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186 | illustri italiani |
dedica della Proposta diceva al marchese Trivulzio come “per tutta Italia una voce ad un grido” domandasse la riforma del Vocabolario della Crusca; del che discorrendo con esso Trivulzio, vennero “ambidue nell’opinione che ni uno debba poter condurre sì gran lavoro ad effetto meglio che i degni successori di quel medesimo Corpo accademico, che da oltre due secoli fu di tant’opera creatore. E nel vero la singolare loro dottrina e lo zelo che concordemente gli accende a meritar bene della nazione, e la meravigliosa abbondanza in che sono dei più corretti testi di lingua, e il bellissimo dei vantaggi d’aver da natura come proprio patrimonio il più pulito, il più gajo, il più vivo degli italici dialetti: ciò tutto ne assicura che non può fallire a buon porto l’impresa. E ch’essi medesimi quei valenti se la promettano felicissima, e che animati dal nobile sentimento delle proprie loro forze non istimino aver bisogno d’ajuto, apertamente il dimostra l’aver eglino rifiutata ogni altra esterna cooperazione. Imperciocchè (e sarebbe vile silenzio il tacerlo) il C. R. Istituto Italiano, dalla sapienza del Governo fortemente eccitato, anzi pur comandato di volgere allo stesso scopo il pensiero, opinando concordemente che in affare di sì gran mole era duopo chiamar in ajuto il sapere di tutti gli uomini letterati italiani, statuì per prima deliberazione che si dovesse innanzi a tutto procurar l’alleanza del gran sinodo della Crusca. Mossi noi quindi da unanime riverenza verso di lui, non fummo tardi a invitarlo e pregarlo di darne la sua valida mano in questa egregia fatica, sottomettendo, scevri di pretensione, tutto il da farsi al supremo oracolo degli accademici, e reputandoci abbastanza onorati del solo nome di semplici loro ausiliarj. La quale modesta offerta, tuttochè avvalorata da gagliardi ufficj ministeriali, rimase vuota d’effetto: e si parea che, trattandosi della emendazione ed aumento del Vocabolario in fatto di scienza, che £ quanto dire in fatto di lingua creata dal senno unico de’ capienti, e di cui i soli sapienti denno esser giudici, parea, dico, che i nomi europei degli Oriani, dei Piazzi, degli Scarpa, dei Volta, e quelli non meno d’un Breyslak e d’un Brocchi, d’uno Stratico e d’un Moscati, poi d’un Morcelli, d’un Venturi, d’un Paradisi, poi di altri in più numero, che, membri dello stesso corpo, sono lumi di scienza, e dentro e fuori d’Italia splendidissimi e riputatissimi, dovessero in sì ardua riformazione aver qualche peso. Ma considerata ben addentro la cosa, ognuno dirà quel rifiuto degli accademici nobilissimo; perciocchè i forti non amano la compagnia; e l’Istituto, ben lontano dal querelarsi della ricusata alleanza, ripete anzi con compiacenza il detto di quel valoroso, non so se Ateniese o Spartano, che in una popolare adunanza vedendo non farsi verun conto della sua persona, ringraziava gli Dei che la patria avesse abbondanza di cittadini ancor migliori di lui. Che poi savia e ben bilanciata debbasi riputare la ripulsa degli accademici, l’effetto lo mostrerà”.
Dalla semplice esposizione dei fatti consta quanto in tali asserzioni de Monti v’abbia di falso, o piuttosto, com’era vizio suo, di retorico. Ed esprimeva sensi suoi, anzichè dell’Istituto, quando a Giovan Battista Nic-