Istoria delle guerre persiane/Libro primo/Capo XXIV

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CAPO XXIV.

Partimento del romano imperio in due fazioni. — Trambusto di Bizanzio. — Fuoco appiccato alla città dai facinorosi. — Carattere di Giovanni cappadoce e di Triboniano. — Ipazio creato imperatore dalla plebe. — Aringa del senatore Origene. — Consiglio tenuto nella reggia di Giustiniano, e risoluzione di non cedere, adottata in virtù di un ragionamento di Teodora augusta. — Ribellione vinta dai capitani Belisario e Mundo. — Prigionia d’Ipazio e di Pompeo; lor morte la dimane, e gittamento dei cadaveri nel mare.

I. Contemporanea delle vicende persiane ora mentovate fu una repentina sommossa scoppiata fuor d’ogni aspettativa in Bizanzio1, sul conto della quale è mestieri premettere che da gran pezza gli abitatori di tutte le città partitosi in due fazioni, de’ Veneti e de’ Prasini2, voci d’arte presso i tintori, ed a [p. 122 modifica]favorire la propria ciascuno è largo di danaro cogli amici, tollera atrocissimi corporali supplizj, e non disdegna tampoco incontrare obbrobriosa morte. Combattonsi le contrarie parti senza punto saperne il perchè, e conservano tra loro odio tale per tutta la vita da perdere sentimento comunque d’onore, di parentela e di amicizia; purchè si vinca, un nulla è tenuto il dispiacere a Dio, il violare le leggi, ed il mettere a soqquadro la repubblica. Nè da questa follia vanno esenti le stesse donne, preste ognora a seguire i mariti ed a pugnare, ove occorra, ai loro fianchi, avvegnachè riservatissime nel resto a segno di non porre mai piede ne’ popolari spettacoli. Di tali stranezze tutto sembrami aver detto nominandole malattia degli animi, cui soggiaciono cittadi e popoli senza eccezione. [p. 123 modifica]

II. Allorchè adunque il pretore della plebe in Bizanzio scortava al supplizio parecchi de’ ribelli fu sorpreso da gente delle costoro fazioni, e costretto a cederle i condannati. Andarono poscia i sediziosi a rompere le porte delle prigioni, ed uccisi gli uffiziali della giustizia e le guardie, ne ritrassero non solo i complici della rivolta, ma ancora gli altri rei di qualsiasi delitto.

III. I cittadini spogli d’ogni passione ripararono sul vicin continente al vedere la patria tutta in fiamme, come avesservi appiccato fuoco i nemici; e di esse furono ben tosto preda il tempio di S. Sofia3, il bagno di Zeussipo, una parte della reggia, quella intendo che dal suo vestibulo conduceva all’ara di Marte, il lungo portico per andare al palazzo di Costantino, molti altri nobili abituri, e quantità immensa d’oro e d’argento. Giustiniano, l’imperatrice sua moglie ed alcuni senatori non partironsi dalla reggia. I sediziosi presero in quel frangente la parola Vinci per contrassegno, rimasa quindi alla fazion loro.

IV. Di quel tempo Giovanni cappadoce era prefetto del pretorio4, e Triboniano di Pamfilia paredro di Giustiniano, magistrato detto in Roma questore, e [p. 124 modifica]presso i Latini giureconsulto. Il primo, ignorantissimo affatto delle arti liberali e privo d’ogni cultura dello spirito, non avea riportato dalle scuole altro profitto che quello di malamente scrivere; la gagliardia però del corpo, il più robusto di quanti mai a nostra saputa esistessero, la scaltrezza nel cogliere gli avvantaggi dei tempi, e l’attitudine agli scabrosi maneggi supplivano in lui il difetto della dottrina. Questi pregj tuttavia non bastavano a far dimenticare gli enormissimi suoi vizj; imperciocchè iniquo e malfacente di natura, senza timore alcuno del Nume o risguardo per gli uomini, riputava un vero niente la costoro vita e la rovina della città. Divenuto in cotal guisa possessore di molte ricchezze, e nato fatto per ammassarne comunque e profonderle, contaminò sua vita d’ogni maniera di stravizzi, sendo intemperantissimo in ispecie nel bere e nel mangiare al che poscia con provocato recere soccorreva; tale si era perfettamente Giovanni5. Triboniano al contrario aveva tratto miglior partito da suoi talenti, a veruno secondo nella educazione e nella maestria di qualsivoglia scienza ed arte, ma sì peccava d’avarizia che il trovavi ognora apparecchiato a difendere l’utile contro l’onesto, ed a promulgare od abolir leggi in ordine alle varie circostanze di coloro che imploravano con danaro il suo patrocinio6. Ora il [p. 125 modifica]popolo mentr’era tra sè diviso nelle antedette fazioni, e tutto occupato in quella civil guerra non badò ai mali che da questi due magistrati provenivano alla repubblica, venuto però a congiurare insieme prese a colmarli di vituperj ed a rintracciarli per vederne la fine. Al che Giustiniano bramoso di mostrare la popolarità sua levolli di carica, surrogando alla prefettura del pretorio il patrizio Foca, personaggio di rara prudenza ed osservantissimo della giustizia, ed alla questura Basilide7, patrizio anch’egli, d’illustre legnaggio, e di probità somma.

V. Animatasi non pertanto la sommossa anzichè venir meno, Giustiniano sul declinare del quinto giorno prescrisse ad Ipazio ed a Pompeo, nipoti dell’imperatore Anastasio per mezzo di sorella, che si partissero dalla corte, sospettandoli forse macchinatori di qualche trama contro la sua vita, se pure di tal ordine non debbasi accagionare il destino. Ma entrambi, per tema di essere inalzati al trono dall’ammutinata plebe, risposero all’imperatore dicendo mancar loro il coraggio di abbandonarlo in sì triste momento; egli però scorgendo in queste parole una conferma de’ timori concepiti sul conto loro, feceli tosto ubbidire. Il perchè usciti di là e’ ripararono nelle proprie dimore e passaronvi tranquillamente la notte; divulgatosi quindi col nuovo giorno il grido ch’erano stati messi fuor [p. 126 modifica]della reggia, accorse la plebe in folla presso di loro, e proclamato Ipazio imperatore voleva condurlo nella pubblica piazza ov’e’ prenderebbe il possesso del supremo comando; se non che la prudentissima e virtuosa consorte, nomata Maria, tutta s’adoperava a ritenerlo, ed implorando il soccorso degli amici suoi gridava non volersi di tal modo aprire la tomba al marito. Vinse non di manco il popolo, ed ei suo malgrado posto il piede sul foro di Costantino fu salutato imperatore, venendogli cinto il capo, in mancanza del reale diadema, con una collana d’oro.

VI. Fattisi di poi a consiglio tutti i senatori che erano rimasti nelle proprie case, tra le varie opinioni loro prevaleva quella d’avviarsi immediatamente a dar l’assalto al palazzo di Giustiniano, quando tal di essi nomato Origene parlò di tal guisa: «Avvegnachè il potere delle armi atto sia a liberarci dalle imminenti vicende, egli è però fuor di dubbio che le più grandi imprese, e la guerra ed il regno hanno sopra tutte il primato non vogliono eseguirsi a furia, ma essere condotte a buon fine colla saggezza dei consigli e colla perseveranza nei travagli, mezzi di cui non possiamo ad un istante valerci. Or dunque movendo noi ad attaccare il nemico, un sol attimo deciderà la sorte della repubblica, e giusta l’esito delle nostre armi o dovremo ringraziare la fortuna, o seco querelarci, dipendendo ognora da lei tutte le cose violentemente operate. Quando invece guidando noi con maggior placidezza le presenti bisogne non peneremo a trovare molte occasioni per francarci da [p. 127 modifica]Giustiniano, e chi sa che egli stesso, mettendo ogni sua felicità nel ritiro, non abbandoni di per sè il regno; senzachè basta alla pronta caduta d’un monarca l’aversi una sol volta meritato il dispregio de’ popoli soggetti. Non diffaltiamo in fine di reggie, ed i palazzi di Placilliana e di Elena racchiudono quanto mai può occorrere ad albergare convenientemente il novello imperatore, e luoghi da tenere il consiglio, e da prendere in questi urgentissimi casi nostri tutte le necessarie deliberazioni»; sì diceva Origene. Ma, come pur troppo avvenir suole nelle tumultuarie adunanze, insistevano gli altri sulla necessità di non ritardar punto la cosa, ripetendone il felice successo dalla pronta esecuzione. Ipazio adunque, facendosi egli stesso fabbro di sue sciagure, impose di andare al circo, sperando, all’opinar d’alcuni, favorire così l’odiato imperatore.

VII. In questo mezzo deliberavasi eziandio nella corte di Giustiniano se fosse uopo resistere, o cercar salvezza entro i vascelli; e levatesi pur quivi discrepanti opinioni Teodora augusta8 surse dicendo: «Il tempo, a mio [p. 128 modifica]avviso, non consente di esaminare se dicevol sia a donna l’aringare tra voi, e proporre generosi consigli ad animi dati in preda al timore. Giunti però all’estremo de’ mali ognuno è in obbligo di riparare, per quanto si può, ai comuni bisogni. Io adunque credo fermamente che apporteremmo fuggendo grave danno alle cose nostre, avvegnachè fossimo più che certi di trovare salvezza. Chi ha ricevuto il bene della vita, lo ebbe a condizion di renderlo; ma chi giunse una volta al trono, è mestieri che il perda rinunziando alla vita con esso. Dio poi non voglia che io spogli giammai questa porpora, o che apparisca in pubblico senza udirmi salutare imperatrice. Se tu, o Cesare, brami salvarti, a tuo bell’agio il puoi, avendo pronti e danari, e mare, e vascelli; guardati bene però di non abbandonare insiem colla reggia la vita: quanto a me approvo grandemente l’antico detto: L’imperio è un magnifico sepolcro». Le parole di Teodora animarono per guisa il coraggio là entro che tutti diedersi a studiare, in caso di assalto, ogni misura di resistenza; arroge che il numero maggior delle truppe, compresavi l’imperial guardia, amava ben poco l’imperatore, e non dichiarossi per lui che veduto il felice termine della ribellione.

VIII. Giustiniano allora pose ogni speranza in Belisario ed in Mundo, il primo de’ quali era tornato di [p. 129 modifica]fresco dalla Persia con assai grande codazzo e con molta copia di astati espertissimi nei perìcoli della guerra, fedeli e pronti ad ogni suo volere; l’altro similmente, eletto capitano delle truppe nell’Illiria ed a a que’ dì chiamato in Bizanzio per comporre non so quali faccende, numerava tra suoi una turba di Eruli. Ipazio intanto pervenuto nell’ippodromo9 era asceso il trono, da cui l’imperatore, sedendo, mirava le corse de’ cavalli e le gare dei lottatori. Mundo in questa uscì del palazzo per la porta Coclea, derivatole il nome dalla forma sua, e Belisario procedette verso l’altra che ritto conduceva all’ippodromo, dove arrivato ordinò alle guardie di aprirla; ma eglino, fermi nel voler celare i sentimenti degli animi loro sinchè non vedessero dichiarata la vittoria, ricusano di obbedire. Belisario alla ripulsa tornò da Giustiniano per annunziargli che [p. 130 modifica]deponesse ogni speranza venendo tradito dalle guardie stesse. L’imperatore nondimeno il consigliò a tentare la uscita dalla porta di Bronzo, ed egli subitamente accorsovi la passò, e traversando, non saprei ridire se con maggiori fatiche o pericoli, cadaveri e rovine d’un vecchio fabbricato mezzo consunto dalle fiamme, giunge da ultimo al circo, e si dispone a sorprendere Ipazio dalla porta Veneta situata alla diritta del trono. Fattosi però a considerare le angustie del luogo e la custodia affidatane a truppe della fazione contraria, temeva assai nel valicarlo della propria vita e di lasciar Giustiniano in balìa degli infuriati sediziosi. Con tutto ciò scorgendo il popolo affollassimo e disordinato nell’arena, impone alla turba de’ suoi di sguainare le spade, e muove ad affrontarlo impetuosamente. Riuscì il colpo, e quella moltitudine al mirare soldati valorosissimi e pieni di bellica gloria aggirarsi tra loro col nudo acciaro e ferire, diedesi con forti grida e nel maggiore scompiglio alla fuga. Pervenne intrattanto lì dappresso Mundo (coraggioso ed attivo capitano), e mentre stava macchinando un qualche imprendimento conobbe dall’orribile schiamazzo che gl’imperiali combattevano di già nell’ippodromo; il perchè, giudicando riuscir loro opportuno il suo aiuto, entratovi dalla porta Libitina, piombò anch’egli sopra i cospiratori, esposti così a un doppio macello.

IX. Voltosi il popolo dopo molta strage, soverchiando le vittime di quel giorno il numero di trenta mila10, [p. 131 modifica]precipitosamente in fuga, Boraide e Giusto11, nipoti di Cesare, strapparono Ipazio dal trono, non più avendovi chi prendessene le difese, e trascinaronlo con Pompeo al cospetto dell’imperatore, il quale ordinò che si rinchiudessero entrambi in istretto carcere. Qui Pompeo, non assuefatto a sciagure sì grandi, caduto in un lagrimar dirottissimo ed in lamenti ben meritevoli di compassione, fu da Ipazio acerbamente sgridato col rammentargli mal convenire il pianto a chi soggiace ad ingiusta morte, non essendo eglino rei neppure di un solo pensiero contro il sovrano; e doversi tutta la colpa dell’avvenuto riversare sul popolo, che destinandoli all’imperio di forza li aveva condotti nell’ippodromo. Comunque però si fosse la cosa, e’ vennero la dimane trucidati dalle truppe, che gittaronne quindi i cadaveri nel mare; i loro beni e quelli de’ senatori complici della congiura passarono al fisco; ma in progresso di tempo Giustiniano rimise i figliuoli d’Ipazio e di Pompeo, e gli altri tutti nella primiera dignità, e mostrossi lor generoso forse più di quello praticasse con molti de’ suoi amici: a questo modo ebbe fine la bizantina sommossa12.

Note

  1. Intorno al cominciamento di questa sommossa, nomata de’ Vittoriati, è uopo leggere un passo di Evagrio (St., lib. iv, cap. 31) riferito dal chiaro traduttore della Storia Segreta in forma di appendice alle note, V. n.° 2.
  2. Erano assai antiche nell’imperio le fazioni dei Veneti e de’ Prasini; questi distinguevansi vestendo una divisa verde, quelli cerulea. Ne’ Collettanei di Giovanni antiocheno abbiamo l’origine loro in questi termini: «Enomao fu il primo ad inventare i colori de’ Circensi, coi quali volle rappresentare quasi il contrasto della terra e del mare. Questo combattimento fu da Enomao stabilito pel giorno ventiquattresimo di marzo. Se avesse vinto il color verde tutti speravano la fertilità della terra: se il ceruleo, aveasi fede che il mare sarebbe stato tranquillo per la navigazione». In appresso però queste fazioni si portarono al numero di quattro, ed erano: 1° la prasina; 2° la veneta; 3° la bianca; 4° la rossa o fulva. Oltre di che sotto Domiziano, essendo sei le porte delle carceri d’onde uscivano i carri, furonne aggiunte due nuove: l’aurata o gialla, e la purpurea. Un esempio di tal fatta si legge in Dione Cassio, il quale rammentando questi giuochi celebrati in Roma avanti i Saturnali dell’anno 949 sotto l’imperatore Severo, lasciò scritto: «Essendo, come già dicemmo, raccolto un infinito numero di persone, e stando a riguardare la sestuplice gara dei carri (come fatto erasi anche ai tempi di Cleandro) avvenne, ec.» (lib. lxxv). Il Grevio ed il Panvinio riportano un basso rilievo con otto quadrighe, e lo stesso numero ne contiene parimente qualche rarissima gemma, vogliamo però supporlo un capriccio dell’artefice.
    L’imperatore Giustiniano e Teodora favorivano la fazione veneta, ed al potere di essa avevano abbandonato la repubblica.
  3. Questa chiesa fu poco dopo riedificata dall’imperatore Giustiniano con tale magnificenza da riempir di maraviglia chiunque prenda a considerarne la minuta descrizione lasciataci dal Nostro nel lib. i, degli Edifizj, a cui precede nella presente edizione della Collana degli Storici Greci ec. il suo prospetto del lato occidentale.
  4. O, con altri termini, capitan generale del palazzo di Giustiniano.
  5. A vie meglio conoscere costui si potrà leggere l’Appendice del cav. Compagnoni, impressa di seguito alla traduzione del testo nella Storia Segreta.
  6. Quanto poi foss’egli eccellente nell’arte dell’adulazione si argomenterà di leggieri dall’aver dichiarato un dì a Giustiniano, mentre sedevagli accanto, che temea fortemente di vederselo rapire in cielo per la singolare pietà sua. (St. Segr., cap. 17.)
  7. Basso nella Storia Segreta, il quale fu parimente due volte prefetto del pretorio.
  8. Di costei taciamo di buon grado la nascita, la condizione, ed i costumi, rimettendo il lettore ai cap. 14 o 15, o per meglio dire pressochè ad ogni pagina della Storia Segreta. In quanto poi al suo fisico leggiamo essere stata «leggiadra di volto e piacente, pallidetta alquanto, con occhi assai vivi, piccola di statura, e ne’ moti della persona vivacissima». Oltre di che il N. A. parlando nel lib. i degli Edifizj di una statua dai Costantinopolitani eretta a questa imperatrice, si spiega eziandio in più energico modo: «È dessa in vero (la statua) l’immagine di una eccellente figura, ma è lontanissima dal riferire la bellezza dell’Augusta, perciocchè artifizio umano non può gli avvenenti tratti di lei nè dichiarare con parole, nè in simulacro esprimere».
  9. Il chiaro traduttore di Polibio (I. Kohen) dice: «Vastissimo era sovente lo spazio di siffatto edifizio, dalle corse de’ cavalli che vi si facevano così denominato. Quello di Delfo era tanto grande che quaranta carri vi potevano disputarsi la vittoria (Voy. du jeune Anach. tom. ii, pag. 314). Nè si celebravano in quello soltanto i giuochi equestri, ma vi si esercitava ancora la cavalleria militare, conforme apparisce da Senofonte (Agesil., lib. xxv). I Romani li chiamavano circi, e ve ne avea nella capitale parecchi, fra i quali il più cospicuo era il cosiddetto Circo Massimo, edificato da Tarquinio Prisco, e da Giulio Cesare talmente ampliato, che contener potea dugento sessantamila uomini (Sv., Iul. Caes., cap. 39): sebbene non solo le gare dei cocchii colà ammiravansi, ma le pugne eziandio delle fiere e de’ gladiatori, finchè sursero gli anfiteatri pella magnificenza degli imperatori» (lib. vii).
  10. Leggo in altre edizioni tre mila.
  11. Primo e secondo figlio del fratello di Giustiniano; come poi si chiamasse costui e la sua moglie non v’ha storico che lo abbia mandato alla posterità. In luogo di Boraide alcuni leggono Berode.
  12. Anni dell’era volgare 534.