Italiani illustri/Appendice D
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APPENDICE D (pag.125)
L’Istituto Italiano e la Crusca.
Il solo nome di Vocabolario della lingua eccita idee di rissa, di cavillo, di quistioni che avrebbero il difetto di essere sterili, se non avessero la colpa di essere irritanti; e in Lombardia principalmente ricorda litigi, rinnovatisi a più riprese, e combattuti da paladini spesso robustissimi, di rado cortesi. Mi guarderò bene dal ridestare queste sciagurate guerrieciuole, nelle quali, se anche l’intelletto si affina e acquista pieghevolezza, il carattere s’inacerbisce, e spesso l’animo si deprava. Ma poichè non ho mai compreso che cosa guadagnino le buone cause col rimpiccinire e avvilir i loro avversarj, riconobbi non inopportuno il narrare come, in occasione della Proposta di aggiunte e correzioni al Vocabolario della Crusca, sottigliandosi sulle frasi come si suole nei dissensi, afferraronsi quelle del Monti, ove diceva il lavoro suo essere stato “favorito in ogni modo ed eccitato, anzi pur comandato dal Governo”. Persone in gran fama di liberalità ne dedussero che il Governo austriaco avesse a bella posta sollecitato il Monti a quell’opera, affine di seminar zizzania tra le provincie italiane1. Questa nota metterà il vero in luce, e mostrerà una volta di più che i partiti non sogliono discernere fra le armi con cui ledere il nemico.
È notissimo che l’Accademia della Crusca, originata dalla Fiorentina, parlò primamente nel 1591 d’un vocabolario, e nel 1606 l’avea quasi compito; nel 1612 era stampato, ristampato poi nel 1623, nel 91, nel 1729-38.
Il granduca Leopoldo I aggregò alla Crusca l’Accademia Fiorentina e quella degli Apatisti, sotto il nome complessivo di Fiorentina; ordinando due deputazioni di venti accademici ciascuna, una delle quali attendesse alla storia della legislazione e pubblica economia, l’altra alla lingua toscana. Tutto ciò fu sommerso nel vortice della Rivoluzione; poi col decreto 2 settembre 1808 fu creata ancora un’Accademia Fiorentina, divisa in tre classi, del Cimento, del Disegno, della Crusca. È perchè l’esser la Toscana aggregata all’Impero Francese non desse a credere verrebbe negletta la lingua del sì, fu decretato un premio di 500 napoleoni, da conferirsi, a giudizio dell’Accademia, ad opera di merito sublime, scritta da letterato italiano; o in difetto, si dividerebbe tra i migliori concorrenti in prosa e in verso.
L’amor di guadagno e di gloria e la facile presunzione del proprio merito fecero presentare al concorso ben sessanta opere: e il premio andò diviso tra L’Italia avanti il dominio de’ Romani del Micali, la Polissena di G. B. Niccolini, e le Nozze di Giove e Latona del Rosini: concedeasi onorevole menzione a tragedie del Malachisio di Como, al Pagnini e al Regis torinese per la traduzione delle Epistole d’Orazio e della Ciropedia; al Camedo per la Storia letteraria ai posteri; al Cesari pel Dialogo delle Grazie, e al Botta per la Storia della guerra dell’indipendenza. Queste due ultime opere salvaronsi dall’obblio che inghiottì il più delle altre, ma è memorabile come la Crusca sgradisse la storia del Botta pel sovrabbondarvi di riboboli e di vecchiume, di cui taluni la suppongono invece propagatrice2.
Milano, metropoli del bello italo regno, allora aspirava al primato su tutta la penisola; e i lauti impieghi e il favore de’ ministri vi chiamavano quantità di letterati, che spalleggiantisi in poderosa consorteria, imponeano la propria opinione. Cominciarono essi a tacciar la Crusca di municipalismo, perchè a tre toscani avesse decretato il premio, e massime contro il Rosini sollevarono tale opposizione, che non gli fu confermato quell’onore3.
Gli offesi strillarono; rinfacciarono ai nostri che verun lombardo di quei che andavano per la maggiore, avea concorso; che de’ concorrenti erasi tenuto conto, fossero di qualunque paese4: ma i Milanesi aveano voce più grossa, il che ne’ litigi vai meglio che l’averla più giusta: sapeano già adoprare l’arma, allor quasi inusata, de’ giornali; e le loro arguzie ribadirono l’opinione che la Crusca avesse commesso un’enorme ingiustizia, anteponendo i mediocri sol perchè toscani. La coscienza della storia, elastica come le altre coscienze, registrò quel fatto, e lo ripete tuttavia.
La conseguenza fu che la Crusca e l’Istituto Nazionale presero d’allora a guardarsi in sinistro, quasi due emuli: benchè tanti lombardi membri di questo fossero accademici di quella5.
Primeggiavano tra questi Luigi Lamberti, che aveva aggiunto buone postille e anche capitoli interi al Cinonio nell’edizione de’ Classici Italiani, gli esempj deducendo unicamente da autori citati dalla Crusca; e Vincenzo Monti che nel Poligrafo menava lo scudiscio sul Vocabolario della Crusca, ristampato a Verona dal Cesari colle giunte che ognun conosce. E qui sarebbe luogo ad emendar un altro torto della posterità, che ai nome del Cesare affisse l’idea d’un ridicolo grammaticuzzo. Vero è che, quanti avversarj, tanti trovò lodatori, e Ugo Foscolo, prosatore così nervoso, se ne deliziava, e «giacchè conviene scegliere un vocabolario, io lo voglio piuttosto pedante (diceva) che licenzioso, perchè io vi cerco più canoni che parole».
È vero altrettanto che al Cesari, pazientissimo studioso e della lingua pratico cento volte più che il maggior suo contraddittore, mancava quel gusto che determina l’assortimento e la convenienza delle parole, quel recte sapere che fa dire nè più nè meno di ciò che si pensa; e non concepì mai che la lingua scritta deve smettere alcune parole, benchè usate dai classici, altre adottarne a questi sconosciute, affine di tenersi il più possibile vicina alla parlata6; e per dispregio della linguetta moderna conduceva a quella ricercatezza accademica, che si suol lodare come eleganza, e che diviene presto un tipo di mal gusto, e dà sito di rancido agli scritti, i quali non valgono se non pel felice accordo tra l’espressione e il pensiero.
Che che ne sia, quel Vocabolario era un sintomo del ripigliato studio della lingua patria, dopo l’imbratto che v’aveano indotto gli scrittori del secolo precedente, poi le amministrazioni francesi. La qual riazione erasi fatta sentire non appena sonò il simpatico nome di Repubblica Italiana. Il Governo di questa, che fa certo un de’ tempi più lieti perla Lombardia, favorì un’edizione dei Classici Italiani, che, se riuscì troppo inferiore all’assunto, capricciosa nella scelta, senza discernimento delle migliori lezioni, nè senno filologico nelle note, inadeguata in somma, non che alla presente dottrina, ma a quella che già allora mostravano filologi toscani, pure recò nelle librerie e sui tavolini una quantità di autori ormai dimenticati, e costrinse i giornali e il bel mondo a tenerne parola.
Il Vaccari, ministro dell’interno, conforme al titolo e al sentimento del Regno d’Italia, zelava lo scrivere corretto anche nelle cancellerie; al qual uopo avea fatto compilare da Giuseppe Bernardoni un Elenco di alcune parole frequentemente in uso, le quali non sono ne’ vocabolarj italiani (Milano, 1812). Fu il primo anello d’una serie che ora non sa finire; aveva il merito della sobrietà che manca ai successivi; abbondava nelle proscrizioni, come è il solito di tutte le riazioni e com’era necessità del suo titolo: sicchè poca fatica costò a Giovanni Gherardini l’opporgli esempj classici di voci da esso condannate. Ma cogli esempj che cosa non si giustifica, dal Bartoli fino al Viani?
Il Vaccari, nel 1813, informato che trovavansi in Padova i manuscritti del Dizionario della volgare elocuzione del padre Giampietro Bergantini e altri lavori congeneri in 19 volumi, li comprò, e insieme coll’unico volume pubblicato d’esso Dizionario7, divenuto rarissimo, lo spedì all’Istituto Nazionale, perchè vedesse modo di crescerne gloria al nome italiano, e secondare le premure dell’imperatore, il quale “col far rivivere l’Accademia della Crusca e coll’accordare generosi premj ai più purgati scrittori, ha dimostrato quanto gli stia a cuore l’incremento del nostro idioma„.
Giusta la consuetudine, si elesse nell’Istituto una Giunta8, e questa, lodando a cielo l’opera del Bergantini, forse per le condiscendenze solite verso i ministri, propose che il corpo accademico assumesse fra le principali sue occupazioni il perfezionare il Dizionario della lingua italiana; prese le mosse da quel della Crusca, si avrebbe cura d’emendarne gli sbagli, arricchirlo di moltissime voci desunte da autori in esso citati, e aggiungervi tutte quelle necessarie alle arti ed alle scienze, chiamando per ciò in soccorso tutti i letterati e scienziati del regno9.
Esso ministro regalava all’Istituto una copia del Dizionario di Verona postillato dal Lamberti, che allora avea chiuso i suoi giorni, e ne prendeva occasione per dar nuova spinta all’opera. Infausto momento a imprese letterarie quando il paese era minacciato da nuovi liberatori, e impedita la comunicazione fra i dipartimenti, e in conseguenza fra le sezioni in cui era diviso l’Istituto. Il nembo addensavasi, e quel regno smagliante, magnifico, lusinghiero, rimpianto poi con lunghi desiderj, cadeva senza trovare, fra tanti che lo sfruttavano, un braccio o una penna che il difendesse. Occupato il paese a nome degli Alleati, dappoi fu posto a governarlo una reggenza austriaca, a cui capo stava il generale Saurau.
Questi, non estraneo agli studj, interpellava l’Istituto a qual punto si trovassero i lavori suoi pel perfezionamento del Dizionario della lingua (24 ottobre 1815). Si rispondeva essersi nominata una Commissione, composta, per le scienze di Breyslak, Brocchi, Brunacci, Carminati, Cesaris, Morosi, Moscati, Oriani, Paletta, Volta; per le lettere, di Biamonti, Bossi Giuseppe e Luigi, Castiglioni, Mengotti, Monti, Paradisi, Rosmini Carlo, Luigi Rossi, Stratico; molti diceano tener già in pronto lavori, e principalmente il Rossi copiosissima messe di nuovi vocaboli tratti dai classici; il Mengotti un esteso lavoro sui proverbj; lo Stratico su termini di marina, oltre quelli pubblicati nel suo Dizionario; il Monti uno spoglio dell’Ariosto.
Era necessaria una orditura, secondo cui tessere quei lavori, e fu stesa dallo Stratico. Dichiarava egli il Dizionario dell’Alberti di lunga mano superiore a quel che erasi cominciato da Bergantini; e su quello proponeva s’esercitasse l’esame delle Commissioni, le quali doveano aver nell’Istituto una sala con tutti i dizionarj speciali, che egli divisava e che ciascuno conosce. Tralascio le norme pratiche, solo indicando quella d’inviar qualche persona capace in Toscana, a Roma, a Milano, che nelle officine varie raccogliesse le voci d’arti e mestieri, coll’ajuto di dizionarj francesi, ne’ quali sono in generale ben definite, e sovente dichiarate con opportune figure. Non credea necessario citar sempre gli esempj: amerebbe l’equivalente parola latina; vorrebbe accenti per la pronunzia: e che si ponessero anche le voci dell’uso, che è da rispettarsi in fatto di lingua.
Lavori parziali vennero comunicati all’Istituto, ma sono un nulla a petto a quello del Monti, che, oltre lo spoglio dell’Ariosto, porgeva dizioni di classici e appunti alla Crusca, da formarne quattro volumi.
Notificatigli tali cominciamenti, il Governo facea varie osservazioni, e principalmente su altre opere del Bergantini; credea necessario sempre si citasse l’autore10; raccomandava di invitare i dotti a collaborare, “giacchè da noi s’ignorano finchè non siensi prodotti colle stampe”, e citava il Perego favolista, Felice Bellotti, l’abate Maj, usciti con opere lodatissime, mentre prima nessun sapeva dei loro lunghi studj. Compiuto poi che sia il lavoro, vorrà l’Istituto medesimo pubblicarlo, mettendosi di concerto colla Crusca: altrimenti questa potrebbe dar fuori il suo Vocabolario senza por mente a quel dell’Istituto, e così se n’avrebbero due, fatti con metodo differente, e che diverrebbero seme di anarchia fra gli scrittori. Il prendere accordo con quell’Accademia sarebbe viepiù necessario, perchè, ad ammetter una parola o una frase non registrata dalla Crusca, non basta che la si trovi in qualche autore, la Crusca avendo per divisa di sceglier il più bel fiore: ancor più necessiterebbe il concerto quanto agli autori nuovi da spogliarsi. Nè si objetti che con ciò si tolga a un corpo insigne un diritto, che pur fu esercitato dal Bergantini e dal Cesari. Qualunque giudizio uom porti, su questi, poco cale che la Crusca non diasi intesa dei loro lavori, mentre l’Istituto gode tal rinomanza che non potrebbe esporsi all’affronto, e forse s’impegnerebbe in una disdicevole briga letteraria. Meglio varrebbe, per via diplomatica, iniziar un accordo fra le due Accademie, che dalle altre verrebbe imitato, “Nè delle tante glorie di che si circonda l’augusto nostro sovrano sarebbe certamente la minore quella di veder perfezionato, sotto la sua influenza, un lavoro che tutta Italia aspetta con impazienza”11.
I cavalieri Monti, L. Bossi, L. Rossi esaminarono questi appunti. Il Rossi mostrossi accannito alla Crusca, denigrandone i presenti membri e la secolare sua pretensione d’imporre a tutta Italia il dialetto toscano, e i molti sbagli in cui cadde, e l’avervi inserito “molte locuzioni toscane triviali e antiquate, le quali non fanno in ultimo che inceppare e degradare la lingua, e renderla oscura pe’ nazionali, e difficilissima, se non inintelligibile pe’ forestieri. Il solo dissenso dei due corpi accademici su questo punto di massima basterebbe a ritardare di molto, e forse ad impedire la pubblicazione desiderata del Vocabolario”. Sono le baje che, e prima e dopo, echeggiò la plebe letteraria. Vincenzo Monti, il cui gusto emendava o almen redimeva gli errori di raziocinio, stese un ragguaglio che, come opera inedita di così insigne scrittore, riferirò intero, sottoponendo ai debiti luoghi le contr’osservazioni che il Governo fece.
- “Eccellenza,
“Riverente ai superiori comandi, l’Istituto Cesareo espone il suo netto parere sulle osservazioni da V. E. comunicate.
“E primieramente quanto alle opere del Bergantini, che l’egregio osservatore ne raccomanda, e sulle quali si è dovuto consumar molti giorni e molta pazienza, l’Istituto è d’avviso che, al grande scopo di riformare il Vocabolario Italiano, poco sia l’utile che può cavarsene, e molto il pericolo di peggiorarne le piaghe anzi che risanarle. Il Bergantini a null’altro ha posto il suo studio che a far cumulo di parole (alta qual fatica tutti son atti), traendole senza scelta e senza critica ponderazione da ogni fatta di libri, la più parte non approvati, siccome quelli in cui la pesca de’ nuovi vocaboli è più copiosa. Nè ad aver per buoni gli scrittori da cui li tolse basta il privato giudizio del Bergantini. Egli è necessario che vi concorra l’universale consenso dei dotti. Altrimenti, rotto quest’argine, ciascuno, sull’esempio del Bergantini, fattosi accettatore di tutti i nuovi vocaboli che lo contentano, la lingua si spande in una messe di confusione che non ha termine. E allora è tutta indarno l’opera dei vocabolari, i quali dalla sapienza dei dotti ad altro fine non sono stati ideati, che a contenere il corso della favella dentro i confini della perfezione, e a comprimere lo spirito della licenza, che, abbandonata a tutto il suo impeto, la condurrebbe ad una totale dissoluzione.
“Un altro grave difetto è pur da notarsi nel Bergantini. Classico o non classico, ci porta il nuovo vocabolo senza mai portarne l’esempio. Questo è gran vizio. Perciocchè nell’esatta compilazione d’un vocabolario, l’esame della parola dee precedere all’ammissione della medesima. Or come può egli l’intelletto esaminatore giudicar rettamente della virtù del vocabolo che si propone, se non ne vede prima l’esempio? Le parole, solitariamente considerate, non sono che inerti immagini delle cose, e male si può conoscere se quella immagine sia efficace e fedele ove non si vegga posta in azione: che la sola azione delle parole, ossia la locuzione, ne fa sentire il vero valore. E a questo necessario giudizio è cosa impossibile il pervenire dirittamente e salvi da inganno, senza l’esempio.
“Di più. La poca messe de’ buoni vocaboli, che in terreno classico fu raccolta dal Bergantini e pubblicata nel 1745 nella sua Appendice alla Crusca, è già stata tutta riposta nell’edizione della stessa Crusca, fatta in Venezia dal Pitteri dopo il 60. Di qui procede lo sbaglio dell’osservatore12, che immeritamente accusa l’Alberti di poca onestà, perchè ricettando nel suo Dizionario parecchi vocaboli registrati nell’Appendice del Bergantini, mai nol citò. L’Alberti non tolse quei vocaboli al Bergantini, ma li tolse alla Crusca, che nella mentovata edizione di Venezia gli avea già ricevuti entro il suo seno. Che se fuori di quell’edizione alcun altro se ne riscontra che, portato prima dal Bergantini, sia stato poscia raccolto pur dall’Alberti, ciò devesi attribuire ad incontro fortuito della stessa voce; avendo egli, come protestasi, rispigolato i campi mietuti dagli Accademici della Crusca, e ricercatine ancora di nuovi, in cui essi non avean messa la falce. Dopo la quale intesa, non sembra liberale giudizio il recargli a rubamento ciò che è frutto del proprio suo sudore.
“Lontana dal giusto è parimente l’accusa dell’aver egli trascurato di citare l’autore da cui trae gli esempj delle parole. Nella ben ragionata e, veramente bellissima prefazione al suo Dizionario, p. xiv, seconda parte, l’Alberti si esprime di questo modo: Il primo fonte a cui ho attinto, e che ho interamente esausto per arricchirne il mio Dizionario, è il Vocabolario della Crusca: in guisa che per tutte le voci e modi in niuna guisa particolarmente contrassegnati, sempre intender si debba ch’essi sono di sua assoluta proprietà. Colla quale protesta l’Alberti, chi ben vede, rende buona ragione dell’aver ommesso di quando in quando le citazioni, e il suo medesimo silenzio diventa prova sicura della classica autorità dell’esempio da lui addotto.
“Più seria e più degna d’essere dileguata si è la terza imputazione di cui lo grava l’osservatore. L’Alberti (dic’egli) non si è curato di citare l’autore, per che forse si è vergognato di nominare un Contuso, un Cagiani, un Forlunio, un Pocaterra, un cardinal De Luca, un Mambrino Roseo, un Scaradino, un Ar delini, un Revillas, ed altri che non hanno grido di purgati scrittori, de’ quali, copiando per lo più le Voci italiane del Bergantini, porta gli esempj.
“Se l’Alberti abbia trasfuso nel suo Dizionario quelle voci dal Bergantini, oppur dalla Crusca, si è veduto. Se l’aver ommesso talvolta le citazioni proceda da sentimento di vergogna, o più presto dal savio divisamente di andar per la breve, e amminuir la noja al lettore, questo pure si è veduto. Sul resto venga innanzi egli stesso, e rimova da sè la brutta colpa che gli v.ien data di portar esempj di autori non approvati. In tale inchiesta (nella ricerca di nuovi vocaboli) io mi protesto che, fuor di quegli scrittori, i quali, a giudizio di tutti, sono purgatissimi reputati, mi sono astenuto di trar fuori alcuna cosa che sia opposta alle regole ornai invariabili della favella, la quale per tal convenente può dirsi fissata.
“È dunque falso del tutto che quel benemerito vocabolarista abbia attinta veruna voce dai Contusi, dai Cagiani, dai Pocaterra, nè da tutta quell’altra ciurma di sciagurati scrittori, nomi tutti cavati dall’indice del Bergantini. Il solo Bergantini ha bevuto a quelle torbide fonti: ed è per questo che la sua material collezione diventa pericolosa, e che il separarvi l’oro dalla mondiglia tornerebbe a maggior fatica che il purgar le stalle d’Augia. L’Alberti che in fatto di lingua aveva miglior odorato del Bergantini, non cita che autori approvati dall’oracolo della Crusca13, e di tutti ei ne porge indici distintissimi, e vi comprende ancor quelli che, per partito preso nell’adunanza del 1786, furono aggiunti al catalogo dei classici padri della favella.
“Non meravigli Vostra Eccellenza se, nella difesa dell’Alberti, l’Istituto prende qualche calore. Imperocchè, appresso le più riposate considerazioni essendo egli venuto nell’opinione che il Dizionario Universale critico enciclopedico della lingua italiana dell’Alberti sia l’unico da cui si possa sperare molto sussidio alla compilazione del nuovo Vocabolario, parea convenevole il dissipare dall’animo di Vostra Eccellenza ogni sinistra impressione intorno a quell’opera, onde poi non venisse riputato insano il giudizio di chi la segue. Nè l’Istituto, anteponendo l’Alberti al Cesari e al Bergantini, intende di non voler chiamare in ajuto del suo lavoro ancor le fatiche di questi due. Intende solo di dire che scarso è il profitto che sen può trarre. Non dal Cesari, perchè egli insozzando di tante voci del tutto morte il vivo fior della lingua14, sembra non aver avuto altro divisamento che ricondurre l’Italia all’infanzia della favella. Non dal Bergantini; perchè, siccome si è detto, la sua collezione (nella quale l’Istituto per vero avea poste molte speranze, allorchè il cessato Governo, a consiglio del fu cavaliere Lamberti, ne fece a caro prezzo l’acquisto), esaminata dopo e discorsa pazientemente, null’altro si è trovato che un inerte e vasto coagolo di parole, e il Lamberti morendo ha portato seco il dolore d’aver consigliata sì mala spesa.
“E poniamo che in quella collezione sien molte voci meritevoli di esser mantenute. Alla fin fine il vantaggio che ne deriva, in soli e nudi vocaboli si risolve. Ma ben altro che di vocaboli è l’impresa di che si tratta. Il Vocabolario, di cui la sapienza del Governo, e diciam pure tutta l’Italia, desidera la riforma, è il grande Vocabolario della Crusca, da noi tenuto finora come sacro e inviolabile codice della lingua. Or questo Codice, dinanzi a cui tremano le superstiziose coscienze degli scrittori, è seminato di tante voci mal dichiarate sì nel latino e nel greco come nell’italiano; “di tante che furono traviate dalla lor vera significazione; di tante che vanno prive di esempio, mentre mill’altre ne soprabbondano; di tante che sono vive, e si danno per morte, e di morte che si danno per vive, e non han più soffio di vita; di tanta confusione dei sensi proprj co’ figurati; di tanti passi d’autori stortamente compresi, in somma di tante nuvole prese per la Dea, che il disgombrarlo da tutta questa selva d’errori è sudore di molto tempo e di molte fronti. E a tutto cielo s’inganna chi a ciò spera soccorso dal Cesari e dal Bergantini: poichè sì l’uno e sì l’altro piglia per buono e per santo tutto che trovasi nella Crusca: e il Cesari per aggiunta non solo ne copia ciecamente tutti i peccati, ma ve n’accresce buona derrata di proprj: il che fu fatto già manifesto nei dialoghi del Poligrafo.
“La riforma adunque del Vocabolario, in ciò che dipende dall’augumento delle nude parole, è lavoro di corta lena; e i Bergantini trovansi dappertutto. Ma. la sua ìntima correzione dimanda intelletti nudriti di miglior critica, colla quale ben si sappia estimare il valore delle parole, e ben segregare dalle infette le sane, e ben confortarle di classica autorità; e finalmente metter la scure non del pedante ma del filosofo, agli errori già stabiliti, e stirparne e svellerne le radici.
“Terminato questo duro lavoro, resta l’altro, nulla men faticoso e nel Vocabolario della Crusca sì trascurato, quello di una ben ordinata etimologia, per mezzo della quale illustrare, e accuratamente distinguere in primitiva e derivativa l’origine delle parole, onde, conosciuto il tronco generatore, agevolmente conoscerne i generati. Indi l’altro pur pieno di molte spine, quello cioè dell’ortografia, soggetta a tante variazioni quante son le pronuncie, e divenuta al presente, un orribile guazzabuglio mercè delle Giunte Veronesi, le quali a tutto potere, con tanto pericolo della non pratica gioventù, e con tanto inganno dello straniero, hanno rimessa in campo l’ortografia dell’imperator Federico e del suo segretario Pier delle Vigne; l’ortografia insomma dei Ducentisti e Trecentisti, che niuna affatto ne conoscevano.
“Emendati i vizj del Vocabolario, e provveduto con nuove voci al bisogno delle arti e delle scienze, resta che vi si aggiungano le eleganze del favellare, dalla Crusca dimenticate; dico le locuzioni, nelle quali consiste principalmente la grazia e la venere della favella. E di queste è già pronta buona ricolta.
“Fatta ragione alla prima parte delle osservazioni, sulle quali è piaciuto all’E. V. di chiamar l’attenzione dell’Istituto, è suo stretto dovere l’aprire adesso il suo animo sulla seconda, nella quale l’osservatore primieramente ci porge il cortese consiglio di render pubblico l’invito ai dotti del Regno di somministrare vocaboli e frasi. Indi pone in mezzo il quesito, se l’Istituto, pria di venire alla pubblicazione del suo lavoro, debba procedere ai concerti coll’Accademia della Crusca.
“Egli è vano il ripetere che, nella riforma del Vocabolario Italiano, il punto dei vocaboli e delle frasi è il minimo degli oggetti, e che il primo da contemplarsi e il più arduo da eseguirsi è il purgamento de’ suoi errori. In quanto poi al consiglio di render pubblico quell’invito, l’Istituto loda volontieri lo zelo dell’osservatore, ma supplica l’E. V. di voler nell’alto suo intendimento considerare che, quando per l’Istituto si crede cosa ben fatta l’invitare a questa nobile impresa non solo i dotti del regno Lombardo Veneto, ma di tutta insieme l’Italia dal piè delle Alpi fino alla punta di Lilibeo (perciocchè fra questi due termini è sparsa la gran famiglia dell’italiana letteratura, e tutti scrivono la stessa lingua, e tutti sentono il vivo bisogno dì governarla con una comune universale legislazione); altrettanto inconsiderata e pericolosa riuscir potrebbe la pubblicazione di questo invito, se prima non si risolve maturamente il quesito dei proposti concerti coll’Accademia della Crusca, o dritta o torta che sia la lor pretensione, si stimano i soli e legittimi arbitri della favella. L’invitar dunque i dotti d’Italia avanti di venire ai concerti con gli Accademici, piglierebbe sembianza di poca stima verso di essi; sarebbe un dir loro svelatamente che noi li teniamo non primi, ma secondi, ma ultimi nella cognizione di questa materia. E allora non solo non vorranno associarsi al lavoro dell’Istituto, ma verranno a peggio, spargendone mala voce-, e disturbandolo per tutti quei mezzi che il rancor letterario suole somministrare. Prima dunque di dar l’invito alla stampa, si esamini se torni bene il concertarsi cogli Accademici.
“Ognuno che, a conseguir qualche fine, cerca di collegarsi, pria di stringere società considera seco stesso i costumi, la qualità, il carattere del collega a cui ha volto il pensiero, e le forze da porsi in comune, e i vantaggi che possono risultarne. Sarebbe invidiosa e somma ingiustizia il negare l’infinito bene che ha fatto all’italiana letteratura quella illustre Accademia, raccogliendo tutto in un corpo il grande tesoro della divina nostra favella. Più che cento furono gli Accademici, che in diversi tempi concorsero alla formazione di quella grand’opera; fra i quali amarono di veder segnato il loro nome tre principi cardinali di casa Medici, ed anche un granduca. Ciò tutto vero. Ma l’interno ed occulto spirito che diresse un tanto lavoro, quale si fu? Lo spirito di nazional pretensione; la mira di stabilire il dialetto toscano per lingua universale italiana. E non dispiaccia a V. E. che si sveli istoricamente tutto questo odioso mistero, onde l’illuminato suo discernimento conosca meglio quel che appresso si avrà da fare.
“All’assoluta dittatura dell’universale idioma italiano, affidati alla prevalente bellezza del loro dialetto, aspirarono i Fiorentini fino dai remoti tempi di Dante; il quale mal sofferendo quest’arroganza, scrisse in latino il trattato della Volgar Eloquenza, e biasimò fortemente e derise la pretensione dei suoi Toscani, che alla lingua illustre, creata dagli scrittori e comune a tutta l’Italia, tentavano di sostituire il solo dialetto particolare della Toscana. Il dantesco trattato, di cui si aveva certa contezza per le cronache del Villani, giacque per ben due secoli seppellito: ma finalmente dissotterratosi dal Corbinelli in una biblioteca di Padova, e messo in volgare dal Trissino vicentino, gli occhi de’ letterati italiani di qua dell’Arno e di là si rivolsero tutti sopra il gran punto della questione, se, oltre il dialetto toscano, vi fosse altra lingua in Italia di cui a buon diritto valersi nelle scritture. I Toscani, da sì gran nemico assaliti (chè il solo nome di Dante li spaventò), dal bel principio impugnarono a tutta forza la legittimità dello scritto: e allora si corse da ogni lato alle armi, e si appiccò fra i dotti una fierissima zuffa, che consumò molto inchiostro d’ambo le parti, e durò più d’un secolo, e non è ancora al tutto sopita; quantunque fino dalla metà del secolo andato, il principe de’ giureconsulti e de’ critici Vincenzo Gravina, nel suo profondo trattato della Ragion Poetica, abbia già definita la lite contro i Toscani.
“Intanto essi, mal reggendo alle forti ragioni di quel trattato, per assodare la combattuta lor dittatura procedettero animosamente alle vie di fatto, e ideato il Vocabolario della Crusca, prontamente lo compilarono, ed esclusero dal medesimo tutti i vocaboli che vivi e vegeti e ben sonant vagavano per tutto il resto d’Italia, ma non erano sgraziatamente stati ancor tinti nel liquido oro, che scorre sotto il ponte di Santa Trinità; o che, nel significato della stessa cosa, per la differenza di qualche lettera sonavano diversamente dai vocaboli fiorentini; e per non nuocere a quelli del Mercato Vecchio, si giunse perfino a dar l’esilio a vocaboli che, secondo il precetto oraziano, parce detorti cadevano dal materno fonte latino, e più dotta e più nobile rendevano la favella. Ma ristretto dentro a questi confini, il Vocabolario della Crusca riuscì così magro e digiuno, che subito si fe sentire la necessità d’impinguarlo e ampliarlo coi materiali degli scrittori, che fuori del dialetto toscano avevano dilatata in più ampio spazio In lingua. E fu cosa meravigliosa il vedere l’Accademia della Crusca, costretta dall’onnipotenza dell’opinion pubblica, canonizzare per autor classico anche Torquato Tasso, quel Tasso che dai fondatori della stessa Accademia era stato sì rabbiosamente straziato e coperto di villanie; alle quali pose il colmo miserando lo stesso gran Galileo, acciocchè i posteri s’accorgessero che egli pure era uomo. Tanto è il delirio delle passioni, le quali gettano al basso anche i cuori più generosi, e non addormentano il loro furore che sui sepolcri.
“L’intenzione adunque ordinatrice del primo Vocabolario della Crusca fu quella di stabilire in Firenze il despotismo della favella, e di rivocare a sè l’universale della lingua illustre italiana, per riporre in luogo di que sta il particolare dialetto della Toscana. E per lingua illustre intendiamo la lingua che un dì parlavasi nelle Corti italiane, le quali gareggiavano nell’adunar d’ogni parte il fiore de’ letterati, e da questi castigatamente scrivevasi dappertutto e traevasi, non già dal parlare della plebe, ma dai fonti dell’erudizione o della filosofia; e questa è la lingua che per noi deesi vendicare, e che essendo lingua comune a tutta l’Italia, italiana deve chiamarsi non fiorentina. Ben è il vero (per usar le parole del citato Gravina) che il dialetto toscano più largamente che gli altri partecipa della lingua comune ed illustre; ma ciò non toglie ch’ei sia pur sempre mero dialetto; e un dialetto, per copioso ch’ei sia e nobile e gentile, non può arrogarsi il titolo che unicamente competesi alla lingua universale di una nazione15.
“Italiano adunque, e non toscano16, non della Crusca deesi intitolare il Vocabolario, a cui la saggezza del Governo comanda che l’Istituto mett-t le mani. Or questo titolo piacerà egli ai moderni Accademici della Crusca? Vorranno essi concorrere coll’Istituto a dispossessarsi dell’usurpato loro dominio? Siamo noi certi che lo spirito da cui oggi è animata quell’Accademia, sia diverso da quello de’ suoi fondatori? V’è egli a sperare che siasi fatto più discreto, più ragionevole, più conforme ai diritti di tutta la letteraria corporazione, di cui gli onorandi Accademici non sono che una porzione, e ancor la minore? E vorranno essi concedere che il tribunale della favella non siede nè sull’Arno, nè sul Po, nè sul Tevere, ma dappertutto ove son penne che la sappiano scrivere esattamente? Ecco le prime domande a cui la Minerva dell’Istituto non sa che rispondere.
“L’Accademia della Crusca, questo venerando oracolo della lingua, gode egli al presente di quell’alta riputazione che un dì gli acquistarono i Salviati, i Redi, i Lami, i Salvini? Ecco un’altra domanda a cui la buona creanza dell’Istituto non deve rispondere.
“La Sibilla di questo oracolo, dopo la recente sua restaurazione, ha ella dato prove sicure della sua perizia, del suo retto giudizio in fatto di lingua? A questa interrogazione, grazie ad Apollo, ha risposto tre anni fa la Crusca medesima, coronando come opera classica la storia del Micali toscano, di cui nessuno più parla; e rigettando, anzi vituperando pubblicamente la storia del Botta piemontese, che tutti leggono con sentimento d’ammirazione, e che, tradotta in più lingue, per universale consenso e tenuta un capolavoro.
“E per le stampe di Firenze dell’anno scorso non si è egli veduto il Viaggio per la Valacchia e la Transilvania del toscano Sestini, la cui prefazione è un dileggio perpetuo della Crusca? Ben altri potrebbe dire che il Sestini vilipende quell’Accademia, costituita a mantener salde le regole del bello scrivere, perchè appunto egli stesso scrive pessimamente. Ma se la riputazione di quell’illustre consesso è perduta nell’estimazione de’ suoi medesimi cittadini, non pare che i letterati lontani siano tenuti a farne gran conto. Nulladimeno il giudizio che ne fa l’Istituto Cesareo è più liberale. Egli pensa sinceramente che il poter consociare le sue fatiche a quelle degli Accademici, tornerebbe a molto profitto, solo che dall’un canto e dall’altro potesse mettersi egual zelo, egual buona fede. 11 far tacere le frivole letterarie passioni che questa unione potrebbero attraversare, sta nelle mani del saggio che ci governa: e l’Istituto ha già detto abbastanza, perchè l’E. V., la tutta ragion veduta, saprà risolvere nel suo senno”.
In questa relazione, a tacer il resto, è bizzarro il giudizio sopra il Bergantini, tenuto dapprima in supremo capitale da una Commissione di cui il Monti facea parte, poi qui gettato nel fango.
Il padre Bergantini, oltre varie operette registrate dal Mazzuchelli, e traduzioni poetiche dal latino e dal francese, fiacche e pedantesche ma di sapore italiano migliore che al suo tempo non si usasse, spogliò gli scrittori e il Vocabolario della Crusca per ripescarvi voci non registrate in questo, e ne fece un’amplissima opera: Della volgare elocuzione illustrata, ampliata e facilitata. Riuscendo eccessivamente lunga pel pubblico, e’ ne diede fuori un compendio a Venezia nel 174517, del quale tennero conto i successivi editori della Crusca. Noi ci troviam alla mano que’ farraginosi lavori; e prima il Dizionario dell’eloquenza italiana, compreso in dieci volumi grossi, di buona lettera: dove indica che, stampandolo, avrebbe a mettervisi la prefazione che ora leggesi nel libro pubblicato: Voci scoperte e difficoltà incontrate sul Vocabolario della Crusca. Soggiunge che, quando si Volessero unire questo e il suo Dizionario Universale Italiano, si potrà benissimo; sol per non ingrossare la mole avendo separato questo, che comprende i modi di dire e le spiegazioni esatte di moltissime voci, massimamente scientifiche, da quello che comprende le sole voci.
Dato il tema, l’autore lo spiega, vi aggiunge le sinonimie ed anche le qualificazioni, a un bel presso come nella Regia Parnassi. E di questo tono continua pei dieci volumi, che, dalle note cronologiche appostevi, mostransi scritti dal dicembre 1755 al novembre 1757: e al fine mette in forma d’epigrafe: — Gianpietro Bergantini — veneziano teatino — autore e scrittore di questi dieci tomi — porta invidia all’antico poeta — Lodovico Pascasi — che in uno de’ suoi sonetti conchiude: — Ecco che al fin di tante mie fatiche — Volgo la nave coronata al lido”.
In fatto era ben lungi dal lido: perocchè ad un volume di supplemento riservò le parole che più frequentano nelle frasi, cioè: Andare, Avere, Dare, Dire, Fare, Mettere, Pigliare, Porre, Prendere, Stare, Tenere, Venire. Parere in isbaglio era stato da lui già posto nel Dizionario. Basti dire che il solo Andare occupa 42 facce di carattere abbastanza fitto. Il volume fu compito a’ 14 gennajo 1758.
Nel Dizionario Universale Italiano registra le voci che già si trovano nel Vocabolario; altre, distinte con asterisco, tratte da autori che non specificò, avendoli raccolti prima che gli entrasse il disegno di quest’opera; altre son nuove, legittimate dall’allegazione dell’autorità. Formano sei grossi volumi, l’ultimo de’ quali porta la data del 2 di luglio 1759. Qui le parole sono semplicemente riferite e spiegate, per esempio:
“Spolverezzo, bottone di cencio, entro cui è legata polvere di gesso o di carbone per uso di spolverare. § Spolvero, o disegno ricavato collo spolvero.
“Stratico, lo stesso che stratego o stratelace (Ammir., opusc. p. 169). § Capo del senato o governatore della città in Messina, e nome di dignità, che ivi nel 1646 fu poi soppressa. Battagl., anno 1646.
“Viscidità, astratto di Viscido, Viscidume, Polif., p. 211. Redi cons. 1,28 Del Papa, nat. um. ecc.”
C’è un volume di aggiunte, nelle quali è notevole che moltissime sono tratte dal Ducange, Dizionario della bassa latinità. Poi al fine andava facendo aggiunte senz’ordine, man mano che gli capitassero, e le ultime, per darne un saggio, sono:
“Anticotono, libro contro il gesuita Cotono.
“Limpio, frugale: Bonfadio, lett. 24. Troverà una tavola limpia e con poche ma gratissime vivande.
“Lucanicaro, Pizzicagnolo. Oraz. Teodoric. trad.
“Pompadour, sorta di colore. Postigl. ven.
“Disappassione, Imparzialità. Postigl. ven.”
Donde appare ch’egli non comprende soltanto le voci che sogliono collocarsi ne’ vocabolarj; e trae le sue autorità da altre fonti che non le classiche; quasi gli basti che sieno scritte, anzi dette, foss’anche solo in Venezia.
Nè siamo alle frutte: perocchè ha pure manuscritto un grossissimo volume, col titolo di Frasario toscano, tratto da molti luoghi de’ soli Dante, Petrarca, Boccaccio, e dal Vocabolario ultimo della Crusca, coll’aggiunta di quelle voci semplici degli stessi, tutti che nel detto Vocabolario non si riscontravano a’ luoghi loro.
Queste frasi sono, “per esempio, a acqua, a agio, a angoli retti, a argento, cangiare stile, dare l’assunto, fare una mala giunta, ecc.”: e via via ne reca la spiegazione e l’esempio.
Pare a lui quel che a ben pochi parrà, che tal lavoro abbia a venire a grand’utile; e si propone di estenderlo a tutti gli altri scrittori; al che non sappiamo se Dio gli abbia dato vita e pazienza.
Tornando all’Istituto Italiano, le contr’osservazioni che ho messe a pie di pagina non tolsero che, con dispaccio 5 giugno 1816 firmato Saurau, si approvasse la proposta di questo Corpo, non volendo si gittasse il tempo in discussioni: esser necessario concertarsi colla Crusca, ma non volersi con ciò metter l’un Corpo in dipendenza dall’altro, sibbene far che procedessero d’accordo nelle massime fondamentali. Il reggente incaricava perciò l’Istituto di presentargli una memoria diretta all’Accademia della Crusca, ove “esponga con nobile franchezza le proprie idee, e faccia invito a quel Corpo di concorrer con esso al lavoro dell’italiano Vocabolario”: il Governo la spedirebbe, e certo tutte le Accademie e i dotti contribuirebbero a preparar materiali.
Quell’invito non dice nulla di nuovo, e il dice con modi stentati e scorretti, e può leggersi nel tomo primo degli Atti dell’Accademia della Crusca. La quale rispose, con lettera, stampata ivi pure del 10 settembre 1816, qualmente da tempo si stesse preparando la quinta impressione del Vocabolario; vedrebbe volentieri quel che l’Istituto preparava: ma non era più in tempo di “convenir con esso e d’assegnare concordemente le massime preliminari, le norme, il metodo da tenersi”, giacchè fin dal maggio 1813 erano state prefisse: onde non potea che comunicargliele come da più anni osservate; mandavagli insieme i libri che di fresco avea stampati, acciocchè “si riconosca il desiderio di contribuire, per quanto da lei si possa, al buon successo dell’onorate fatiche dell’Istituto, cui però non si arroga di farsi scorta nel diffidi cammino”.
Il complimento così spesso rasenta l’ironia, che sono scusabili i nostri se ci videro sgarbatezza e rifiuto. Messo in puntiglio, l’Istituto ripigliò da sè il lavoro, e ne stese le norme18; e al Governo domandava d’esser provveduto di varie opere, pel valore di lire 4000, di ammanuensi che costerebbero 2000 lire l’anno; dell’adattamento di tre sale. Quest’ultimo punto si trovava superfluo (fu la risposta) atteso l’ampiezza de’ locali attribuiti a quel Corpo: agli altri due potea provvedersi coll’ordinaria dote dell’Istituto, e colla biblioteca, posta vicino a questo in Brera (16 febbraio 1817).
Ma in questo intermezzo erasi mutata l’aura generale, assodandosi l’austriaca dominazione; dell’Istituto molti membri erano morti; separati i Transpadani e Veneti; i pochi residui erano “di non fresca età, e logori dagli studj della lunga lor vita”; e, ch’è più, sorgeva in grembo all’Istituto chi l’opera comune facea propria, riuscendo, come avviene spesso, le forze d’un solo all’atto cui fallivano le forze di molti. In effetto, rispondendo al dispaccio governativo ora accennato, soggiungevasi: — Il signor cavaliere Monti, il quale si è assunto l’incarico di trattare la parte filologica della lingua, sta ora per render pubblico il frutto de’ suoi dotti faticosi lavori. Da questa parte dell’opera, della quale noi abbiamo altra volta informato l’I. R. Governo, potrà esso rilevare quale sia il piano che l’Istituto intende di seguire nelle successive sue operazioni, le quali riguarderanno principalmente i vocaboli delle scienze e delle arti.
“L’opera del cavaliere Monti sarà divisa in cinque parti:
“1ª Errori della Crusca e rispettive correzioni;
“2ª Aggiunta di vocaboli tutti classici e vivi;
“3ª Locuzioni, tutte classiche egualmente e corredate di note critiche;
“4ª Del bene e del male fatto dalle Giunte Veronesi;
“5ª Saggio di vocaboli messi per morti nel Vocabolario e resuscitati dall’uso; e d’altri vocaboli messi nel Vocabolario per vivi, e già morti del tutto”.
Indicammo le vicende della Proposta, opera omai giudicata dalla celere posterità. Il Monti chiedeva venisse in luce a spese dell’Istituto, e giace negli atti questa dichiarazione, di pugno di lui:
“Sul punto di metter mano alla stampa delle mie osservazioni sopra il Vocabolario, interrogo la mente de’ miei colleghi; e trattandosi di un lavoro, a cui, senza l’ajuto d’alcuno e tutto solo ho sudato per giustificare presso il Governo le operazioni e le cure dell’intero Istituto su questo assunto, propongo che il medesimo esamini nella sua coscienza e giustizia se la spesa dell’edizione debba andar tutta quanta a carico mio.
“E acciocchè la discussione corra più libera, mi ritiro dalla seduta”.
Sempre scarsi furono i mezzi dell’Istituto; allora viepiù, quando esso lasciavasi sussistere unicamente per distribuire i premj d’industria, senza nominarne nuovi membri; nel quale marasmo durò fino alla coronazione di Ferdinando I nel 1838, quando venne rinnovato con altre norme. Pure l’Istituto decretò un sussidio di 1500 lire al Monti, che prometteva dar una copia dell’opera sua a ciascuno de’ membri.
Nè egli sconfessò mai la parte che l’Istituto ebbe nell’opera sua; e nella dedica della Proposta diceva al marchese Trivulzio come “per tutta Italia una voce ad un grido” domandasse la riforma del Vocabolario della Crusca; del che discorrendo con esso Trivulzio, vennero “ambidue nell’opinione che ni uno debba poter condurre sì gran lavoro ad effetto meglio che i degni successori di quel medesimo Corpo accademico, che da oltre due secoli fu di tant’opera creatore. E nel vero la singolare loro dottrina e lo zelo che concordemente gli accende a meritar bene della nazione, e la meravigliosa abbondanza in che sono dei più corretti testi di lingua, e il bellissimo dei vantaggi d’aver da natura come proprio patrimonio il più pulito, il più gajo, il più vivo degli italici dialetti: ciò tutto ne assicura che non può fallire a buon porto l’impresa. E ch’essi medesimi quei valenti se la promettano felicissima, e che animati dal nobile sentimento delle proprie loro forze non istimino aver bisogno d’ajuto, apertamente il dimostra l’aver eglino rifiutata ogni altra esterna cooperazione. Imperciocchè (e sarebbe vile silenzio il tacerlo) il C. R. Istituto Italiano, dalla sapienza del Governo fortemente eccitato, anzi pur comandato di volgere allo stesso scopo il pensiero, opinando concordemente che in affare di sì gran mole era duopo chiamar in ajuto il sapere di tutti gli uomini letterati italiani, statuì per prima deliberazione che si dovesse innanzi a tutto procurar l’alleanza del gran sinodo della Crusca. Mossi noi quindi da unanime riverenza verso di lui, non fummo tardi a invitarlo e pregarlo di darne la sua valida mano in questa egregia fatica, sottomettendo, scevri di pretensione, tutto il da farsi al supremo oracolo degli accademici, e reputandoci abbastanza onorati del solo nome di semplici loro ausiliarj. La quale modesta offerta, tuttochè avvalorata da gagliardi ufficj ministeriali, rimase vuota d’effetto: e si parea che, trattandosi della emendazione ed aumento del Vocabolario in fatto di scienza, che £ quanto dire in fatto di lingua creata dal senno unico de’ capienti, e di cui i soli sapienti denno esser giudici, parea, dico, che i nomi europei degli Oriani, dei Piazzi, degli Scarpa, dei Volta, e quelli non meno d’un Breyslak e d’un Brocchi, d’uno Stratico e d’un Moscati, poi d’un Morcelli, d’un Venturi, d’un Paradisi, poi di altri in più numero, che, membri dello stesso corpo, sono lumi di scienza, e dentro e fuori d’Italia splendidissimi e riputatissimi, dovessero in sì ardua riformazione aver qualche peso. Ma considerata ben addentro la cosa, ognuno dirà quel rifiuto degli accademici nobilissimo; perciocchè i forti non amano la compagnia; e l’Istituto, ben lontano dal querelarsi della ricusata alleanza, ripete anzi con compiacenza il detto di quel valoroso, non so se Ateniese o Spartano, che in una popolare adunanza vedendo non farsi verun conto della sua persona, ringraziava gli Dei che la patria avesse abbondanza di cittadini ancor migliori di lui. Che poi savia e ben bilanciata debbasi riputare la ripulsa degli accademici, l’effetto lo mostrerà”.
Dalla semplice esposizione dei fatti consta quanto in tali asserzioni de Monti v’abbia di falso, o piuttosto, com’era vizio suo, di retorico. Ed esprimeva sensi suoi, anzichè dell’Istituto, quando a Giovan Battista Niccolini scriveva il 5 luglio 1818: — Solo vo’ dirvi (e ciò sia deposto nel segreto del vostro petto), che se v’ha tuttavia fra l’Accademia e l’Istituto una prova da ricondurre le cose a concordia, di tutta voglia io mi profferisco pronto a farne parola, sicchè i miei colleghi novellamente s’accostino agli accademici. Noi non vogliamo esser primi, ma la ragione e l’onore neppur consentono che seguitiamo ad essere schiavi; e, salvo il diritto di avervi pure una qualche voce in capitolo a difesa dei diritti nazionali contro i municipali, nel resto prenderemo a vostro senno la legge”.
Che se fossero vere le asserzioni di Giuseppe Montani e del suo biografo (Capolago, 1848) intorno alle persecuzioni che a Milano toccava chi sostenesse la lingua toscana, non andrebbero imputate che a qualche individuo, e nominatamente a Giuseppe Acerbi, direttore della Biblioteca Italiana, dove flagellò poi il Monti stesso, il quale gliene diede fiero ricambio.
Corsero anni e vicende assai nella pubblicazione della Proposta; della quale la parte seconda del volume terzo fu dal Monti dedicata all’Istituto con una prefazione, ove dei singoli membri di esso tesse- un elogio, con quella esuberanza ch’egli sapea mettere negli encomj siccome ne’ vituperi; e conchiude: “Questi ed altri, che, per eccellenza di bello scrivere, tengono i primi seggi.... il grave sinodo della Crusca sdegnò d’avere compagni nella riforma del Vocabolario”. Del che riferisce la colpa all’egoismo, che restringe in un dialetto la lingua nazionale. “Il che voi avendo con benevolo intendimento commessa a me, il minimo del collegio, la cura di esporre i vostri pensieri, superbo di questo onore, io mi sono, secondo le mie poche forze, studiato di colorire il vostro disegno.... Parmi di aver sufficientemente dimostrato non ragionevole l’ambizioso attentato del Vocabolario della Crusca, l’attentato vo’ dire di ridurre il comune idioma italiano alla misera condizione di lingua particolare sotto la tirannia del toscano dialetto....” E conchiude acciocchè facciasi lieto viso a quell’ultimo volume, “considerando ch’egli è il termine di un lavoro di tutta vostra ragione, perchè impostomi da voi stessi”.
Ai 17 luglio 1824 il secretario Carlini scrivevagli: — Nell’adunanza di giovedì scorso fu presentato all’Istituto nostro l’ultimo tomo della Proposta, del quale Ella si è compiaciuta trasmetterci molti esemplari. “Dopo i dovuti elogi da ciascuno tributati al benemerito autore, che da solo condusse a termine questo non meno dotto che faticoso lavoro, i riflessi dei convocati si rivolgono al non lieve dispendio che Ella ha dovuto sostenere per la pubblicazione d’un’opera, cresciuta alla mole di sei considerevoli volumi. E giudicando essi troppo tenue la somma che fin dal principio dell’opera sua era stata a lei decretata come sussidio per l’edizione, a voti unanimi hanno deciso di offerirle altre lire austriache 2000, da prendersi sulla dotazione dell’I. R. Istituto, quale attestato del pieno aggradimento con cui questo Corpo Accademico ha accolto un lavoro intrapreso per sua speciale commissione.
“Gratissimo mi è l’incarico di annunciarle una tale favorevole disposizione, e grata del pari mi è l’occasione che mi si offre di presentarle le proteste della mia più alta stima e considerazione”.
Non si può dire che l’Istituto, in quel mezzo e dappoi, si tenesse estraneo agli studj linguistici; e, a tacer altro, fra le poche carte che il vecchio trasmise al nuovo Istituto, troviamo l’esame fatto da Monti e da Rossi del Dizionario dei sinonimi italiani dell’abate Romani ancora manoscritto: e dell’altra opera di esso sul ridurre a logici principj la lingua nostra, e sulla libertà della lingua italiana, accolte favorevolmente, quanto invece trovossi a disapprovare il Dizionario della lingua greca di Bernardo Bellini.
La reputata ditta Fusi e Stella, nell’agosto del 1819 avea presentato all’I. R. Governo un’istanza, dove, accennando il favore dato da questo al concetto d’un nuovo Vocabolario della lingua italiana degno del secolo s offrivasi di intraprenderne a propria spesa e rischio la stampa, dividendo a metà coi compilatori il vantaggio che risultasse dalla vendita. L’Istituto sceglierebbe i compilatori, fra cui il Monti: prescriverebbe il sistema e le norme. Valutavano richiedersi 600 fogli in-4° da tirarsi a 6000 esemplari: laonde richiederebbe la spesa di 150,000 franchi. Chiedeauo pertanto, non che il Governo regalasse somme, ma che comprasse un numero di copie, anticipandone il prezzo, come aveva adoprato il Governo italiano con la collezione de’ Classici antichi. Quella, diceano, fu compita in 250 volumi; ora le fan compimento i Classici moderni: sicchè, ove dai tipi medesimi si pubblicasse anche il Vocabolario della lingua, questa capitale delle Provincie lombarde potrebbe gloriarsi d’aver, più d’ogni altra città, sostenuto l’onore della letteratura e della lingua nazionale19.
L’Istituto interpellato facea riflettere, che non trattavasi di stampare un lavoro già compiuto, bensì di farlo: e che lo facesse l’Istituto. Or questo, attenuato com’è, non potrebbe mai addossarsi tale fatica: nè sarebbe decoroso che un lavoro, dal Governo attribuito all’Istituto, venisse pubblicato per privata speculazione, a discrezione e onore di libraj, de’ quali esso sarebbe il ministro o cooperatore; mentre in Toscana il Governo s’è fatto primo ed unico promotore, benefattore, patrono del nuovo Dizionario della Crusca (Seduta 2 dicembre 1819).
In queste objezioni sentesi il proposito di non fare: ma altri, del Corpo stesso, poneva al divisamento librario alcuni appunti, eppure conchiudeva di accettare, rassegnando al Governo il disegno di un Dizionario, in un sol corpo o in due, distinguendo, cioè, il tecnico dal parlato: de’ collaboratori la rimunerazione non dovrebbe dipendere dalla discrezione di stampatori nè dall’esito dell’edizione: ogni sei mesi si farebbe noto all’autorità il risultato dei lavori, e speravasi compierlo in tre anni, non meno; ripudiando però ogni dipendenza dalle viste di stampatori, ogni relazione d’interesse.
Non si venne a capo di nulla, e dopo d’allora si sa quanti Dizionari comparvero, e quanti ingegni logorarono nell’andar a caccia di parole e frasi nuove. L’Istituto Veneto, che dopo il 1838 formò un Corpo distinto dal Lombardo, nel 1846 nominò una Commissione che con spogli di classici supplisse alle mancanze de’ più recenti Dizionarj; e stampò una prima messe di giunte nel 1852, poi nuove giunte nel 1855; oltre gli studj filologici e lessicografici del dottor Giovanni Domenico Nardo (Venezia, 1856).
L’Istituto Lombardo non ebbe duopo dì ciò, perchè nel suo seno trovavasi chi da solo finiva un compito, al quale non basterebbe nessuna Commissione. Il Monti, se pure una dottrina certa può cavarsi dalle continue contraddizioni del suo libro, e dal costante divario tra lo scrivere suo e le sue teoriche, diceva che una nazione dee avere un linguaggio a tutti comune: tale non può esser il parlato, perchè ogni paese ha un particolare dialetto: dunque è forza sia il linguaggio scritto, posto sotto le leggi di una grammatica generale, invariata, uniforme. Giovanni Gherardini sosteneva i canoni stessi, e fu lodato di liberale perchè opponevasi ad una tirannia, qual era quella che diceasi esercitata dalla Crusca. Così profanasi questo sacro nome di libertà anche in materie più rilevanti.
Per verità, non la Crusca, non un uomo, non l’etimologia sono i dittatori della lingua, bensì l’uso20: e chi portava opinione diversa dai predetti andava a molto maggior libertà, vale a dire alla sovranità popolare. Molte innovazioni suggerì il Gherardini, e alcuna ragionevole; ma il tempo le sanzionerà? non certamente quelle che non derivano dal popolo, dall’uso. Se non che coloro che vogliono grande libertà nel fare, han bisogno di saldi teoremi su cui appoggiarsi; ed ecco perchè i miopi tacciano di servili e di pedanti coloro che si prefiggono di scrivere secondo l’uso toscano, anzi fiorentino.
Al qual effetto porgerà supremo ajuto l’Accademia della Crusca, qualora, senza abbandonare quella interminabile tela penelopea dell’andar in traccia di ciò che fu scritto (lavoro dove ogni privato e in qualunque paese può fare altrettanto, e trovarvi sempre nuove mancanze), si proponga di regalarci quello che sol da Firenze ci può venire, un Dizionario della lingua viva, dato coll’autorità di chi l’adopera tuttodì, necessariamente progressivo, e che forse oggi più che in qualsiasi altro tempo; oggi, dopo discussioni accannite, frivole, severe, epigrammatiche, e dopo sentiti i mali della incerta autorità; oggi che più cresce il bisogno di parlare al popolo, diviene necessario per togliere la sciagurata divisione in lingua letteraria e lingua usuale, la differenza tra il parlar delle sale e lo scrivere del gabinetto; e per formare, coll’accordo comune, una prosa studiata e popolare, semplice e colta, istruttiva senza pedanteria, dilettevole senza trivialità, forbita dai dotti, intesa dagli indotti, aggradita dall’intera nazione, della quale saldi viepiù l’ingenita unità21.
Note
- ↑ Oltre l’atrabiliare Niccolini e socj, nel giornale di Firenze La Gioventù del 31 ottobre 1862 leggo: — Dorrà sempre all’Italia che V. Monti, che capitanava quella guerra sleale, il facesse per fini non troppo onesti, come apparisce dalla lettera (così non l’avesse scritta) ch’egli, ecc. ». Alludesi alla lettera sua del 6 agosto 1826 al marchese Trivulzio, ove vecchio e apopletico lo pregava ottenergli dal Governo austriaco la pensione di storiografo, e, fra altri argomenti, volea facesse sentire a S. M. «che il miserabile stato in cui sono caduto procede, a giudizio de’ medici che mi hanno curato (e giuro che non s’ingannano), da soverchio sforzo di applicazione nell’attendere per otto anni continui, con tanto consumo di mente, ad un’opera dal Governo medesimo comandata, senza alcuna rimunerazione, e senza altro frutto per me che la intima convinzione d’aver reso colla Proposta un gran servigio all’italiana letteratura, e fatto onore alla suprema autorità che l’ha comandata. E se facesse duopo una dichiarazione dell’Istituto, che il peso a lui imposto direttamente, la riforma cioè del Vocabolario, scaricò tutto sulle mie povere spalle, anche questa dichiarazione si otterrà, e apparirà sempre più chiaro che, per zelo di servire con lodi alle superiori intenzioni, io vi ho rimesso la vita».
- ↑ Nell’edizione della Storia dell’indipendenza americana fatta a Milano (Ferrari 1819), furono poste da 500 correzioni di lingua, principalmente levandone molti francesismi, per cura del prof. Antonio Maria Robiola, piemontese, e accettate dall’autore, come appare da lettere di esso Botta che stanno nella raccolta del Trinchera. Quanto agli arcaismi, sono strane le ragioni che il Botta ne adduce nell’avvertimento anteposto ad essa edizione. Fatto è che, nell’edizione fattane dal Bettoni, si dovette metter in fondo una lunga lista di parole antiquate, colla loro spiegazione neppur sempre certa.
- ↑ Il prof. Giovanni Rosini che, quando scriveva, non valea nulla più di noi, era uno dei più felici parlatori, e raccontava vivacissimamente un’infinità d’aneddoti sopra i letterati nostrali e avveniticci, che avea conosciuti nella lunga sua vita. Io l’eccitai più volte a stendere le sue Memorie, che sarebbero valse ben meglio de’ suoi romanzi. Ho molte lettere sue, da cui levo alcune particolarità appunto di battibecchi letterarj.
— Nel 1809 dovei scrivere l’orazione d’apertura agli studj in una notte, perchè Elisa granduchessa la volle in italiano. Le piacque, e mi disse la sera ad una conversazione il granscudiere che la stampassi e gliela dedicassi. Nella lettera che precede la consigliai di dar opera alla formazione d’un nuovo Vocabolario italiano. Le piacque il consiglio: ne commise un rapporto, che io composi di concerto col suo secretano e il dottore Anguillesi, impiegato nella sua secreteria. Il rapporto andò al ministro Montalivet: egli sentì Ginguené e Botta, e l’imperatore ordinò 1° la ripristinazione della Crusca in Firenze per formare il Vocabolario; 2° stabilì un premio di 20,000 franchi annui da darsi in Firenze a un’opera d’un merito superiore o in poesia o in prosa; in mancanza di essa, ordinò che si dividesse il premio in tre parti: due per due opere in versi, una per una in prosa. La granduchessa aprì subito il concorso, e prima della nomina definitiva dei dodici membri della Crusca, elesse una Commissione, composta del Mozzi presidente dell’Accademia fiorentina, Fiocchi peritissimo nella lingua, Zannoni bibliotecario della Magliabechiana, Lessi e Baldelli assai istrutti, e Furia bibliotecario della Laurenziana. Sessanta furono le opere mandate al concorso. Le due di maggiore importanza erano L’Italia avanti i Romani del Micali, e La Storia d’America del Botta: ma nessuna delle due fu giudicata degna del premio intero. In questo venne a Firenze il Bossi, colle istruzioni di riferire alla conversazione del Paradisi, la quale aveva già stabilito di far sì che il premio di 20,000 franchi fosse dato per distribuirsi all’Istituto di Milano, e aveano concertato che, qualunque fossero le opere, avrebbero fatto la guerra ai giudici e premiati.
«Io intanto aveva scritto il canto delle Nozze di Giove e Latona e mandato al Monti, come da scolaro a maestro, e più come al compare di mia figlia, perchè me ne dicesse il parer suo; e intanto avea scritto il 2°, 3° e 4° canto che mandai al concorso. Il Bossi tornò da Firenze, ed annunziò il nome dei tre premiati, Micali, Niccolini ed io, all’unanimità. Il Monti (chi lo crederebbe?) diede l’esemplare del 1° canto al Lampredi, dichiarato Argillano di quella rivolta, per farlo strapazzare in una gazzetta: e non contento di ciò, sapete come ne scrisse al Tambroni. Il bello però fu che il Lampredi, in Milano e sempre ai crini del Monti, biasimava il principio,Era già cheto il rimbombar del tuono,
non ricordandosi il principio della Bassvilliana,
Già vinta dell’inferno era la pugna.
«Il Lampredi scrisse un libretto senza senso comune; quindi tre articoli nel Poligrafo; il Paradisi due libelli, il Lamberti la famosa lettera di Clevaste Parnesio, e sino quel buffone di Rossi di Reggio una parodìa del 1° canto. Dal libretto del Lampredi e da una gazzetta di quel tempo apparisce che quei signori voleano esser premiati senza concorrere. E la cabala e l’influenza del’ Paradisi sull’Aldini ministro a Parigi poterono tanto, che ottennero dall’imperatore un vero giuoco di bussolotti, con un decreto che portava: «Vista l’opinione del giurì di Firenze, che propone 10,000 franchi, ecc., se ne rimette il giudizio definitivo all’intero Istituto di Firenze» (che era stato nominato in quel tempo da Cuvier, Degerando e Janet).
«Or qui cominciali le dolenti cose. Il Micali con quattro tomi e l’Atlante, paragonati a due librettini come era il mio poemetto e la Polissena del Niccolini, ci volse le spalle per tentare se al nuovo giudizio otterrebbe il premio intero: e l’avvocato Collini (che avea mandato al concorso una sua opera di legislazione, la quale non aveva ottenuto neppur la menzione onorevole), eletto dell’Istituto, per vendicarsi ritirò l’opera e si assise giudice de’ suoi vincitori. Fu concertato tra i Milanesi e lui che si cercherebbe di persuadere i nuovi giudici di non dar nulla a nessuno. Voi vedete, conoscendo gli uomini, qual era il nostro pericolo. Io, per prepararmi alla catastrofe più che probabile, stesi il piano d’una farsa, intitolata Primo e secondo giudizio, in due atti e in versi; e di cui, per farvi ridere, voglio trascrivere un terzetto. Al Micali, allora amico, io aveva detto che, in questo affare, non ci erano di solido che i 3300 franchi, il resto era fumo. Divenuto nemico, si serviva di questo scherzo per dir male di Niccolini e di me. Ecco che cosa gli ponevo in bocca:Micali e due bidelli dell’Accademia della Crusca.
Micali. Quello poi che più mi stomaca
È il trovarmi in concorrenza
Di poeti con un paro
Senza fama nè decor,
Che più stimano il denaro
Della gloria e dell’onor.Un Bidello.
Oh sublimi sensi e bei
Di chi presta al trentasei,
E col pegno nelle man!L’altro.
Sempre peggio è degli ebrei
Se ti scortica un Cristian.Per varj mesi fummo in preda alle male arti, che infine soggiacquero alla giustizia
- ↑ Nel concorso del 1813 si premiarono il Mengotti per l’opera Sulle acque correnti; il Pindemonti pei discorsi aggiunti all’Arminio; il Colombo pel trattatello Sulle doti d’una colta favella. Nel premiare il Mengotti l’Accademia gli scriveva che «se in vigor della sua istituzione, apprezzar doveva ogni libro che disteso fosse in bello e purgato stile toscano, ragion volea che più estimasse quelli che, in un col pregio della lingua, si avessero l’importanza dell’argomento, e manifestassero sommo ingegno ne’ loro autori».
- ↑ Il Monti, il De Rosmini e il Lamberti, dimoranti a Milano, il Pindemonti e il Cesari di Verona, Galeani Napione di Torino, Morelli e Mengotti veneti, Colombo di Parma, notando che i corrispondenti erano soli 22.
- ↑ Il Cesari scriveva a Camillo Ugoni nel 1810: — Se le forme native, le voci e le eleganze del 1300 a lei non piacciono affatto affatto, nè io, nè ella rimarremo contenti al fine dell’opera (del correggere la traduzione dei Commentarj di Cesare); da che io non amo, nè pregio, nè voglio usare altri modi, che i soli di quella età: e gli altri non cerco nè stimo». E altrove (6 dicembre 1811): — In Milano so d’aver de’ nemici, e il seppi viemeglio quando si fu ad eleggere i membri dell’Istituto, che essendovi io pure stato proposto per esserne uno, ne fui sfrattato come pedante. Ella vede. Tuttavia qual cosa ne uscirà, e lo sperar costa poco».
Veduta la Morale Cattolica di Manzoni, il Cesari mandogli congratulazioni, ma l’esortava a imparar a scrivere. All’apparir de’ Promessi Sposi, non ancora lavati in Arno, ne sentì la potente naturalezza, tanto arieggiarne quella de’ suoi trecentisti, cioè popolare. - ↑ Della volgare elocuzione illustrata, ampliata, facilitata; opera di Giampietro Bergantini, Ch. R. Teatino. Vol. I, contenente A. B. Venezia, Lazzaroni, 1740.
Le voci italiane del Bergantini furono dedicate al conte Jacobo Sanvitali, illustre parmigiano, adoprato in impieghi e diplomazia. Esso lo ricambiò col Parere del conte Jacobo Sanvitali (Venezia, 1746), nel quale toglie a difendere l’uso della mitologia nelle poesie moderne, contro un Luigi Salvi, che aveva pubblicato una dissertazione per disapprovare quell’uso. Altrettanto avea fatto, com’è noto, il Tasso nel dialogo il Cataneo, ovvero degli idoli. - ↑ Paradisi, Oriani, Volta, Carminati, Morosi, Monti, Lamberti, Rossi, Bossi Giuseppe, Araldi, Carlini.
- ↑
Milano, 30 maggio 1813
Nell’esaminare, che ha fatto la Commissione i voluminosi manoscritti del Bergantini, i quali han di molto illustrato ed accresciuto il tesoro della lingua e della elocuzione italiana, ha sentita profondamente la importanza e l’utilità dell’acquisto fattone da S. E. il ministro dell’interno, ad uso e profitto precipuamente del R. Istituto; e colla massima alacrità s’è rivolta a meditare e a prescegliere i modi più acconci di giovarsene, per incremento e gloria del nostro soave e non mai abbastanza studialo ricchissimo idioma. Corsero tostamente le prime riflessioni sul Dizionario della Crusca, lavoro grande e difficile, che onora il secolo in cui comparve, ma tale però, che non si può considerare come unico e perfetto deposito di tutta la dovizia della nostra lingua. Imperocchè niuno per esperienza ignora di quanti errori non solo sia sparso anche nella nuova edizione del Cesari, che vocaboli e frasi vi aggiunse non prima scoperte o avvertite, ma quanta messe rimanga pure da farsi negli autori classici, che furono proposti per sicuri maestri di lingua, e quanto si possa utilmente raccogliere da tanti altri libri, che in tutto o in parte eran degni di entrare nel novero dei magistrali. Una poi delle più gravi considerazioni, su cui la Commissione si dovette fermare, fu quella della necessità di provvedere al linguaggio delle arti e delle scienze, le quali non son certe della convenevolezza di parecchi de’ suoi vocaboli, perchè l’Accademia della Crusca non guardò troppo addentro nelle opere scientifiche, e perchè le cognizioni filosofiche, di tanto presentemente accresciute ed estese ilei loro dominio, hanno duopo di spiegare nuove idee e nuove scoperte con parole rispondenti a’ nuovi concetti, giusta l’avviso di Orazio, «si forte necesse est Indieiis monstrare recentibus abdita rerum», confermato da lui poco dopo ove esclama: «ego cur acquirere pauca, Si possum, invideor, cuna lingua Catonis et Enni Sermonem patrium ditaverit, et nova rerum Nomina prolulerit?» Ma per ben riuscire all’intento, senza tema d’introdurre mal a proposito nuovi vocaboli quando per avventura la lingua ne possedesse di equivalenti e proprj, o di peccare poi d’arbitrio o di negligenza nella scelta e nella formazione delle voci necessarie, avvertì la Commissione quanto fosse opera malagevole e pericolosa e vasta l’entrare in siffatta selva senza il soccorso e l’autorità dell’intero ceto de’ dotti, che col sapere e col numero han dritto d’essere magistrati della italiana letteratura; e di dettare all’uopo coll’unanime suffragio nuove appendici al codice della lingua.
Guidata adunque da tali e da consimili altri pensieri, la Commissione venne combinando alcune massime fondamentali da presentare al R. Istituto, come norme, se gli piacerà d’approvarle, del lavoro da farsi per ripulire, e per ampliare, a seconda del desiderio sopratutto degli scienziati e degli artisti che ne abbisognano, la gran conserva dell’idioma italiano.
Eccole in pochi tratti. La Commissione, nell’affacciarsi a considerare in qual modo l’Istituto R. potrà prender parte a giovare alla lingua italiana, ha unanimemente portato opinione:
1° Doversi emendare gli errori, che si trovano nella Crusca;
2° Doversi arricchire la Crusca di moltissime voci di autori citati nel Vocabolario, e nulla di meno ommesse,
3° Doversi arricchire la lingua di tutti i vocaboli necessarj alle arti, dei quali la Crusca è mancante, e che, o sono stati dimenticati, o si sono trovati dopo, nel perfezionarsi le arti medesime.
La Commissione è poi d’avviso, che, a rendere più perfetta, e a conciliare maggiore autorità a questa operazione, si debbano chiamare in soccorso i lumi di tutti i letterati e scienziati del Regno. Per questa operazione la Commissione porta avviso.
1° Che sia da istituirsi una Commissione centrale nella residenza dell’Istituto in Milano, composta di dieci membri almeno per ogni classe;
2° Che una somigliante Commissione debba istituirsi nelle quattro sezioni del R. Istituto;
3° Che la Commissione centrale sia incaricata di formare il piano necessario, perchè questa operazione proceda col miglior ordine e colla maggiore possibile celerità;
4° Che le Commissioni tutte si occupino esse medesime direttamente di questo lavoro, ed entrino in corrispondenza coi dotti e co’ letterati del loro circondario; cosicchè si possano raccogliere per tal modo i lumi tutti e le cognizioni, delle persone più istruite;
5° Tutti i lumi e tutte le cognizioni, che si saranno per tal modo raccolte, finiranno nelle mani della Commissione centrale, la quale darà forma al lavoro, e la presenterà all’Istituto R. per la sua approvazione.
La Commissione essendo convenuta in questi articoli fondamentali, ha incaricato, i signori cav. Rossi e Lamberti a stendere il rapporto da presentarsi all’Istituto. - ↑ L’Alberti nel primo volume cita l’esempio, non l’autore. L’Accademia Francese, molto meglio, fa essa gli esempj.
- ↑ Questo rapporto, destinato al Reggente, era firmato da De Capitani consigliere e Bernardoni secretano. Il Bernardoni, autore di varie operette poetiche e filologiche, è morto il 1852. Paolo De Capitani, divenuto poi consigliere aulico presso il vicerè, entrò come membro onorario dell’Istituto nel 1838, e morì il 1846, di 69 anni.
- ↑ “Si raffrontino la Crusca nel 1763, e l’Alberti del 1797 con le Voci italiane del Bergamini, stampate nel 1745.
“Nelle tre prime facce di queste Voci italiane non sono registrate che 132 parole in tutto; eppure 67, che è quanto dire più della metà, si leggono nell’Alberti, ma non nella Crusca. Eccole nel qui acchiuso foglio segnato n.° 1. Si noti che quelle distinte con un asterisco (e montano alla rilevante quantità di 37) sono attribuite agli stessi autori tanto dal Bergamini quanto dall’Alberti. Per rispetto poi alle altre, il Bergamini cita bensì gli autori dai quali le trasse, ma l’Alberti li tace, ed il perchè n’è chiaro. Esse sono in gran parte usate da uomini che non hanno alcun credito nel fatto della lingua, se pure ne hanno alcuno anche nelle materie, delle quali hanno preso a trattare, cioè dal Battaglini, dal Toscanelìi, dal Garzoni, dal P. Casini, dal Vanozzi, dal Liburnio, dal Galli, dal P. Oliva.
“E laddove rimanesse ancor qualche dubbio circa l’avere l’Alberti inserite nel suo Dizionario parole che la Crusca non ammise e che si leggono nel Bergamini, e l’avere egli taciuto i nomi degli autori che ne fecero uso, perchè non approvati, diasi un’altra occhiata alle Voci italiane dalla faccia 5 alla 20; poscia vadasi per salto alla 236, e si vedrà (foglio II) quante e di qual non comune carattere se ne abbiano; e queste appartengono (oltre il Battaglini, il Toscanelìi, ecc., rammentati disopra) al Tesauro, al Ruscelli, al Partenio, al Priscianese, allo Stigliarli, al Silos, al Panigarola, al Pinamonti, al Della Barba, al Muzio, al Rau, all’Aleandri che difese il Marino, al Grillo, al Sanseverino, al Bertoldo con Bertoldino e Cacasenno. Quanti, stando a queste proporzioni, non saranno essi i termini che l’Alberti ricavò da tutta l’opera del Bergamini, che è di 432 facce?
“La gran quantità dunque delle stesse stessissime parole che si hanno in tutti e due i mentovati vocabolaristi senza che le abbia la Crusca, e l’essere il Dizionario dell’Alberti posteriore di tanti anni a quello del Bergamini, varranno a dimostrare, più che qualunque ragionamento, se possa supporsi incontro fortuito; e se non piuttosto il primo siasi servito delle fatiche del secondo senza mai citarlo” (Contronota d’uffizio. Ommelto le liste di parole). - ↑ “Basta ricorrere per l’appunto a questi tali indici per dimostrare il contrario. Di fatto, dopo d’averci dato l’Alberti, alla faccia XLIV che viene in seguito alla sua Prefazione, l’Indice degli scrittori scelti che per partito preso (com’egli asserisce) nel 1786 furono giudicati meritevoli d’essere adottati; due altri indici ne porge di altri autori (faccie XLV, XLVI), che oltrepassano i quaranta, e le opere dei quali ivi ricordate non sono state approvate dall’oracolo della Crusca” (Contr’osservazione d’uffìzio).
- ↑ Se fosse men comune nel Monti il variare, questa giusta venerazione del parlar vivo sarebbe a raffacciare alle sue teoriche dello scriver colto, cortigiano, illustre, che segue grammatica, non uso. L’errore del Cesari consistette nel proporre i trecentisti come testimonj dell’uso, non ancora adulterato dalla scienza, anzichè ricorrere direttamente all’uso, che ripudia alcuni, adotta altri vocaboli e modi.
- ↑ Queste ragioni speciose furono ampiamente ribattute da altri e da noi. Qui basti osservare che il dialetto di Parigi, di Londra, di Madrid, di Dresda, di Lisbona.... ha il titolo di lingua universale francese, inglese, spagnuola, tedesca, portoghese: e che latina fu la lingua dell’impero romano.
- ↑ “E Italiano debb’essere; e perchè sia tale importa che non sia fatto isotatamente in un angolo piuttosto che nell’altro dell’Italia. Importa che intorno al metodo per compilarlo precedano, prima, accordi tra l’Istituto di Milano e l’Accademia della Crusca di Firenze; poscia con tutte le altre Accademie che compongono la gran famiglia dell’Italiana letteratura dal pie delle Alpi sino alla punta di Lilibeo. Allora, ma allora solamente, potremo confidarci d’avere un Vocabolario ch’è affrettato dal pubblico voto, e diciamolo pure, dal pubblico bisogno. Un Vocabolario che, per ripetere le stesse parole del signor cav. Monti che si leggono nel bel principio della sua Memoria, contenga il corso della favella dentro i confini della perfezione, e comprima lo spirito della licenza, che abbandonata a tutto il suo impeto, in poco spazio di tempo la condurrebbe ad una totale dissoluzione” (Contronota d’uffizio).
- ↑ Voci italiane d’autori approvati dalla Crusca, nel Vocabolario d’essa non registrate, con altre molte appartenenti per lo più ad arti e scienze. Venezia, Bassaglia, 1745.
Seguirono poi Voci scoperte e difficoltà incontrate sul Vocabolario ultimo della Crusca. Venezia, tip. Radiziane, 1758.
Raccolta di tutte le voci scoperte nel Vocabolario ultimo della Crusca, ed aggiunta di altre che vi mancano di Dante, Petrarca e Boccaccio. Venezia, 1760. - ↑ Solo perchè lavoro inedito del Monti diamo queste Considerazioni da sottoporsi all’approvazione del Governo, ove egli riepiloga e riduce a statuti quel che spiegò nel discorso riferito nel testo. Al tono adulatorio ci ha pur troppo abituati.
1° Purgare la lingua, legittimamente arricchirla, e stabilmente fissarla, ecco i tre precipui oggetti della riforma del Vocabolario;
2° Quest’opera dev’essere necessariamente di tutta la nazione; vuolsi dire di tutte le classi educate e pensanti della nazione. Ria dee nel tempo stesso avere un centro motore, e dirigente gl’immensi lavori che vi abbisognano;
3° Questo centro nelle attuali circostanze d’Italia non può pretendersi che da Firenze, o da Milano. Firenze ha due vantaggi: l’uno de’ molti manoscritti che possiede, e sola può consultare. L’altro de’ vocaboli d’arti e mestieri meccanici che sono in bocca al suo popolo. Quanto alla lingua nobile parlata, o alla lingua scritta, quel paese è in peggior termine che gli altri, siccome il fatto dimostra. Milano ha il vantaggio d’appartenere al più potente monarca d’Europa. Egli ha in Italia (dopo Napoli) il maggior numero di sudditi. Quindi è il più atto protettore d’un’impresa siccome questa, lunga, difficile, dispendiosa. Milano raccoglie nell’Istituto (qualor sia completo) un numero di scienziati e letterati, che in tutta Italia è il più rispettabile, e quindi il più idoneo a coadiuvare questa grand’opera. Ma il condurla a riva felicemente è tale impresa, che vuole gli sforzi riuniti di tutti gli ingegni della nazione;
4° Supponghiamo che S. M. I. e R. voglia efficacemente la gloria di dare agli Italiani una bella e perfetta lingua; gloria alla quale aspirava il caduto Governo, e non ebbe tempo di conseguirla; sarà agevole ad un tanto Sovrano l’ottenere che gli altri Principi d’Italia inducano i loro dotti a concorrere in questo lavoro, la cui direzione verrà affidala da Cesare al suo Istituto. Ben inteso però che ad evitare ogni rivalità di onore, l’opera porterà in fronte il titolo di Vocabolario italiano. Così l’onore ne sarà di tutta la nazione, come la gloria ne sarà dell’Augusto che colla sua grande potenza l’avrà renduta possibile;
5° Allora sorge la necessità di richiamare primieramente sotto la dipendenza Bell’Istituto Milanese la porzione che di recente se n’è distaccata, dico la Sezione Padovana, che ha tratto seco la Veneziana e la Veronese, le quali, tuttochè riunite, non ponno competere colla prevalente maggioranza della Milanese. Raccolte di questa guisa tutte in un corpo le membra dell’Istituto Cesareo, e ricondotte sotto il governo d’una sola mente regolatrice,, potrà questo fornire i materiali all’opera necessarj, e col mezzo di accreditato giornale divulgare di mano in mano a tutta Italia le norme colle quali il lavoro dovrà procedere; e invitare con lealtà lutti i dotti, tutti gli, amatori della lingua e della nazione ad inviar materiali all’Istituto. Ma per farne la scelta e ben ordinarla conviene che l’Istituto elegga e proponga all’approvazione di S. M. una Commissione permanente, composta di soggetti capaci, e continuamente applicati a questo lavoro: la qual Commissione debba, ne’ tempi che al Governo piacerà di prescrivere, dar conto al pubblico di quanto si andrà facendo;
6° Come in un grande edificio abbisogna un eccellente architetto, alcuni abili maestri, e molti laboriosi manuali, così a quest’opera si debbono accettare materiali da tutti che vorranno contribuirli, e suggerimenti e censure e consigli dagli intelligenti d’ogni italiano paese. Importa quindi moltissimo che la Commissione dirigente sia sceltissima, e serbi scritta ne’ suoi atti la ragione d’ogni passo che farà, pronta a dimostrarla o al Pubblico, o ai principi interessati nel glorioso esito dell’impresa;
7° Il nuovo Vocabolario dee proporsi due fini. L’uno di agevolare agli stranieri la sicura intelligenza di tutti i nostri grandi scrittori. L’altro di guidare gli Italiani a scrivere con purità, proprietà, facilità ed eleganza la propria lingua;
8° Perciò il nuovo Vocabolario dovrà primieramente metter la falce a tutti gli errori trascorsi nell’antico, errori di molte specie, e che qui non è luogo a notare partitamente;
9° Dovrà dare le etimologie de’ vocaboli, parte trascuratissima ne’ Vocabolarj esistenti, e giovevolissima agli stranieri, che, già sapendo il greco o il latino o il francese o il tedesco, piglieranno così in mano il filo ariadneo dell’analogia: utilissima poi ai nostri che avranno una guida sicura che li conduca, ove si trovino nella necessità di piegarli ai sensi figurati, o derivarli, o crearli senza pericolo. E dico crearli, perchè ogni viva radice dee mettere i suoi rampolli: ed è cosa strana il vedere ne’ nostri Vocabolarj molti rampolli senza radice;
10° Dovrà distinguere i vocaboli antiquati, per mera intelligenza degli scritti antichi, e separare il Vocabolario de’ morti da quello de’ vivi, siccome ha fatto con molto avvedimento nel suo gran lessico il Forcellini;
11° Dovrà con apposito cenno segregare dai vocaboli della prosa i vocaboli unicamente proprj della poesia. E in questo modo il Vocabolario diverrà non solamente maestro di lingua, ma guida ancora di stile;
12° I vocaboli da aggiungersi si dovranno prendere o dall’uso legittimato “quem penes arbitrium est, et jus, et norma loquendi”; o dagli scrittori avuti per buoni dal consenso dei più. Dovrà quindi la sua Commissione per norma dei lontani collaboratori pubblicare un catalogo di tutti quegli ottimi, che la Crusca non ha citati, e che pur sono degni di arricchire la lingua: catalogo che, particolarmente in fatto di scienze e di arti, somministrerà molti tesori nella favella, e che in gran parte è già stato messo ad effetto dall’egregio signor abate Colombo di Parma, uno de’ pochi in Italia, che ben intende queste materie. Il giudizio dei dotti di tutta là nazione farà che la Commissione dell’Istituto aggiunga, o levi da questo catalogo le opere da consultarsi, e non si riterranno per buone che le approvale dall’universale consentimento;
13° La Commissione dovrà serbare ne’ suoi atti non solamente i materiali che da qualunque parte le saranno inviati, ed esaminarli, e sceglierne il meglio con critica riposata e imparziale, ma conservare ben anche i nomi degli autori, da pubblicarsi in appresso, affinchè tutta la nazione resti loro obbligata e riconoscente;
14° La Commissione non ammetterà vocaboli di lingue straniere se non dopo essersi fatta sicura, che manchino assolutamente alla nostra: affinchè l’Italia non perda il; diritto di proprietà, che in tanti ritrovati è tutta sua meritamente. Perciocchè, adottando vocaboli peregrini, parrebbe ch’ella avesse tolto anche la notizia delle cose stesse dagli stranieri. E in pochi lustri si ridurrebbe a tale, d’ingerire negli animi l’odioso sospetto di non aver mai saputo nè trovato nulla da sè medesima. I vocaboli tecnici sono i primi testimonj che fanno fede del luogo e del popolo inventore dell’arte e della scienza che li produsse;
15° La Commissione finalmente dovrà guardarsi dal seguire l’esempio degli Accademici della Crusca, i quali si distribuirono fra loro la compilazione del Vocabolario per lettere d’alfabeto. Perciocchè ogni lettera portando seco vocaboli di tutte le arti e di tutte le scienze, non è possibile che un solo ingegno possa abbracciare la perfetta cognizione di tanti rami di sapere, tra loro differenti e affatto disgiunti. Le materie matematiche adunque, a cagion d’esempio, debbono cadere sotto la recensione di esaminatori matematici, le fisiche dei fisici, le letterarie de’ letterati, e via discorrendo. Il giudizio poi dal quale dovrà dipendere l’accettazione de’ nuovi vocaboli e delle loro dichiarazioni, e dei loro usi, starà nel voto universale e concorde della Commissione, composta d’ogni classe dell’Istituto. - ↑ Non è da tacere che il siciliano barone Corvaja che per alcun tempo empì l’Italia de’ suoi progetti di bancocrazia, derisi come sogni quando ancora non si conosceva la potenza delle banche e delle associazioni, ne fece uno per ottenere il perfezionamento della lingua italiana, che consisteva nel farsi un Dizionario da deputati di ciascuno Stato della penisola, con certi avvedimenti, per cui ne risultava un vistosissimo guadagno.
- ↑ Oltre quel che dell’uso vien detto così saviamente nella prefazione al Vocabolario della Crusca, i deputati sopra la correzione del Boccaccio, nelle annotazioni al c. 6, n° 10, diceano: “Del potersi o no, ovvero doversi usare una voce, può esser sicura regola e generale attenersi all’uso”.
- ↑ Poichè anche più tardi, e sino dal ministero cercossi ridestare l’abbaruffata, giovi avvertire che questa nota fu stampata nel 1839, ed è consentanea a quel che io pubblicava sul Ricoglitore fin nel 1836. Che se ciò, e quel che diremo a proposito del Grossi, trovasi conforme a quanto adesso è professato da un insigne contemporaneo, causa e merito ne è l’averlo noi, fin d’allora, dedotto da esso maestro.