decorati se lo avversavano, sospettati se lo difendevano; laonde invoca d’esser tratto a Roma. Accenna bensì che fu accusato d’eresia, ma dice la inventarono i frati per sottrarlo al giudizio secolare di ribellione; mentre invece i ministri del re l’accusavano di voler rivoltare il paese a vantaggio del papa. Egli stesso avere chiesto di far rivelazioni al vescovo di Caserta e al nunzio: ai quali mostrò come avesse tolto a paragonare la legge di Cristo colla pitagorica, stoica, epicurea, peripatetica, telesiana, e tutte le sètte antiche e moderne e le leggi, e assicuratosi che la pura legge di natura è la legge di Cristo: saper ribattere le difficoltà che nascono sul nuovo mondo, e sull’incarnazione, sulle profezie, sui miracoli. Il vescovo trovò che aveva poca umiltà, e che, avendo vagato per tante sètte, non era troppo ossequioso a Cristo. Se anche ciò fosse, egli dichiara non essersi mai ostinato; altrimenti sarebbe uscito d’Italia: e giura stare saldissimo nella fede20.

Fu egli panteista? No nell’intenzione, giacchè professa aver Dio creato le cose dal nulla, da sè e non della sostanza di sè21: bensì, [p. 231 modifica]è panteista di conseguenza, dicendo che Dio crea per una certa emanazione. Che se l’uomo possiede un’intelligenza immortale, quanto meglio il mondo, che più di tutti è perfetto? Che tutto abbia vita e sentimento gli sono prova la calamita e il sesso delle piante; e con eloquenza dipinge le simpatie della natura e l’effondersi della luce in tutte le parti con un’infinità di operazioni, che non è possibile si compiano senza voluttà.

Cartesio, il quale pur era tutt’altro che avverso alle novità, scrive: — Quindici anni fa ho letto il libro De sensu rerum ed altri trattati del Campanella, ma fin d’allora trovai sì poca solidità ne’ suoi scritti, che non ritenni memoria di cosa alcuna. Non saprei ora dirne altro se non che, quelli che si smarriscono affettando battere strada straordinaria, mi pajono meno compatibili di quelli che si smarriscono in compagnia di molti altri».

Dotti e principi presero interesse pel Campanella; Paolo V spedì lo Scioppio a Napoli per trattare della sua scarcerazione: e questi, se non altro, gli ottenne di poter leggere e scrivere e carteggiare. Urbano Vili riuscì alfine a trarlo a Roma, col pretesto che al Sant’Uffizio competesse il giudicarlo, perchè avea professato magia; anzi lo prese tra’ suoi domestici per aver occasione di fargli un annuo assegno, di che Gabriele Naudée lo ringraziò con lungo panegirico. Ivi era careggiato da molti, e fra altri conobbe l’ambasciador francese duca di Noailles che lo colmò di cortesie. Viepiù lo detestarono gli Spagnuoli, che un giorno s’affollarono attorno al palazzo di Francia, chiedendo d’averlo nelle mani, e bisognò la forza per dissipare il gentame. Pertanto e il papa e l’ambasciadore lo consigliarono a trasferirsi, sotto spoglie e nome mentito, a Civitavecchia e imbarcarsi per Francia (1634). A Marsiglia Claudio Peirese, di letterati fautore caldo e intelligente, mandò a prenderlo colla propria lettiga, e l’ebbe seco più giorni ad Aix, donde il fe portare a Parigi. Quivi Luigi XIII, il cardinale Richelieu, il vescovo di Rohan lo colmarono d’onori e pensioni: egli consigliere di Stato, egli presidente all’Accademia, sempre in corrispondenza con Urbano VIII, finchè morì il 21 maggio 1639, e fu sepolto con pompa regia e numerosissimo concorso.

Tutti gli storici della filosofia tennero conto del Campanella, chi esaltandolo come originale, chi trattandolo da impostore. Pretendesi che molte opere sue fossero usurpate da altri, ed egli [p. 232 modifica]stesso lo asserisce, come vedemmo. Più facile è l’indicare alcuni suoi principi, divenuti fondamento di altrui dottrine. Così molto si valse di esso la scuola di Portoreale per combattere gli Aristotelici. Il Rosmini suppone abbia il Leibniz desunto da lui il sistema delle monadi, e per verità la teodicea e l’ottimismo del gran tedesco trovansi in germe nelle Poesie filosofiche e in altri lavori del Campanella. Il concetto che in natura nulla si distrugge, ma solo si metamorfosa e si ricompone sotto altre forme, sempre convertendosi e riconvertendosi, Herder lo trasse dal Campanella, pel quale mostra gran venerazione. Esso Campanella (Médicinal. lib. III e VII) dice che la febbre può considerarsi come uno sforzo che fa l’anima contro le malattie: e questa è la dottrina più tardi insegnata dallo Stahl.

Principalmente in questi ultimi anni se ne ridestò la memoria e ripubblicaronsi opere e anche scritture inedite. Herder nell’Adrastea ne stampò le Poesie filosofiche, ristampate a Zurigo il 1834 da Gaspare Orelli; il Garzilli nel 1848 riprodusse a Napoli i Discorsi politici ai principi d’Italia; Villegardelle, Rosset, Tissot voltarono in francese la Città del Sole; Colet, D’Ancona, Baldacchini ne scrissero: aspettasi ancora un giudizio spassionato e intero.


  1. Allo Scioppio scrive: — Mens mea subito in id quod cupit immutatur».
  2. Città del Sole, cap. XXVII. Della monarchia spagnuola, c. 27.
  3. Aforismi politici, 75, 78, 81, 83.
  4. Aforismi, 70.
  5. Della monarchia spagnuola, c. 6.
  6. Poesie, pag. 100.
  7. Aforismi, 84, 87. Quando si asserisce non esister il libro De tribus impostoribus, bisogna intendere l’antico. Il Campanella, nell’Atheismus triamphatus, dice che uno ne fu stampato trent’anni prima della sua nascita, il che lo porterebbe al 1538: e un’indicazione così precisa, e in lavoro polemico, farebbe credere l’avesse realmente veduto. Quel che ora conosciamo col titolo De tribus impostoribus magnis liber, sebbene supposto del 1598, è di Cristiano Kortholt, stampato ad Amburgo il 1701 in-4°. A Yverdun, nel 1768, fu stampato un Traité des trois imposteurs, che si finge tradotto, ma in realtà è tutt’altr’opera.
  8. Aforismi, 70, 88, 89, 90, 91.
  9. Discorso II sul papato.
  10. Discorso II del papato.
  11. «Utinam non serperet interius hujusmodi pestis, quam Machiavellus seminavit, docens religionem esse artem politicam ad populos in officio, spe paradisi et timore infernorum, retinendis». Ateismo trionfante.
  12. Sue parole in una relazione sincrona della congiura, pubblicata nel 1845 dal Capialbi.
  13. Poesie filosofiche, pag. 26, 141, 116.
  14. De sensu rerum et magia, IV, 20.
  15. «Conjunctiones magnae in quolibet trigono perseverant annis fere ducentis, et possunt in subditis: mox transeunt ad subsequens, et subvertitur omnium circulus in 800; et tum in rebus dura mutatio». Ib.
  16. Vedansi Vito Capialbi, Documenti inediti circa la voluta ribellione di Tommaso Campanella, Napoli, 1840, e Michele Baldacchini, Vita di T. Campanella, Napoli, 1840, e con molte variazioni nel 1847.
  17. Vedi Salvatore de Renzi, La cospirazione di Calabria del 1599.
  18. Il dottore Francesco Antonio Contestabile, di Stilo e quasi contemporano a quegli avvenimenti, dice «che questi furono partoriti dall’odio ed invidia della singolar dottrina del Campanella», che per l’incredibile sua affezione verso la sapienza fu imputato e travagliato dai suoi frati, e poi ripiglia così: — Inoltre per corroborazione che un tal fatto fosse stato aereo e supposto dai suoi malevoli.... si provò, che di tal pretesa ribellione si sono compilati tre processi, uno contrario all’altro e così nullamente agitati al sentimento de’ giuristi, e lo riferisce Specul nel titolo De recusat. Nel 1° si disse, che Campanella volea ribellare il regno per darlo al papa; nel 2° che lo volea donare al Turco; e nel 3° che pretendeva formare una repubblica eretica da sè stesso. E contro de’ detti processi se ne formò poi un altro nel Santo Officio nel quale i testimonj si han ritrattato in utraque causa e di quanto vanamente avean deposto».
  19. Archivio storico del 1856.
  20. Lettera 13 agosto 1606 nell’Archivio storico del 1866. Di maggiore pazzia dà segno un’altra lettera di 20 giorni più tardi, ove dice aver interrogato il demonio, e saputo che nel 1607 la podestà pontificia soffrirebbe gran danno, e nel 25 v’avrebbe due papi, e altri avvisi e profezie a che non basteria sei fogli di carta»: e dopo rovinato il papato, sorgerà un papa divino (l’antico sogno del papa Angelico), ed altri che avran lo Spirito santo manifesto, e trarranno alla fede Turchi e Settentrionali. Si badi ai flagelli onde son percosse la Germania e Venezia. Non tengasi fede ai principi, che non agognano se non alle entrate della Chiesa. Per riparare vuolsi la penitenza; impedir che i principi gittino a terra i canoni, e alzino le lora costituzioni, e neghino al papa il gladio materiale.
  21. Quæst. II, ne’ libri fisionomici.