Istoria delle guerre persiane/Libro primo/Capo XXV

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CAPO XXV.

Giovanni e Triboniano ristabiliti nelle loro magistrature. — Calunnie del primo contro l’imperatrice. — Vendetta di costei coll’opera di Antonina. — Giovanni riceve mal suo grado l’ordine sacerdotale. — Accusato ingiustamente della morte del vescovo Eusebio soggiace a tristissima condizione.

I. Breve fu l’intervallo che Giovanni il cappadoce e Triboniano rimasero privi delle onoranze loro, essendone poco stante reintegrati, e l’ultimo vissuto molti anni libero da ogni molestia fu spento in fine da cause naturali: modello d’un cuor mite e benigno offuscava colla dolcezza de’ suoi modi, e più ancora collo splendore di sue dottrine l’amor sommo disgraziatamente portato al danaro1. Giovanni al contrario in odio a tutti per la incessante avidità di arricchire, accoppiata ad un’indole fiera e malvagia, si mantenne solo due lustri nella ricuperata magistratura, compiuti i quali portò le pene che attendevano le tante sue ribalderie.

II. Avvegnachè egli sapesse di avere colle sue calunnie grandemente irritato contro di sè l’imperatrice Teodora, pure nulla sollecito di placarne il mal animo con segni di rispetto e di umiliazione, e non curandone punto l’alto grado e l’amore portatole dal consorte, proseguiva ad offenderla con malvagi discorsi al costui [p. 133 modifica]orecchio. L’augusta pertanto, consapevole di tutto, bramò liberarsi dal tristissimo nemico, e sol titubava nella scelta de’ mezzi, giunto essendo il maligno a cattivarsi in forte guisa il cuore imperiale. È ben vero però ch’egli al penetrare la risoluzione di Teodora intimorì a segno di non potersi più coricare sopra il suo letto senza l’orribile apprensione che nelle ore notturne venisse qualche barbaro a trucidarlo. Il perchè levavasi tratto tratto ad esaminare le aperture della camera, ed era attorniato da un numero di guardie incomparabilmente maggiore di quello si convenesse a prefetto del pretorio, nè tampoco sembravagli essere giammai abbastanza sicuro; allo spuntare impertanto de’ mattutini albori dileguavansi queste sue paure, e riprendeva a malmenare i cittadini e lo stato. Aveva di continuo eziandio al suo fianco impostori e stregoni per conoscere i segreti della magia, da loro attendendo giusta le promesse fattegli il supremo potere. Assiduo inoltre nella carriera de’ suoi delitti e con l’animo avverso ad ogni sentimento di pietà andava bensì talora alla chiesa e vi passava la notte, ma tutt’altro che gli esercizj de’ fedeli erano i suoi, intrattenendovisi a recitare, coperto d’una gran veste propria d’alcuni antichi settarj nomati grecanici, magiche preghiere, nella speranza di conservarsi per esse l’imperiale benevolenza, e di riuscire invulnerabile al ferro dei nemici.

III. Belisario in questo mezzo, fatte onorate imprese nell’Italia, era tornato con la consorte Antonina2 [p. 134 modifica]in Bizanzio, richiamatovi per condurre l’esercito alla guerra persiana; ed avvegnachè tutti meritamente il guardassero con istima e rispetto, Giovanni odiavalo per la buona riputazione appunto da lui goduta, e tramavagli continue insidie. Il capitano adunque, sul quale fondavasi ogni romana speranza, marciò in Persia lasciando nella capitale Antonina, donna fornita di sagacissimo spirito ed assai adatto a trovare spedienti negli ardui intrighi, che bramosa di possedere l’animo di Teodora escogitò e mise in opera le costei vendette contro il Cappadoce. Al qual uopo finse lungamente amor sommo verso di Eufemia, onestissima figliuola di lui, assai tenera d’anni e quindi facile a cader nelle frodi, e idolatrata, perchè unica, dal genitore; ed a procacciarsi fede maggiore comunicavale qualche suo particolare segreto. Un dì, tra gli altri, colta la opportunità di rimaner sola con lei nella camera faceva sembiante di querelarsi della sua gran disdetta in vedendo Belisario da Giustiniano malissimo compensato di tutti i servigi renduti all’imperio coll’averne siffattamente dilatati i confini, coll’aver condotti prigionieri a Bizanzio due re3, e coll’avere inoltre arricchito l’imperiale tesoro versandovi prodigiosa quantità d’oro e di [p. 135 modifica]argento; nè sarebbesi più taciuta se Eufemia, contentissima di tali sfoghi per l’odio che Teodora portava al genitor suo, non interrompevala dicendo: «E chi è in colpa se non voi stessi, o carissima, delle ricordate sciagure, i quali comandando a tutte le forze dell’imperio, disdegnate valervene»? Rispondeva l’altra: «Nulla può l’esercito ove non abbia dalla sua gli ottimati di corte; basterebbe solo che tuo padre s’unisse a noi per condurre coll’aiuto di Dio a buon fine i nostri divisamenti». La donzella promise allora di cooperarvi con ogni suo mezzo, e nel punto medesimo andò a favellarne al genitore, il quale pieno di gioia alla proposta, opinando avverarsi le profezie dei maghi riguardanti il suo inalzamento al trono, commisele di procurargli un colloquio la dimane con Antonina. Questa spiato in simigliante guisa l’animo di Giovanni e ben cauta nel movere il minor sospetto della ordita trama, rispose: non andare scevra da pericolo sì pronta conferenza, potendo il menomo indizio sconvolgere tutti i piani loro. Esser ella del resto in procinto di aggiugnere il consorte, e della città uscendo passerebbe il primo giorno alla sua villa, detta Rufiniana, giacente ne’ sobborghi, e qui, ricevutolo sotto pretesto di officiosa visita, ragionerebbero insieme, ed obbligherebbero entrambi la fede loro: piacque il trovato, e si determinò l’epoca dell’abboccamento. L’autrice in questo mentre comunicò tutte le sue mene a Teodora, riportandone encomj ed impulso alla piena loro esecuzione, e quindi al comparire dello stabilito giorno abbandona Bizanzio [p. 136 modifica]col mentito proposito di viaggiare nell’oriente, e va alla sua villa del sobborgo, dove pronto arrivò tra la notte Giovanni. Se non che l’imperatore avvertito dalla consorte delle prave intenzioni di lui, fece comando all’eunuco Narsete ed a Marcello prefetto delle guardie palatine di procedere con sufficiente scorta alla Rufiniana per osservare quanto v’accadrebbe, e di uccidere il traditore ov’egli tentasse di perturbare la tranquillità dell’imperio. Questi pervenuti colà ed acquattatisi dietro una fratta presso al luogo della conferenza, per avere agio di prestarvi attento orecchio, udendo Giovanni audacemente promettere il suo efficacissimo aiuto a Belisario e ad Antonina nella rivolta contro Giustiniano, e confermare eziandio la data fede con esecrabili giuramenti, balzan d’improvviso fuori, e di leggieri avrebbongli impedito la fuga, se allo strepito non fossero accorse le guardie sue appostate in vicini sentieri a difenderlo, una delle quali ferì ben anche di spada Marcello senza ravvisarlo; così ebbe quegli la opportunità di camparsela e tornare in Bizanzio.

IV. Che se qui giunto avesse egli di subito e con animo franco implorato la bontà dell’imperatore non sarebbe, a mio credere, soggiaciuto a gastigo alcuno; riparatosi per lo contrario in una chiesa, fornì a Teodora largo campo di vie meglio perderlo. Spogliato adunque della sua magistratura fu esiliato in certo borgo di Cizico nomato Artace4, ove cangiato [p. 137 modifica]il suo nome con quello di Pietro, ricevè gli ordini sacri, ma con deliberato consiglio di astenersi dalle funzioni loro, chiudendo l’esercizio di queste il varco alle secolari magistrature per cui nutriva ancora un resto di speranza; i suoi beni caddero nel fisco, e solo dall’animo clementissimo di Giustiniano potè riaverne qualche parte. Non ostante però il grande cangiamento di fortuna egli proseguiva a menare vita lautissima, dandogliene opportuno mezzo e il danaro accordatogli dalla generosità imperiale, e molto più quello di per sè trafugato; il qual contegno, l’arroganza sua, e il dispregio in che poneva le meritate sciagure attiravangli l’esecrazione de’ Romani, ed acceleravano le pene maggiori serbategli dalla giustizia divina. [p. 138 modifica]

V. Aveavi in Cizico un vescovo di nome Eusebio, uom per nulla men di Giovanni incomportabile e tristo, ed i cittadini spesso eransi richiamati delle costui vessazioni, ma il favore di che godea in corte aveva renduto vana ogni lamentanza loro, quindi è che alcuni giovani insidiandone la vita il trafissero in mezzo al foro, e dal volgo si tenne il Cappadoce, palese nemico del morto, complice di tale misfatto. I giudici pertanto inviati dal senato romano a formare il processo ordinano che sia incarcerato Giovanni, e svestito e frustato a guisa di ladrone, avvegnachè potentissimo un tempo tra gli ottimati, prefetto ed anche console5, massima delle romane dignità, per avere da lui tutta la consorteria di quella uccisione; ma nulla potè la sevizia persistendo egli a dichiararsi affatto innocente ed al buio di sì grave colpa. Era non di meno scritto negli eterni decreti che dovesse così pagare il fio dei mali arrecati all’imperio; laonde, senza punto di riguardo alle proteste sue, fu con sentenza privato d’ogni bene di fortuna e condotto via da colà su d’una barca, dalla quale, coperto non più che d’ispida tunica e per pochi oboli compra, era dalle sue guardie costretto a discendere ed elemosinare ovunque essa approdava. Scorsi in tal condizione parecchi luoghi dell’Egitto arrivò ad Antinoopoli6, e [p. 139 modifica]volge ora il terz’anno che vi giace imprigionato; a malgrado però di tanta miseria non dispera tuttavia di pervenire un giorno al supremo potere, avendo avuto sia l’arroganza di chiedere ad alcuni Alessandrini il danaro ch’e’ dovevano al pubblico tesoro. Ed ecco di qual modo Giovanni scontò la pena de’ mancamenti commessi nel decennio di sua magistratura: dopo di che riprendo l’interrotto argomento.

Note

  1. Questo elogio ben poco si accorda coi titoli d’uomo iniquo e d’insigne furfante datigli nel cap. 21 delle St. Segr.
  2. Questa grande confidente di Teodora augusta ebbe i natali da un cocchiere del circo, fu patrizia di dignità, dama principale in corte e preposta al vestimento ed all’ornato dell’imperatrice. Ebbe due mariti, e col primo di essi generò Fozio e molti altri figli, con Belisario poi la sola Giovannina; sopravvisse al consorte, che solea accompagnare nelle militari spedizioni, e decrepita uscì di vita sotto l’imperio di Giustino II.
  3. Vitige re dei Goti, e Gelimero re dei Vandali.
  4. Città che altre volte annoveravasi tra le più ragguardevoli dell’Asia per grandezza, buon governo e bellezza. Era situata in un’isola della Propontide che due ponti congiungevano alla terra ferma. Sovrastavale il monte Dindimo celebre pel tempio erettovi dagli Argonauti alla madre degli Dei, quindi chiamata Dindimene. Sappiamo inoltre da Pausania che «i Ciziceni dopo di avere forzato colla guerra i Proconnesii a divenir loro concittadini, tolsero da Proconneso la statua della madre Dindimene: questa è d’oro, ed il suo volto, in vece di essere d’avorio, è fatto di denti di cavalli marini» (lib. viii). Mitridate dopo avere riportato una vittoria sopra le truppe romane aventi a duce Cotta, cinse questa città d’assedio; mossosi però dal fiume Sangario Lucullo, ov’era a campo, e presolo alle spalle gli fe toccare una gravissima sconfitta essendo asceso il numero de’ Pontici morti a diecimila, e quello dei prigionieri a tredici mila, o se vogliamo prestar fede a Plutarco (Vita di Lucullo) trecento mila sommarono gli estinti, i prigioneri, i bagaglioni, e quanti altri erano alle salmerie dell’esercito (V. Appiano, Guer. Mitr.; Strab., lib. xii; Memnone, Ist. d’Eraclea Pontica; Polibio, lib. v).
  5. Fu l’antipenultimo console dell’imperio costantinopolitano, ricoprendo in pari tempo la prefettura del pretorio.
  6. Essa viene eziandio rammentata da Pausania con queste parole: «Sul Nilo gli Egizj hanno una città del nome di Antinoo» (Delle cose arcadiche).