Storia segreta/Appendice
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APPENDICE
ALLA STORIA SEGRETA.
«Teodora Augusta odiava Giovanni quanto mai dir si possa. Ed erasi egli tratto addosso tale odio per propria colpa, gravemente offendendola in quanto non solamente non le avea fetta la corte, nè cercato di conciliarsene la grazia con alcuna attenzione, ma dichiarandolesi inimico a segno di denunciarla per infedele all’Imperadore, niun ritegno facendosi della propria condizione, e nulla badando al grande affetto, di che Giustiniano era preso per lei. Il che saputosi da Teodora, essa incominciò a mulinare tra sè risoluta di togliergli la vita: ma non trovava come a ciò giungere, perciocchè l’Imperadore lo teneva in altissima stima. Giovanni però, che non ignorava il mal talento di Teodora a riguardo suo, vivea in gran terrore. Ogni notte, mentre andava nella camera per prender riposo, aspettavasi a tutti gl’istanti di vedersi comparire d’innanzi alcun barbaro incaricato di ucciderlo: per lo che ad ogni momento alzando dal letto la testa, con grande ansietà guardava da tutti i lati esaminando il luogo; nè poteva prender sonno, sebbene avea d’intorno tanti soldati e d’asta e di scudo, quanti non n’ebbe mai alcun prefetto. Però fatto che fosse giorno, posto da parte ogni timore sì di Dio, che degli uomini, tirava innanzi a conculcare in pubblico e in privato tutti quanti i Romani. Teneasi molto con incantatori, e maghi, i quali con empii indovinamenti promettevangli l’imperio; e vaneggiando in sì folle speranza pareagli già di toccare il cielo. Non cessava intanto da veruna iniquità, nè in alcun minimo chè diminuiva la licenza del suo sfrenato vivere; nè per lui Dio medesimo valeva punto: chè anzi, se qualche volta andasse in chiesa alla preghiera, o ai riti della veglia, tutte altre forme usava, che le usate dai Cristiani. Imperciocchè vestito del pallio sacerdotale certe profane dicerie, che sapeva a memoria dell’antica setta che oggi suolsi chiamare grecanica, recitava tutta la notte; ed ogni suo voto dirigeva a che ogni giorno più avesse tutto suo l’animo dell’Imperadore, e nissuno potesse nè a lui, nè a suoi disegni nuocere.»
»Capitò l’incontro, che soggiogata l’Italia fu colla moglie Antonina di ritorno a Costantinopoli Belisario, chiamatovi dall’Imperadore che lo destinava comandante supremo della guerra contra i Persiani. Era Belisario in massima grazia, ed in pienissimo onore presso tutti, e giustamente, per le vittorie che avea riportate. Solo Giovanni stringeva i denti per dispetto ed invidia; e cercava di ruinarlo non per alcun altro motivo se non per questo, che egli era odiato da tutti, quando da tutti Belisario era portato ai sette cieli; e come in esso lui era riposta la speranza de’ Romani, gli veniva di bel nuovo commessa la guerra persiana. Or Belisario ito all’esercito lasciò la moglie in Costantinopoli. Era costei sopra quanti mai fossero mortali sommamente abile ad ordire ogni specie d’inganni; nè alcuno se ne sarebbe sottratto. Adunque per rendersi benemerita di Teodora meditò contra Giovanni il seguente artifizio. Avea Giovanni una figliuola di nome Eufemia, lodatissima per modestia, ed a cagione di sua giovane età facilissima ad essere sorpresa: il padre poi l’amava tenerissimamente anche perchè era l’unica prole che avesse. A questa per molti giorni Antonina si mise a fare molte carezze; e fingendolesi amica la strinse a sè, e la fece tutta sua, giunta a metterla a parte anche de’ suoi segreti. Un giorno trovandosi sola con lei in camera, nissun altra persona presente, Antonina scaltramente incominciò a deplorare lo stato in cui eran le cose, ed a lamentarsi sul punto che Belisario dopo avere ampliato l’Imperio romano, presi e condotti a Costantinopoli con tante spoglie e tanti tesori due re, non trovasse da parte di Giustiniano che ingratitudine; e molte altre cose aggiunse ancora sull’iniquo modo, con cui la pubblica amministrazione procedeva. Compiacquesi di questi discorsi la giovinetta Eufemia, perciocchè anch’essa mal sentiva del governo per la paura in che suo padre e lei teneva l’odio dell’Augusta; e: perdonatemi, disse, o carissima: di questi mali tutta è di voi altri la colpa, non volendovi prevalere delle forze dell’Imperio mentre pur le avete in vostre mani. A cui Antonina: noi altri, figliuola mia, rispose, non possiamo intraprendere al di fuori alcuna cosa, nè tentar novità all’esercito, quando nell’interno non abbiamo chi ci dia mano. Ma se tuo padre volesse intendersi con noi, facilissimamente, volendolo Dio, otterremmo l’intento. Ciò udito Eufemia assai volentieri entrò nel pensier di Antonina, dicendo che dal canto suo non avrebbe mancato di concorrere all’opera; e partitane tutto comunicò al padre. Preso meravigliosamente Giovanni da tale proposta, come quella che parea facilitargli il conseguimento dell’imperio da’ vaticinii predettogli, non esitò a convenir nel disegno; ed ingiunse alla figliuola che vedesse di procurargli per la domane un abboccamento con Antonina ad oggetto di personalmente accertarla della sua fede. Antonina assicurata della disposizione di Giovanni, per vieppiù allontanarlo da ogni sospetto di fraude dichiarò, che sull’istante un abboccamento, qual’egli proponeva, non sarebbe stato esente dal pericolo di dar nell’occhio a qualch’uno, sicchè quanto aveasi in mente venisse rovesciato. Ma sapess’egli, ch’essa presto avrebbe presa la strada dell’Oriente per unirsi a Belisario: che ove partita di Costantinopoli si fosse fermata al palazzo suburbano di Belisario, detto il Rufiniano, venisse egli cola sotto il pretesto di salutarla, e di onorevolmente accomiatarsi da lei: ivi avrebbero concertato insieme quanto occorreva; ed avrebbonsi date le scambievoli sicurtà. Fu di ciò Giovanni contento; e si fissò il giorno destinato a trovarsi insieme egli ed Antonina».
«Quando l’Augusta udì da Antonina tutta la serie delle cose concertate, essa non solo ne commendò il pensiero, ma aggiunse quanti stimoli potè, onde questo venisse eseguito. Venuto adunque il giorno fissato, dopo che Antonina ebbe salutata l’Augusta, uscita di città recossi al Rufiniano con tutta l’apparenza di partirne il dì dopo, onde incamminarsi verso l’Oriente. Al Rufiniano pure, secondo l’intelligenza, si recò Giovanni di notte tempo. Le cui macchinazioni dirette ad invadere la Signoria avendo l’Augusta intanto partecipate al marito, questi mandò al Rufiniano con forte drappello di soldati l’eunuco Narsete, e Marcello prefetto delle guardie palatine, con ordine di esplorare quanto colà si facesse, e quando sorprendessero Giovanni tentar novità, di ucciderlo, e subitamente ritornarsene. Andarono questi per eseguire l’ordine avuto».
«Nel tempo stesso udita la trama, che si ordiva contro Giovanni, l’Imperadore dicesi avergli mandato un suo famigliare, il quale lo dissuadesse dal clandestino abboccamento con Antonina. Ma Giovanni, la cui ruina Dio avea decretata, niun caso fatto dell’avvertimento, circa la mezza notte ebbe colloquio con Antonina presso ad una siepe, di dietro alla quale essa medesima avea appostati Narsete e Marcello, onde udissero i discorsi che si sarebbero fatti. Ivi mentre Giovanni incautamente prometteva l’opera sua per rovesciare dal trono l’Augusto, e la promessa confermava con gravissimi giuramenti, Narsete e Marcello se gli gittarono addosso; e fattosi in quel parapiglia, com’era inevitabile, alquanto strepito, immantinente i satelliti di Giovanni piantati poco lungi corsero a lui. Allora egli adoperando contro gli assalitori la spada, percosse Marcello senza conoscerlo; ed in compagnia de’ suoi precipitosamente si trasse alla città. Dove se a dirittura si fosse arrischiato di presentarsi all’Imperadore, non dubito punto che non gli fosse riuscito di passarsela senza mala conseguenza. Ma egli corse a rifugiarsi in chiesa, lasciando all’Augusta e tempo e modo di saziare l’odio che gli portava».
«Adunque scaduto dalla prefettura, e ridotto a stato privato, dalla chiesa, in cui si era fidato, venne deportato ad altra, che trovasi nel sobborgo ciziceno detto Artace. Ivi prese il nome di Pietro, e contro sua voglia fu fatto sacerdote, non però vescovo, ma soltanto prete, come comunemente si dice. Però non volle in veruna maniera esercitare le funzioni dell’ordine, onde non chiudersi il passo alle dignità civili: chè non potè mai indursi a deporre le pazze speranze concepite. I suoi beni vennero ben tosto confiscati, una non piccola porzione de’ quali pur gli rimise lo stesso Augusto trattandolo ancora con indulgenza. In quel soggiorno Giovanni libero da ogni timore, e provveduto di gran denaro, da lui stesso nascosto già in parte, e in parte dalla benignità del Principe concedutogli, avea di che vivere lautissimamente; e può dirsi ch’egli era beato, considerando la condizione in cui era, quando però avesse ascoltata la voce della ragione, e non le tentazioni della cupidigia. Ed è per questo che a tutti i Romani movea a sdegno la vita molto più allora, che in addietro, comoda, di un uomo, il quale in perversità superava tutti i demonii. Io penso che Dio non permettesse che quello fosse il fine de’ suoi patimenti, e il riserrasse a più gravi supplizii, da quel malvaggio sostenuti come siegue».
«Era vescovo di Cizico un Eusebio, uomo non meno di Giovanni molesto a quanti avessero a fare con lui. I Ciziceni lo aveano fatto conoscere all’Imperadore pel cattivo soggetto ch’egli era. Ma non essendosi potuto riuscire ad abbatterlo, poichè sapeva far fronte ai loro maneggi con fortissimi appoggi a forza di denaro procacciatisi, alcuni giovani cospirarono contro di lui, e lo uccisero in mezzo al foro di Cizico. Passava odio mortale tra Giovanni ed Eusebio. Per lo che nacque sospetto che Giovanni avesse avuta mano nel fatto. E spediti alcuni senatori a far processo del delitto commesso, questi incominciarono dal metterlo in prigione: poi, come se stato fosse un ladrone, e un assassino da strada, ordinarono che nudo comparisse innanzi ad essi egli già prefetto del Pretorio, ascritto all’ordine de’ patrizii, e stato assiso sulla sedia consolare, dignità maggiore della quale niun’altra era nella repubblica romana. Ivi, stracciategli dal dorso le carni a colpi di verghe, fu costretto ad esporre tutta la sua vita passata; nè per questo però appariva ch’egli fosse l’autore della morte del vescovo. Ma parve che la giustizia divina volesse fargli pagare il fio delle tante vessazioni, colle quali colui tormentato avea l’universo mondo. Imperciocchè in fine spogliato di ogni avere, e perfino delle vesti, coperto miseramente di una picciola tunica, ispida, e per pochi oboli compra, fu cacciato sopra una nave. Coloro che lo conducevano, in ogni luogo in cui approdassero, lo esponevano in terra, obbligandolo a chieder pane, od oboli a chiunque se gli facesse innanzi. E così mendicando trapassò parte dell’Egitto fino ad Antinoopoli. E son già tre anni, dacchè vive colà incarcerato: nè in mezzo a tanta calamità si è potuto indurre a deporre la speranza dell’imperio, a segno che non è molto che ardì chiedere ad alcuni Alessandrini una somma, di cui essi erano debitori all’erario. Tal pena l’anno decimo della sua magistratura venne addosso a Giovanni cappadoce, in vendetta di quanto egli commesso avea nell’amministrazione delle cose pubbliche.».