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appendice d 167

adoprare l’arma, allor quasi inusata, de’ giornali; e le loro arguzie ribadirono l’opinione che la Crusca avesse commesso un’enorme ingiustizia, anteponendo i mediocri sol perchè toscani. La coscienza della storia, elastica come le altre coscienze, registrò quel fatto, e lo ripete tuttavia.

La conseguenza fu che la Crusca e l’Istituto Nazionale presero d’allora a guardarsi in sinistro, quasi due emuli: benchè tanti lombardi membri di questo fossero accademici di quella1.

Primeggiavano tra questi Luigi Lamberti, che aveva aggiunto buone postille e anche capitoli interi al Cinonio nell’edizione de’ Classici Italiani, gli esempj deducendo unicamente da autori citati dalla Crusca; e Vincenzo Monti che nel Poligrafo menava lo scudiscio sul Vocabolario della Crusca, ristampato a Verona dal Cesari colle giunte che ognun conosce. E qui sarebbe luogo ad emendar un altro torto della posterità, che ai nome del Cesare affisse l’idea d’un ridicolo grammaticuzzo. Vero è che, quanti avversarj, tanti trovò lodatori, e Ugo Foscolo, prosatore così nervoso, se ne deliziava, e «giacchè conviene scegliere un vocabolario, io lo voglio piuttosto pedante (diceva) che licenzioso, perchè io vi cerco più canoni che parole».

È vero altrettanto che al Cesari, pazientissimo studioso e della lingua pratico cento volte più che il maggior suo contraddittore, mancava quel gusto che determina l’assortimento e la convenienza delle parole, quel recte sapere che fa dire nè più nè meno di ciò che si pensa; e non concepì mai che la lingua scritta deve smettere alcune parole, benchè usate dai classici, altre adottarne a questi sconosciute, affine di tenersi il più possibile vicina alla parlata2; e per dispregio della linguetta moderna conduceva a quella ricercatezza accademica, che si suol lodare come eleganza, e che diviene presto un tipo di mal gusto, e dà sito di rancido agli scritti, i quali non valgono se non pel felice accordo tra l’espressione e il pensiero.



  1. Il Monti, il De Rosmini e il Lamberti, dimoranti a Milano, il Pindemonti e il Cesari di Verona, Galeani Napione di Torino, Morelli e Mengotti veneti, Colombo di Parma, notando che i corrispondenti erano soli 22.
  2. Il Cesari scriveva a Camillo Ugoni nel 1810: — Se le forme native, le voci e le eleganze del 1300 a lei non piacciono affatto affatto, nè io, nè ella rimarremo contenti al fine dell’opera (del correggere la traduzione dei Commentarj di Cesare); da che io non amo, nè pregio, nè voglio usare altri modi, che i soli di quella età: e gli altri non cerco nè stimo». E altrove (6 dicembre 1811): — In Milano so d’aver de’ nemici, e il seppi viemeglio quando si fu ad eleggere i membri dell’Istituto, che essendovi io pure stato proposto per esserne uno, ne fui sfrattato come pedante. Ella vede. Tuttavia qual cosa ne uscirà, e lo sperar costa poco».
    Veduta la Morale Cattolica di Manzoni, il Cesari mandogli congratulazioni, ma l’esortava a imparar a scrivere. All’apparir de’ Promessi Sposi, non ancora lavati in Arno, ne sentì la potente naturalezza, tanto arieggiarne quella de’ suoi trecentisti, cioè popolare.