Italiani illustri/Pasquale Paoli
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Gli abitanti dell’isola di Corsica, verso il mille, aveano costituita a municipio la Terra del Comune, divisa in valli o distretti, formanti una pieve, e ogni pieve in parrocchie, aventi ciascuna un podestà annuale, assistito dai padri del Comune, i quali nominavano un caporale che facea da tribuno nel popolo; i podestà eleggevano un Consiglio di dodici cittadini, con autorità legislativa.
Contro del popolo stavano i baroni, e la lotta incessante abituò alle armi e alla fierezza. Il popolo chiese protezione al marchese Malaspina di Lunigiana, ed egli sbarcato vi restituì qualche ordine, e collocò l’isola sotto la supremazia del papa, che v’istituì sei vescovi, suffraganei al metropolita di Pisa. Pisa allora appunto avea preso signoria sulla Corsica, ma le fu tosto disputata dai Genovesi, che poi l’ebbero intera, e la governarono alla peggio. Per reprimere i baroni, che non cessavano la guerra fra loro e le prepotenze sui Comuni, armarono i popolani, dando il diritto a diciotto famiglie caporali di far soldati per resistervi, stipendiati da Genova. Ebbero così organizzata la guerra civile, e le case baronali perirono quasi tutte, i caporali sottentrarono alle costoro arroganze; ricorrendo chi al papa, chi agli Aragonesi, chi ai Genovesi, che tutti vantavano pretensioni diverse alla sovranità dell’isola, la quale continuò ad essere insanguinata dalla rabbia civile. Per togliersi a un disordine senza pari, i Côrsi si sottomisero spontanei al Banco di San Giorgio di Genova, sperando migliori condizioni che dalla Repubblica, e traendone intanto denari. Secondo i patti, ai baroni doveano conservarsi i titoli e i diritti, eccetto quello di sangue; stesse l’alto dominio della santa sede; libero il traffico del sale; giustizia a tutti, protezione contro gli esterni assalti.
Ma la pace non venne; e il Banco, governando con avidità mercantesca, smungeva i Cismontani, e faticava per sottomettere l’Oltremonti, che tenevasi ancora fedele agli Aragonesi; finchè, repressi i baroni, e per ultima la casa di Leca, acquistò anche quel paese, dove fondò Ajaccio. Ma ecco la famiglia Della Rôcca erigersi centro dei malcontenti; e quando fu vinta, San Giorgio pretese non dover più osservare i patti, come a gente ribelle e soggiogata; e oppresse in pace quelli che si erano straziati fin allora in guerra, e che mancavano d’ordinamenti civili da opporre agli aristocratici arbitrj di Genova.
Giorgio Doria, venuto governatore in Corsica, pubblicò perdonanza generale; e l’isola, che tuttavia ripeteva «Piuttosto i Turchi che i Genovesi», dovette rodere il freno: ma invece del Banco di San Giorgio, fu sottomessa alla Repubblica, che la trattò da vinta. Vi cambiava ogni due anni gli uffiziali; cioè un governatore generale e capitano con autorità di sangue, assistito da un fiscale; e luogotenenti a Calvi, Algajola, San Fiorenzo, Ajaccio, Sartena, Bonifazio, Vico, Cervione, Corte, per render giustizia. All’uscire subivano tutti il sindacato sotto sei persone, genovesi o côrse indistintamente, di cui tre erano del popolo, tre della nobiltà. Presso al governatore risedevano dodici Cismontani e sei Oltremontani, eletti dalle città principali; i Comuni si amministravano liberamente, eleggendo il podestà e i sindaci e anziani comunali. Tutto però era guasto dall’imperfettissima giustizia. I nobili genovesi, cui erano riservati gl’impieghi, vi venivano senza conoscerne le leggi e le costumanze, avidi di guadagnare meglio che gli esigui stipendj, e rifarsi così di quanto aveano speso pel broglio. Il governatore biennale di Bastìa, di potenza illimitata nella civile e nella militare amministrazione, oltre un grosso stipendio, riceveva il mantenimento dal paese, il venticinque per cento delle ammende e confische; potea condannare alla galera o a morte per sola convinzione propria, senza formarle processo, e sospendere ad arbitrio un’inquisizione criminale. A gara abusavano pure l’avvocato fiscale, il mastro di cerimonie, il secretario generale; una catena di corruzioni riduceva la giustizia ad impegni e ad un traffico lucroso. Il diritto di grazia n’era un titolo principale, vendendosi non solo perdoni e salvocondotti pei commessi, ma fino impunità per delitti da commettersi. Vero è che sedeva a Genova un oratore côrso, e diciotto nobili isolani consigliavano il governatore; ma è conseguenza fatale delle tirannie il divezzare dall’opposizione legale per avventar nella irosa.
I Côrsi erano ricchi d’ingegno e di vivacità, come sogliono i mezzo inciviliti; operosi, massimamente allor che il bisogno li spingesse fuor di patria. Avvezzi da bambini alla sobrietà, all’agilità, alla pazienza, sopportano le fatiche senza stancarsi, il dolore senza lagnarsi: hanno per ricchezza poche castagne e qualche capra, l’acqua per nutrimento, per veste ruvido panno, tessuto dalle loro donne colla nera lana de’ loro armenti. Barbosi, sucidi, selvaggi in vista, taciturni, superbi, sono implacabili alle vendette, covandole per anni, e tramandandole per generazioni. Gli uomini, ricevuto un affronto, lasciano crescersi la barba finchè non l’abbiano vendicato; le case mutansi in fortezze, si sbarrano le porte, muransi le finestre, lasciandovi appena una feritoja; e mentre donne e vecchi escono al lavoro e alle faccende, gli uomini stanno appostati, disposti a dare o respingere la morte. Gli abiti insanguinati dell’ucciso si conservano, per esporli ad opportuna occasione. Di rado si rompono le nimicizie senza dichiararle, e senza fissar il tempo in cui le ostilità cominceranno. Tutta la parentela e interi villaggi vi prendono parte; e le torri pei ricchi, le macchie pei vulgari sono covaccioli d’assassini, ai quali l’opinione applica il sigillo d’onore: nè cessano finchè il sangue non abbia lavato il sangue.
Quanto dell’armi, sono passionati del canto. Alle esequie tutto va in caracolli e vóceri, come chiamano le nenie che fanno sul cadavere, sia per celebrarne il merito, sia per invocare la vendetta: alle nozze accompagnano e spiegano ogni cerimonia col canto, il vestire e velar della sposa, il muoversi di casa, il giunger in chiesa, il levare il velo, poi le danze del domani e del terzo giorno, quando la sposa colle parenti e le amiche va alla fonte, e attinge in una brocca nuova, e nella fonte getta minuzzoli di pane e cose mangerècce: nelle serenate alternano canti e spari di fucile, siccome nelle canzoni mescolano il tenero e il feroce, la devozione e il misfatto. Tengono del fiero anche gli altri divertimenti, quali sono, oltre la caccia, il fermare col laccio corsojo cavalli e tori correnti, e la moresca, dove sin ducento uomini, con armadura all’antica e spada e pugnale, rappresentano qualche vecchio fatto, non sempre senza sangue.
Insieme sono ospitali, cupidi di libertà, bisognosi di lottare, se non altro per giuoco; lieti al pericolo, perseveranti alla prova, tutti prodi a combattere quando occorra: tanto avea torto Genova d’escluderli dalle armi. In patria infingardiscono senza lettere nè arti, fin a chiamare i Sardi a coltivare le loro vigne, gli ulivi, le ubertosissime arnie, mentre essi accidiosi guardano que’ prezzolati, e costringere le donne a faticare, mentr’essi baldanzeggiano alla caccia e alla bettola. Eppure molti in Toscana e nello Stato Romano andavano a tentare colture felici; alcuni procacciando in negozj nell’Indie, in America e altrove, salirono in opulenza per vie diverse: di Corsica nacquero segretari di Stato, legati a latere, cardinali, vicerè, comandanti, e nella capanna affumicata del povero tu ritrovi effigie di vescovi e di colonnelli della famiglia. Un Côrso difese Brescia dall’imperatore Massimiliano; un Côrso salvò ad Enrico IV Marsiglia; un Côrso co’ suoi consigli restituì la corona all’imperatore del Marocco; Lazzaro di Bastìa rinnegato côrso fu dey d’Algeri; una Côrsa rapita dai Pirati divenne moglie prediletta all’imperatore del Marocco.
Una tale mescolanza di qualità, tanto avanzo di primitivo, tanto sentimento della personalità che altrove va perduto, tante virtù parche e austere, degeneranti in implacabili rancori, rendevano viepiù difficile il governarli; e quell’odio, che li traeva a scannarsi fra loro, concentravano contro i Genovesi, alla cui servitù mai non si erano piegati. Da fanciulli abituavansi ad esecrarli; i trastulli puerili erano riotte fra Genovesi e Côrsi; consideravasi merito uccidere qualche Genovese che fosse così imprudente da avventurarsi solo nel paese, e altrettanto i Genovesi dell’avere ucciso un Côrso vantavansi come dell’uccidere una fiera. Gl’isolani più volte insorsero, coll’armi protestando dei patti mal tenuti e della crescente oppressione: ma i Genovesi, o dirò meglio gli oligarchi, guardavanli tra paura e disprezzo; a guisa di coloni pensavano a usufruttarli, non mai a educarli, con un governo abjettamente corrotto e duramente irritante.
A prevenire le quasi annuali rivolte, Genova pubblicava statuti fierissimi; morte a chi procacci l’offesa di qualsiasi agente della repubblica, o venga all’atto prossimo di offenderlo; morte a chi mandi o riceva qualsivoglia oggetto da un ribelle, o gli parli, foss’anche il padre col figlio, o non riveli le macchinazioni anche solo congetturate; fin i trapassati si perseguitavano e i loro figliuoli. Queste ira incancrenite e la manifesta parzialità verso i compatrioti, costrinsero ad escludere i Côrsi dalle magistrature; il che fu un esasperarli viepeggio contro i Genovesi.
L’esazione delle tasse porgeva rinascenti occasioni di rivolte, come il divieto delle armi, che fu fatto nel 1715 perchè ogni anno commetteansi più di mille assassinj, e ventottomila nei trentadue anni della dominazione genovese. Quando l’odio è così profondo tra governati e governanti, ogni partito riesce alla peggio, ogni rimedio torna in veleno. Genova prestò denaro ai proprietarj, affinchè potessero ridur a frutto le loro terre, e i Comuni ne stavano garanti; ma nè quelli se ne prevalsero, e questi, citati al rimborso, strillarono come di nuova esazione.
Così preparavasi un cumulo di ire, che sanguinosamente proruppero. In occasione che gli esattori andavano attorno a riscuoter le tasse, s’appicca rissa per pochi quattrini, per qualche mobile oppignorato: un Cardone di Bastellica, arrestato dai dazieri, comincia a gridare contro l’avidità genovese, passa a enumerare i vecchi torti, i diuturni oltraggi; è ascoltato, echeggiato; le armi, più care perchè proibite, si traggono da’ nascondigli; i corni risuonano per le montagne: le campane di Cismonti rispondono a martello a quelle d’Oltrementi; Felice Pinelli allora governatore spiega quel vigore, che chiamasi disopportuno quando non raggiunge l’effetto. Sbigottita dall’estendersi dell’incendio, Genova manda patti conciliativi, ma gli animi stavano in quella gonfiezza, ove ogni proposizione si battezza di paura e aumenta il coraggio; non si vuole, non si domanda altro partito che l’indipendenza.
I Côrsi, come deve ogni popolo sollevato, appigliaronsi alla guerra di bande, cui offrono opportunità meravigliosa i loro monti, la sobrietà, l’abitudine della caccia; sicchè d’altro non aveano bisogno che di castagne e palle; mentre i Tedeschi, mandati da Carlo VI in ajuto dei Genovesi sotto al generale Wachtendock, nell’insolito clima e in guerra irregolare e per causa estranea venivano meno. Fioccavano intanto manifesti ed esortazioni ai popoli e ai re, i quali si contentavano di mostrar simpatia; ai Côrsi dimoranti di fuori intonavasi, lasciassero via le penne e le cetre, e venissero a pigliar il fucile; intanto procacciavasi ogni mezzo di difesa, fidando in Dio e nel popolo. L’apparato avversario sempre più formidabile ridusse però i capi ad accettare la perdonanza e governo più largo, ma non per questo sbollì lo sdegno ne’ Côrsi; smaniati di vendicarsi, ormai risoluti all’indipendenza, risorsero, e per non ricadere sotto alla genovese dominazione, si esibirono alla Spagna. Ma questa era allora occupata ad acquistar Napoli, nè trovava decoroso il dar mano a ribelli. Ed essi, sperando far da sè, nel 1734 proclamarono una legge del regno e della repubblica di Corsica, elessero protettrice l’Immacolata Concetta, primati del regno Giafferi, Ciaccaldi e Giacinto Paoli.
Genova pubblicò una nuova amnistia, e propose vescovi d’Aleria e di Nebbio due Côrsi, il che da un secolo non erasi fatto. Ma presto l’isola torna in fuoco; il re di Sardegna e Maria Teresa d’Austria vi soffiano, prendono in tutela i rivoltosi, mandano armi, e adoprano gl’intrighi del conte Domenico Rivarola côrso e a servizio del re di Piemonte, nemico della patria, e che sostenuto dall’Inghilterra alleata di questo, snida i Genovesi: e sarebbesi assodata l’indipendenza se avessero saputo reprimer gli odj e le gelosie fra i tre capi, che invece sfogavansi in guerra civile. Giafferi, rimasto solo al comando, valse a rassettare, e dava ordine al governo, civiltà al paese, quando cadde assassinato per opera d’un suo proprio fratello, e ogni cosa tornò a soqquadro; pur i Côrsi perseverando alla difesa.
Qui un bizzarro accidente. Teodoro, barone di Neuhoff, nobile westfaliano nato in Francia, infervorato dalla lettura di Plutarco a un’ambizione irrefrenabile, gettossi alle avventure. Giovinetto combattè col romanzesco Carlo XII di Svezia; partecipò alla trama di Görtz per abbassare l’Inghilterra, poi ai divisamenti dell’Alberoni per rialzare la Spagna; era stato adoprato dagli Austriaci nel tentato sbarco in Inghilterra; da Law nella sua banca, donde vide i tesori accumularsi e dileguare con magica rapidità. Mandato a Firenze come residente per Carlo VI, vi trovò alcuni Côrsi che avea conosciuti mentre stava per debiti prigione in Genova, e che allora faceano il solito uffizio de’ fuorusciti, mestare alla liberazione della patria, e credere che a ciò potessero condurre i mezzi più avventati. Facilmente s’indussero a prenderlo come capo, ed egli vi s’accinse seriamente. Chiesti invano sussidj a varie Corti, ricorre a due uomini di somma intrepidezza; Ragoczy principe transilvano, ch’era stato a un punto di sottrarre all’Austria il suo paese; e l’avventuriero conte di Banneval, che col nome di Acmet bascià era divenuto potente presso il sultano Mahmud: e combinano un gran disegno per sovvoltare tutta Europa. Falliscono; ma Teodoro, sostenuto in secreto dalla Porta e palesemente dal dey di Tunisi, ottiene da questo un vascello, dieci cannoni, quattromila fucili e diecimila zecchini. Così preceduto, con larghissime promesse arriva in Corsica. Quarant’anni, bella e maestosa presenza, facile parola, atteggiamenti nobili, vestire bizzarro tra spagnuolo e turco, con vestone scarlatto alla orientale, zazzera alla francese, spada alla spagnuola, canna d’India alla mano; dietrogli cappellano, segretario, staffieri, mori, tutti con piume, pistole, sciabole come gli eroi delle insurrezioni: e così alletta le facili fantasie de’ Côrsi. Già si arrogava i titoli di lord della Gran Bretagna, pari di Francia, principe dell’Impero, grande di Spagna, ma per trattare colle corone bisognavagli quello di re; onde è accolto fra le grida di Viva Teodoro re di Corsica e di Capraja; non essendovene d’oro, gli è messo in capo un diadema di fronde; e portato in ispalla dai principali, e seguito da venticinquemila abitanti, scorre trionfalmente il paese, rimprovera, incoraggia, sfoggia quelle idee diplomatiche, politiche, finanziere, che pajono profonde a chi non n’ha veruna. I primati che non speravano farsi obbedire dai compaesani, confidarono l’otterrebbe quest’incognito; onde il favorirono, e di fatto le fazioni sono represse, due capipopolo impiccati, stabilita la guardia nazionale. Ed egli intitolatosi «Teodoro I, per la grazia della santissima Trinità, e per l’elezione dei varj e gloriosissimi liberatori e padri della patria, re di Corsica», battè moneta, nominò un consiglio di ventiquattro membri, e maresciallo il Giafferi, tesoriere Giacinto Paoli, guardasigilli l’avvocato Costa, con quanta serietà mai facesse qualsifosse altro avventuriero più fortunato; fece riviste, regalò scarpe al vulgo, zecchini ai soldati. Ito di là dai monti, ove abitavano i nobili, vi è festeggiato altrettanto; centinaja di gentiluomini, gli Ornano, i Rocca, i Leca, gli Istria corrongli incontro; ed egli istituisce l’Ordine della Liberazione, e in pochi giorni vi sono ascritti quattrocento cavalieri, ciascun de’ quali deponeva mille scudi d’oro, assicurato del dieci per cento.
Con questi mezzi preparavasi a far guerra ardita ai Genovesi. I monopolisti dell’opinione annunziarono al mondo ch’egli era adorato dagl’isolani; il popolo trionfava di vittorie che già credeva immancabili; quei che non credevansi vulgo fantasticavano su quest’ignoto, persuadendosi fosse un gran capitale, mandato chi dicea dall’Inghilterra, chi dalla Spagna, fors’anche dal papa, benchè venuto con Maomettani; del suo Ordine molti pagavano a buoni contanti il brevetto, anche forestieri, anche protestanti per quel titolo d’illustrissimo e di eccellenza; molti compravano da lui il grado di marchese, conte, barone, a non dire i marescialli, i colonnelli, i capitani, tanti che sarebbero bastati a un Napoleone. Guai a chi, in simili casi, vuol richiamare al buon senso! I Genovesi dapprima stettero peritanti, dubitandolo turcimanno di qualche gran potentato, dappoi lo presero in celia, beffavano la sua povertà, contraffacevano que’ suoi proclami, mescolati di bonarietà tedesca e d’enfasi francese: ma egli prendeva sul serio il nome di re, e volea farlo rispettare quanto si può senza soldi nè soldati.
Ma per quanto e’ fosse sempre a cavallo, e si facesse arrivare grossi dispacci dal continente, e coi telescopj dalla spiaggia speculasse se le navi amiche giungessero, nulla s’avanzava pei deserti del mare; i Côrsi tornavano a uccidersi fra loro, oltre quelli ch’erano uccisi dai Genovesi; le campagne rimanevano incolte, sciopero il popolo; alcuni, col nome d’indifferenti, pensavano ad assicurare la libertà della patria, anzichè aderire a sua maestà, la quale li dichiarò ribelli; nè le premure dell’instancabile Giafferi bastavano a tener la calma.
Dissipato il poco denaro e le prime illusioni, disonoratosi colla menzogna e colle crudeltà onde ricambiò le crudeltà de’ Genovesi contro i prigionieri, re Teodoro propose d’andar a chiedere soccorsi ai re suoi alleati. Sbarcato incognito a Livorno, e non ottenuto che il granduca lo riconoscesse, errò da Napoli a Roma, poi ad Amsterdam, dove arrestato per debiti, con promessa di vantaggi di commercio in un’isola tanto ben situata indusse una compagnia di negozianti ebrei a redimerlo, e a dargli cinque milioni, con cui fornì una flottiglia con ventisette cannoni, molti fucili e polvere e lance e bombe, e tornò, e ridestò ne’ Côrsi la risoluzione di difendersi, manifestando alle nazioni come la «felicità della loro isola richiede d’esser governata da un sovrano, il quale non possedendo altri Stati, ponga a questo tutte le attenzioni, e aprendo i porti a tutte le nazioni estere con perfetta neutralità, vi conduca l’abbondanza».
Rinnovatasi la sollevazione, Teodoro accorse ad avvivarla; ma tra via dubitò che il capitano della nave, per ingrazianirsi i Genovesi, volesse farlo saltar in aria; e nottetempo avendolo trovato che allestiva miccie, lo fe impiccare all’antenna. Ogni prestigio però era svanito, i Côrsi non badarono alle munizioni che recava e ai proclami che spandeva, ond’egli tornò in Inghilterra. I Francesi risero di lui; l’Europa tutta ne’ versi del Casti e nella musica di Paisiello ne fece beffe: gl’Inglesi no; ed Orazio Walpole scrisse eloquenti pagine a suo favore; il celebre attore Garrick dedicò a vantaggio di esso una serata, sicchè potette viver oscuro ma libero; e ancora il suo epitaffio rammenta come Fortuna gli diede un regno e gli negò un tozzo.
Giacinto Paoli, caldo patrioto rifuggito a Napoli, vi educava il proprio figlio Pasquale con finezze letterarie e con esempj di virtù, semplicemente generosa e accortamente ardita. Già addestrato nelle guerre della Calabria, esso il mandò a far il suo dovere, cioè a combattere per la patria: e Pasquale, approdato in Corsica non colle spavalderie di re Teodoro; bensì con modesta fermezza e nobile semplicità, meritato la confidenza e il comando supremo, insinua coi detti e coll’esempio che «colla libertà tutto si può soffrire, e a tutto si può trovar riparo»; guida felicemente la guerra, mentre sa frenare col carnefice e coi missionarj una nazione, la cui storia è una sequela di rivolte.
Saverio Matra, offeso del vedersi posposto al giovine Paoli, egli vecchio e discendente da caporali, eccitò la guerra civile sposando la parte di Genova, capitanandone le armi, e spargendo sospetti contro del Paoli; ma perì combattendo. Capi d’insorgenti vittoriosi è troppo facile trovarne: rarissimi invece quelli che sappiano sistemare l’obbedienza, e tale fu il Paoli. Quando venne nominato generale, suo fratello Clemente fece metter i vetri alla povera loro casa in Strella; ma il Paoli li spezzò dicendo: — Non voglio vivere come un conte, ma come gli altri contadini». Scrivendo a suo padre, il chiamava sempre «signor mio»; e già da alcuni anni comandava all’isola quando per lettera gli chiese qualche posata d’argento, e Giacinto gli rispose che Solimano granturco le usava di legno, tagliate da lui stesso. Su un conto del calzolajo, Paoli notava doversi diffalcar il valore del tomajo, perchè era suo. Diceva di stimar più Guglielmo Penn fondatore della Pensilvania, che non Alessandro Magno conquistatore dell’Asia. Preferiva a ogni altra lettura il libro de’ Macabei, che dipinge la resistenza di que’ generosi alla tirannia; e stupiva e fremeva quando gente sensata intitolasse ribelli i suoi Côrsi. Destro a tener vivo l’entusiasmo senza lasciarlo trascendere; devoto sì che mai non ommetteva le preghiere, e anche nella mischia col fucile portava il rosario, riuscì a introdurre la concordia là dove mai non era allignata, e mostrar che quella nazione è capace non solo di vendetta, ma anche di generosità.
Nella costituzione che le diede, tenne per sè poteri grandissimi, necessarj credendoli in istato nuovo. Nè era essa un ricalco delle forestiere, ma dedotta dalla comunale che descrivemmo, e stabilita su questi canoni: che la podestà deriva dal popolo; che le leggi hanno unico fine il bene del maggior numero; e che il Governo deve operare al cospetto di tutti. Ogni parrocchiano era elettore sotto la presidenza del podestà; ogni mille anime mandavano un deputato all’assemblea generale, unica sovrana, e che votava le imposte, la guerra, le leggi: dall’assemblea generale traevasi il Consiglio supremo d’un membro per ciascuna delle nove provincie, ad esso spettavano il potere esecutivo, la diplomazia, la sicurezza pubblica, e poteva opporre il veto ai decreti dell’assemblea generale: tutti i membri erano responsali, e il presidente faceva anche da generale, ma nulla poteva senza il parere d’essi consiglieri. Cinque sindaci scorreano le provincie per raccogliere i reclami contro gl’impiegati e vegliare sugli esattori. Il generale poteva istituir nelle provincie un governo militare, ma i membri di esso doveano subire il sindacato.
Il Paoli aborriva le truppe stanziali, arma del dispotismo, non della libertà; soggiungendo che «il popolo non deve lodare il valore del tale o tal altro reggimento, ma bensì la ferma risoluzione di questo o quel Comune, il sacrifizio della tal famiglia, il coraggio del tal cittadino». Quindi ogni Côrso dai sedici ai sessant’anni doveva esser soldato; ciascun Comune levava una o più compagnie; ciascuna pieve aveva un campo sotto di un generale; ogni quindici giorni cambiavasi il servizio, e nella stessa compagnia cercavasi raccogliere i parenti: pel qual modo quei d’una pieve e d’una famiglia impegnavansi viepiù a mantenere l’onore e la salute, e le antiche nimistà municipali mutavansi in gare di prodezza: non riceveano paga se non pel tempo che passavano sotto le armi, e i villaggi li provedeano di pane. Solo per necessità della guerra formò un piccolo corpo regolare, che presidiasse le fortezze. Quando avea prefisso una spedizione, il Paoli scriveva ai ministri di ciascuna provincia, gli mandassero il tal numero d’uomini; e subito era obbedito. Diede estrema attenzione all’industria, all’agricoltura; fece piantare ulivi e castani, seminare granoturco; non neglesse la coltura intellettuale, trascurata dai Genovesi, fece porre scuole, massime dal clero, e apri l’Università a Corte.
Non lasciossi accecare dalla moda in guisa, da non sentire l’importanza della santa sede, per quanto allora umiliata dai re; e supplicò il papa togliesse l’isola in protezione, e riparasse ai disordini allignati in quella Chiesa durante la guerra civile. Clemente XIII, chiesta invano l’adesione da Genova, mandò un visitatore apostolico: ma la Repubblica genovese, esclamando ch’e’ ne violava i diritti, e tenea mano coi ribelli, spedì navi per impedirlo, e una taglia di seimila scudi. Pure il visitatore approdò all’isola credente, recando le benedizioni che confermano le speranze, e molto bene vi operò, d’accordo col Paoli; il clero ne attinse coraggio a grandi sacrifizj in pro della patria: nè per questo il Paoli risparmiava di punire i preti e frati contumaci; diede ricetto anche agli Ebrei, perfino ai Gesuiti; liberalismo allora stupendo.
Non è dunque meraviglia se il Paoli era amato come un padre. E l’isola ormai potea reggersi senza soccorsi stranieri, lusingavasi di diventare potenza marittima come le antiche di Grecia, viepiù da che facilmente tolse ai Genovesi l’isola di Capraja, possesso un tempo di casa Da Mare. Ne restarono ontosi e desolati i Genovesi, e convinti da quarant’anni d’inutili sforzi di non bastare contro la ben ordinata resistenza, chiesero soldati alla Francia, la quale, paurosa di vedere annicchiarvisi gl’Inglesi, ne mandò nel 1764 col conte di Marbœuf. Costui portava anche patti d’accordo; occupò le fortezze, ma usò riguardi agli abitanti; non era veduto di mal occhio, ma una domanda sola gli si dirigea: — Lasciateci indipendenti». Il vessillo di San Giorgio sventolava sulle fortezze di Bastia, San Fiorenzo, Calvi, Algajola, Ajaccio: ma avendo i Genovesi avuto anch’essi l’ardimento d’accogliere i Gesuiti espulsi di Francia, i Francesi li punirono di questa libertà col ritirarsene, e subito i Côrsi ebbero occupato ogni cosa, eccetto le fortezze.
Ai Genovesi qual rimaneva altro partito che cedere i proprj diritti alla Francia? Questa, credendo che tale acquisto la compensasse del perduto Canadà, nel trattato di Compiègne (1768) accettò l’isola a titolo di pegno per somme che eranle dovute, ma in realtà dandone in prezzo quaranta milioni di tornesi, e assicurando a Genova il dominio della Capraja e de’ possessi in terraferma. All’udir tale baratto Giangiacomo Rousseau prorompeva: — Popolo servilissimo questi Francesi, nemici a chi è in isfortuna; se sapessero che un uomo libero vive all’altro capo del mondo, v’andrebbero pel piacere di sterminarlo».
I Bastiesi esultarono della nuova servitù; ma il vile mercato irritò gli altri Côrsi, che inanimati dal Paoli, s’accinsero a mostrare d’esser uomini, non bestiame vendereccio. Aveano i pochi cannoni portati da re Teodoro, alcuni ripescati dal mare, alcuni comprati col vendere i vezzi muliebri di corallo; ma gli insorgenti devono affidarsi nella carabina e nella bajonetta. Qualche Svizzero, qualche Grigione, e volontari Baschi, Greci, Italiani, e un’intera compagnia prussiana, disertata da Genova, vennero a combattere con loro; e nelle rinnovate prove di stupendo eroismo, s’udirono i nomi dei Saliceti, dei Buttafuoco, dei Buonaparte, dei Murati, degli Abbatucci, d’altri, destinati ben presto a sonare tant’alto. Domenico Rivarola corse a combattere per la Corsica, benchè lasciasse due figliuoli nelle mani de’ Genovesi. Gian Pietro Giafferi, assediando la città di Corte, vide sulle mura il proprio figliuolo di quattordici mesi, rapitogli con la balia ed esposto alle palle de’ suoi, eppure egli comandò il fuoco. Clemente Paoli, fratello maggiore di Pasquale, un de’ migllori condottieri, erasi vestito frate e dato alla vita contemplativa, pronto ad uscirne ogniqualvolta tornasse bisogno del suo braccio. Con pochi prodi assediato in Furiani, a settemila cannonate e mille bombe genovesi non si dà vinto, e per cinquantasei giorni si sostiene fra le ruine, finchè n’esce vittorioso; poi quando tutto fu finito, si ritirò nell’eremo toscano di Vallombrosa. Nel campo di Loro, ventun pastori assaltati da ottocento soldati d’Ajaccio, li respingono; ma da altri quattrocento serrati nei paduli, muojono combattendo tutti, tranne uno, che nascosto ne’ cadaveri e lordo di sangue, sperava campar la vita. Quando vennero per recidergli il capo, chiese misericordia: ma il commissario, appesigli alla persona sei teschi de’ suoi, lo fece impiccare e squartare.
Lazzaro Costa in quattro anni toccò trentotto ferite, predò due milioni di franchi; in una settimana pigliò una nave carica di fucili e di trecentrentaquattro barili di polvere, e una di sessantaquattromila franchi e munizioni. Il capitano Casella, nella torre di Nonza circondato dai Francesi, stabilisce di disperatamente resistere, e da ultimo mandar all’aria le mura, e seppellirvisi; abbandonato, continua tutto solo; appunta il cannone, dispone a diverse feritoje i fucili, spara gridando voci diverse. Il Francese, venuto a patti, acconsente esca la guarnigione con armi, bagagli, bandiera e un cannone, e con gli onori della guerra; ma qual rimase quando vide uscir il solo Casella tra le due file, armato di spada, fucile e due pistole!
Un fratello, veduto cadersi a fianco il fratello, lo leva dalla mischia lo porta alla chiesa, prega, l’abbraccia, e ritorna a combattere. Quando il vecchio Angelo Matteo Lusi, che in casa aveva resistito con dodici de’ suoi, cadde colpito da una palla, il figliuolo Orso Andrea, per non iscoraggiare i compagni, chiude il cadavere in camera, fìngendolo ferito, e col fucile insanguinato del padre respinge i Francesi: allora tornato, mostra ai parenti e alle donne il cadavere; e le donne e i parenti lo piangono, confortandosi che la morte sua fosse stata salvamento di tutto il villaggio. Un Francese, meravigliato di quel tanto soffrire, domandava: — Ma quando siete feriti, come fate voi, senza medici, senza spedali? — Moriamo». Uno ferito a morte scrive al Paoli — Generale vi saluto. Vi raccomando il mio vecchio padre. Fra due ore sarò con le anime di quelli che morirono per la patria».
Preti e frati incoraggiavano a difendere il paese, unendo fede e coraggio, amor di patria e religione, sopra i gemiti della battaglia ergendo l’inno della speranza, e servendo da scrivani, da ambasciatori, da pagatori. Il generale dei Francesi ne fece impiccare diversi, e due zoccolanti con l’abito, e un pievano tra due contadini. Mentre i Côrsi venivano a render l’armi al Maillebois, un colonnello francese lanciò ingiurie alla nazione e ad un frate, il quale d’un’archibugiata lo stese morto. Condotto sull’atto ad impiccare, intuona il Te deum, e lo continua sino all’ultima stretta del boja.
I morti per la patria erano commemorati la domenica alla messa. I vecchi e le donne incitavano al valore. Una chiedendo d’esser introdotta al Paoli, diceva: — Lasciatemi passare; io ho perduto tre figliuoli». Un’altra gli disse: — Mio figlio è morto in guerra; me ne resta un altro, e feci sessanta miglia per venire ad offrirvelo per la patria». Paoli attonito la abbracciò; e diceva: — Non mi sentii mai tanto piccolo come davanti a questa magnanima». Fra le donne non va dimenticata la monaca Rivarola, che dell’amico Paoli divideva e alleviava le cure e gli stenti; e scrivendogli dimenticava il sesso per occuparsi solo di politica e d’affari.
Più volte furono vinti i generali francesi, che non aborrivano dal ricorrere al tradimento e all’assassinio, e che erano sempre costretti a giustificarsi presso il loro Governo d’essersi lasciati sconfiggere da gente che combatteva contro le regole. In Inghilterra il popolo facea meeting e soscrizioni a vantaggio de’ Côrsi, i quali riprometteansi appoggi da quel Governo costituzionale e nemico di Francia; ma prevalse la paura della democrazia, e Pitt fece proibire ogni soccorso ai ribelli. Sì! quei regnanti che compravano soldati tedeschi o svizzeri senz’affetto di patria nè religione di bandiera, per ammazzare chi essi designassero, intitolavano assassini e briganti quei Côrsi, che, colla fida carabina e con polvere e palle nel panciotto, s’attestavano tra le foreste, esercitando la guerra di bande. Sino i filosofi, increduli d’ogni entusiasmo, cambiavano il ringhio beffardo in applausi a quegli eroi; sino Voltaire, eterno laudatore dei grandi e forti, ebbe a dire che l’amor di patria, istinto naturale in tutti, ne’ Côrsi era fatto dover sacro e furore.
Molte migliaja di soldati e trenta milioni di lire costò alla Francia la campagna, dove l’eroismo e la disciplina combattevano colla disperazione e colla perfetta conoscenza de’ luoghi. Il ministro Choiseul, ostinatosi a riuscire, raddoppiò di sforzi; e gl’isolani, dopo la rotta di Pontenuovo (1769) e i tradimenti moltiplicatisi e le corruzioni introdotte dal profuso oro francese, e tante false promesse inglesi disperarono; e Paoli co’ suoi uscì dall’isola.
Federico di Prussia chiamava Paoli il primo capitano d’Europa; e tal fu, se il merito si riponga nel risparmiar le vite, nel far valere i pochi mezzi, nell’accomodare l’arte ai luoghi, nel superare enormi difficoltà, nel cogliere ogni vantaggio che porga il nemico. Egli avea fatto di più, dando governo agli sfrenati, concordia agli odiantisi, abnegazione ai liberati, operosità agli inerti, forza a un dominio nuovo, prudenza alle passioni proprie e alle altrui, importanza europea a un isolotto; tramutate le fazioni in nazione; saputo comandare con rispetto, amar la patria con severità, convertire il puntiglio della vendetta in marchio d’infamia.
Sottrattosi a fatica entro una cassa, in Inghilterra fu onorato e festeggiato; e di là scriveva a tutte le Potenze le ragioni sue e della patria, e riceveane quelle assicurazioni, di cui sogliono largheggiare coi fuorusciti quei che sperano cavarne pro. Ricusava una pensione di cinquantamila lire dalla Francia monarchica, e senza le spavalderie de’ venturieri tranquillossi, non s’addormentò in Inghilterra. E potè scrivere di sè: — Succhiai col latte l’amor della patria: nacqui allorchè apertamente i suoi tiranni ne meditavano l’eccidio; all’esempio del mio buon padre, i primi raggi della ragione me ne fecero desiderare la libertà: le più disastrose vicende, gli esigli, i pericoli, la lontananza, gli agi non hanno potuto farmi perdere di vista un sì caro oggetto, verso il quale ha sempre mirato ogni mia operazione».
I Côrsi, che non sapeano rassegnarsi al giogo, mutaronsi in briganti, fra cui l’intrepido prete Domenico Leca; e per vent’anni tolsero ogni sicurezza a quel possesso, che non poteva esser tenuta sulle prime se non coi rigori marziali, squartando chiunque fosse trovato con armi, punendo chiunque rimembrasse il passato. Con tanto sangue e tanto oro la Francia ebbe acquistato un’isola di nessun prodotto, ma supremamente importante alla sicurezza delle coste di Provenza ed al commercio nel Mediterraneo. I nobili lasciavansi pigliare alle blandizie; i popolani scrissero:
Gallia, vicisti profuso turpiter auro;
Armis pauca, dolo plurima, jure nihil.
Scoppiata poi la rivoluzione francese, l’Assemblea Nazionale, su proposizione del côrso Saliceti, decretò la Corsica formar parte della Francia; i Côrsi, ch’erano banditi per averla difesa, potessero rientrare, colla pienezza dei diritti di cittadini francesi.
Allora (1792) fu richiamato l’esule Pasquale Paoli, che, accolto in trionfo a Parigi e per tutta Francia, rivide la patria, sperando sarebbe resa libera da quei Francesi stessi che l’aveano incatenata, e con 387 sopra 388 voci è nominato presidente dell’amministrazione del dipartimento e comandante della guardia nazionale. L’onor d’una statua ricusò, dicendo: — Non profondate i segni di stima a chi non finì ancora la sua carriera. Chi vi assicura che gli ultimi passi miei non vi eccitino a sentimenti diversi? Differite il giudizio: già la mia fine non è lontana». E dissuadeva dalle infingarde astensioni, e raccomandava di preferire la fusione colla libera Francia a un’indipendenza che troverebbe venditori e usurpatori. — Quante volte non fu a me offerta la sovranità dell’isola! Altri potrebbe prevalersene. Invece noi potremo giovar alla patria come rappresentanti nell’Assemblea, la quale un giorno darà lume e norma all’Europa intiera. Chi sa che gli eloquenti periodi non facciano crollare i troni dei despoti?» Insieme diceva: — Deh nell’Assemblea ci fossero meno oratori e filosofanti! La Magna Carta dell’Inglesi è breve; breve il bill dei diritti d’America; ma quelle basi della libertà britannica non furono stese alla spensierata. Ora i Francesi cercano l’ottimo, e rischiano di perder il buono; vorrebbero far tutto in una volta, e niente finora han fatto che non possa subito disfarsi».
La sua fede repubblicana vacillò quando vide la Francia divenir empia e sanguinaria, e trafficare di popoli: temeva vendesse la Corsica a Genova, e la barattasse col ducato di Piacenza; e in paese l’agitazione facesse prevalere gl’intriganti, i calunniatori, i ladri, gente che guadagna dei torbidi. — Se cotesti signori han sospetto di noi, che col latte abbiamo succhiato l’amore della libertà e dell’uguaglianza, e per essa sofferto tanto, non sarà lecito a noi tenerci in guardia da certi, il cui patriotismo non data che da tre anni, e che per la patria non hanno sparso sangue, non sofferto esigli, non devastazioni di beni? Pare si voglia tener la Corsica divisa in partiti; e perlopiù chi risolve da lontano, si appiglia al peggiore».
Oltraggiato dalle solite ingratitudini popolane, disperò dell’esotica liberazione. — Non avrei mai creduto che ventun anno di despotismo avessero potuto distruggere tante virtù pubbliche, che in poco tempo la libertà avea fatte brillare nel nostro paese. Oh fossi morto il dì che seppi aver i Francesi donato alla nostra patria la libertà! Qual funesto avvenire non si offre alla mia mente! Siamo troppo lontani dal centro del movimento; il potere lontano non vede il male; se lo vede, scrive lettere oratorie, che nulla valgono su animi impastati d’ignoranza e cupidigia, sconosciuti al mondo ed a sè stessi, senz’idea del vero onore, e molto meno della vera gloria. Ah! e tanti sparsero il sangue sotto i miei ordini per dare la libertà a popolo tanto indegno!» ma soggiungeva: — Non possono farmi male, che più non ne facciano a sè stessi nell’opinione del mondo».
I compatrioti suoi stessi l’accusarono, come oggi si direbbe di autonomista, e allora dicevasi di particolarismo, cioè di voler la reale indipendenza del piccolo paese, invece della forte unità decretata: e l’uomo intemerato fu tradotto a scolparsi davanti ai manigoldi di Parigi nel giorni del Terrore. Marat giornalista lo denunziava come homme extravagant et sanguinaire. Il deputato Matteo Buttafuoco scrisse la Conduite politique du général Paoli contro di lui e di Saliceti; ma l’opinione pubblica gli si rivoltò, e in molte parti la costui effigie venne arsa come d’aristocratico. E il Paoli, tornato a Londra, v’ebbe robusta vecchiezza, e diceva: — Spero che i posteri scuseranno le mie ignoranze, e faranno giustizia alle mie buone intenzioni a pro della patria. Chiuderò gli occhi senza rimorsi sui miei portamenti politici. Iddio mi perdoni il resto. Amo la fama, ma dimentichino pure i Côrsi il mio nome, purchè siano felici».
Il 5 febbrajo 1807 vi moriva: moriva perdonando, povero e dimenticato quando satollavansi di dignità e d’oro i Napoleonidi, suoi compatrioti e avversarj, che a lui apponevano «la sciocca vanità di regnare», e che poi doveano sanguinosamente sottomettere la ribellata italiana Corsica all’impero francese, al quale essa avea dato i padroni1.
- ↑ Vedi Lettere di Pasquale De’ Paoli, con note e proemio di N. Tommaseo. Firenze, 1846.