Istoria delle guerre persiane/Libro primo/Capo XI

Capo XI

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CAPO XI.

Giustino successore d’Anastasio. — Cavado nomina all’eredità del regno il figliuol suo Cosroe. — Una legge di Persia nega il trono ai disformati da qualche personale difetto. — Cavado propone a Giustino l’adozione di Cosroe. — Giudiziosi ragionamenti di Proclo intorno alla proposta del monarca persiano. — Vano assembramento di ambasciadori all’uopo di appaciare i due Stati, e loro separazione. — Odio di Cosroe contro a’ Romani. — Funesta morte di Seose. — Costumanza persiana di non seppellire i cadaveri de’ trapassati. — Rufino accusato all’imperatore da Ipazio.

I. Morto Anastasio, Giustino ascese il trono1 lasciando indietro tutti i parenti di lui, benchè molti e chiarissimi2. [p. 45 modifica]

II. Cavado allora diedesi a temere non avvenisse al morir suo la simil cosa in danno del proprio sangue; nè poteva accordar prelazione ad alcuno de’ figli senza [p. 46 modifica]incorrere in grandi contrarietà nella scelta. La legge disponeva la corona a favor del primogenito Coase, ma ella non attagliava al padre, dichiarandosi in ciò avverso alla costumanza del regno ed all’ordine della natura.

III. Bazes3, il secondo, aveva perduto ogni diritto alla successione perchè mancante d’un occhio, non consentendo le persiane leggi che governi il regno persona mal concia da fisica deformità. Il re poi amava sopra tutti Cosroe4, nato di Abevedo sua sorella; ma in vedendo prediligersi dalla nazione Bazes, valorosissimo giovane, ed assai commendevole per le molte sue eccellenti prerogative, temeva sedizioni ed altre offese contro la famiglia del suo beneamato, ove questi fosse prescelto al trono.

IV. Egli adunque per trarsi da sì forte impaccio non seppe trovare spediente migliore dell’assolvere i Romani d’ogni sua pretesa verso di loro, solendo queste coll’andar del tempo essere fomite a nuove guerre, a [p. 47 modifica]patto che Giustino adottasse Cosroe. Ravvisando pertanto in cotal suo pensiero l’unico mezzo di conservargli il regno, mandò a Bizanzio ambasciadori con lettera del tenore seguente: «Avvegnachè offeso in molte guise dai Romani, ora è mio volere di porre il tutto in dimenticanza, non avendovi più gloriosa vittoria di quella che cede all’amicizia parte dei proprj diritti. Chieggoti però in guiderdone, o Giustino, la grazia di prestarti con animo benevolo a quanto strigner può noi stessi ed i nostri sudditi co’ legami d’uno scambievole affetto, e ricolmare costoro di tutti i preziosi beni della pace; al qual uopo desidero che tu adotti il mio Cosroe in figlio, cui lascio, mancando ai vivi, il regno».

V. Alla lettura di questo foglio l’imperatore ed il nipote suo Giustiniano, portato dalla fama alla successione dell’imperio, colmaronsi di gioia, e si vergava già l’atto d’adozione in conformità alle romane leggi, quando Proclo5 mostrossi di contrario parere. Era questi un imperiale assessore, insignito della questoria magistratura, e soprattutto uom giusto e ben avverso ad ogni maniera d’avarizia, il perchè opponevasi non meno alla promulgazione di nuove leggi, che al cambiamento di quelle in vigore. Non andandogli pertanto a [p. 48 modifica]verso la proposta adozione così ne parlò: «Io non ebbi mai a costume di consentire a novità, paventando sommamente pericoli o insidie in esse, come pur temo nel caso nostro. Imperciocchè sembrami veder noi tutti qui ragunati all’uopo di rinunziare con qualche onesta apparenza la nostra repubblica a’ Persiani. I quali non in segreto, nè con palliamento di sorta, ma chiaro appalesano l’intenzion loro, e con manifesto inganno chiamando comune vantaggio un proprio ed inetto desiderio, cercano da sfacciati a noi togliere la sovranità. È quindi mestieri ch’entrambi voi poderosissimamente rigettiate l’inchiesta del barbaro: a te il dico, o Giustino, acciò non sii l’ultimo de’ romani imperatori; ed a te, o Giustiniano duce, perchè non ponga tu stesso impedimento alla tua successione al trono. Havvi pur troppo di tali furberie, che appresentate sotto di onesta specie possono per avventura abbisognare appo alcuni d’esposizione; quest’ambasceria però all’imperator dei Romani fin dal suo esordio chiede l’adozione di Cosroe, qual egli siasi, onde fornirgli un diritto alla successione dell’imperio: tanto è mio parere doversi argomentare dall’avanzata domanda. Ma vuole natura che i figli posseggano l’eredità paterna, e le stesse leggi che per riguardo alle altre costumanze differiscono assai tra loro, e ben anche trovansi di sovente in piena contraddizione, secondo la indole de’ varii popoli, concordano tuttavia per ogni dove nel riconoscere diritto della prole la successione ai beni paterni. [p. 49 modifica]Confermata ora da voi questa verità, ne procede tutto il rimanente di conseguenza».

VI. Cotal avviso di Proclo riportò il voto dell’imperatore e di Giustiniano, i quali diedersi incontanente ad escogitare tra sè un pretesto a fine di ricusare la domanda al monarca. Pervengono intrattanto uomini chiarissimi dalla Persia apportatori d’una seconda lettera a Giustino, in cui il re pregavalo di mandargli un’ambasceria per istabilire le condizioni della pace, e per esporgli la formula che profferirebbe nell’adozione. Ma Proclo con vie più grande fermezza d’animo combattè una seconda volta gli attentati de’ Persiani, e reseli maggiormente odiosi, disvelando com’essi tendessero alla usurpazione dell’imperio. Opinava inoltre che senza perdimento di tempo si trattasse la pace, facendo partire a questo effetto un’ambasceria composta di ragguardevolissimi personaggi; la quale ove fosse dal re interrogata sul conto dell’adozione, risponderebbe non avervi consuetudine tra i Romani di compiere in grazia de’ barbari tai cose per iscritto, ma bensì colle armi. Approvatosi dal consiglio l’avviso, Giustino accomiatò i Persiani, promettendo loro che tosto verrebbero aggiunti dai suoi; e dell’egual tenore scrisse eziandio la lettera di rimando a Cavado.

VII. Partirono quindi ambasciadori presso quel monarca un nipote di Anastasio nomato Ipazio, di schiatta patrizia e comandante delle truppe orientali, e Rufino prole di Silvano chiarissimo tra patrizj e d’una [p. 50 modifica]famiglia assai nota a Cavado, il quale similmente destinò all’uopo stesso il persiano Seose, di magistrato adrastadara-selane e di grandissima autorità e valore, dandogli a compagno Mebode, col grado nella reggia di maestro6. Tutti questi ambasciadori d’ambe le genti, convenuti in un luogo di mezzo alle frontiere delle due monarchie, studiavansi comporre le discrepanze e conchiudere la pace. Il re intanto procedette sino al Tigri, là ove misurarsi non più che due giornate di cammino da Nisibi, col pensiero di visitare Bizanzio dopo soscritti gli accordi. Tra’ molti discorsi poi da quinci e quindi nel consiglio proferti sopra i richiami d’ambe le parti, Seose accagionò gl’imperiali di ritenersi ingiustamente la Lazica7 usurpata ai Persiani, cui di pieno diritto si competea. Tali parole crucciarono grandemente gli ambasciadori di Giustino intolleranti del sentirsi contrastare il pacifico dominio di quella provincia; ma non tardò l’ora che gli offesi [p. 51 modifica]ribeccarono con vantaggio l’offensore, asserendo che farebbesi dal signor loro l’adozione di Cosroe, nella guisa però che i Romani sogliono praticarla co’ barbari. A’ Persiani mancato l’animo di trangugiare tanta ingiuria, fu sciolta l’adunanza, e tutti ripatriarono dopo un vano perdimento di tempo.

VIII. Cosroe allora tornò indietro vampante di sdegno per l’avvenuto, e protestando altamente di prenderne vendetta.

IX. Mebode quindi calunnia presso Cavado Seose, dichiarandolo reo d’intramessi ostacoli al soscriversi degli accordi col porre in campo, contra gli ordini avuti, quistioni sul rendimento della Lazica, e d’averne concordato da solo con Ipazio, il quale non troppo benivolente di Giustino erasi adoperato nel gittare a terra le proposte di pace e dell’adozione. Con tali e simiglianti menzogne fu Seose chiamato in giudizio da suoi nemici, dove il senato persiano comparve inesorabile, mosso più presto da odio e da invidia che non da ragioni; imperciocchè a malincuore soffriva gli onori e la molta bontà dell’accusato. Il quale sebbene del danaro e de’ presenti nimicissimo, e rigido osservatore del giusto, lasciavasi nondimeno adescare dalla vanagloria, difetto assai naturale dei grandi Persiani, ma in lui supposto incomparabilmente maggiore che in ogni altro. Nè qui cessavano le accuse, volendosi eziandio spregiatore delle patrie leggi, adoratore di numi stranieri, e violatore dei persiani riti, avendo fatto interrare il cadavero della moglie, anzichè lasciarlo [p. 52 modifica]insepolto8; e per tai colpe fu sentenziato di morte. Cavado finse compiangerlo siccome legato seco in amicizia, non gli fe grazia però, avvegnachè gli dovesse ed il regno e la vita, velando il suo mal talento col frivolo pretesto di rispetto alle leggi9. In cosiffatta guisa la calunnia condusse a morte Seose, ed in lui ebbe principio e fine la dignità d’adrastadara-selane, non leggendosi ne’ fasti persiani che altri mai più riportasse tanto onore.

X. Rufino parimente accusò Ipazio all’imperatore, il quale toltolo subito di carica, fe comando per [p. 53 modifica]iscoprire il vero, che se ponesse alla tortura alcuno dei familiari: ma non rinvenuta pruova, il tenuto reo n’andò senza più grave condanna.

Note

  1. Questo imperatore nomato Flavio Anastasio Dicora e favoreggiatore degli eresiarchi Eutichio e Macedonio vescovo di Costantinopoli, dominò anni 27, mesi 3, e giorni 3, cioè dall’anno 491 dell’era volgare al 518, e morì colpito da una folgore.
  2. Anni dell’era volgare 518. Ecco uno squarcio della biografia di questo imperatore, tratto dalla Storia segreta del nostro Procopio: «Teneva in Costantinopoli l’imperio Leone, quando tre giovinetti nati nell’Illirio ed usi a lavorare la terra, e furono questi Zimarco, Ditibisto e Giustino, a cui fu patria Bederina, per togliersi dall’estrema povertà in cui erano, pensarono di darsi alla milizia. Vennero essi a Costantinopoli appiedi, coi saghi sulle spalle, entro i quali nulla fuorchè qualche pane per alcun giorno aveano da riporre; e questo era tutto quello che recavan da casa. Messi dall’imperatore sul ruolo militare, poichè erano di egregio aspetto, furono scelti per servire nella guardia del monarca. Venuto poi all’imperio Anastasio egli spedì contro gl’Isauri, i quali si erano messi in armi, un floridissimo esercito, datone il comando a Giovanni Gibbo. Questi fece mettere prigione Giustino, fattosi reo di capitale delitto; e dovea di lì a due giorni perdere la testa, quando, siccome Giovanni stesso era solito raccontare, questi ne venne ritenuto per essergli sembrato di vedere in sogno per tre notti consecutive uno che per l’altezza e l’aspetto della persona avea alcun che di più prestante dell’uomo, il quale gli ordinò che facesse mettere in libertà quello, che il dì innanzi avea fatto carcerare; che di costui e de’ suoi parenti, diss’esso, io avrò bisogno quando fia che salga in ira. E questa fu la cagione per la quale Giustino campò dalla morte».
    «Coll’andare del tempo Giustino salì a gran potenza, fatto prefetto de’ soldati pretoriani dall’imperatore Anastasio, morto il quale coll’appoggio di quella prefettura ebbe l’imperio, quantunque vecchio, senza un capello e, quello che presso i Romani non erasi dianzi veduto, così ignorante di lettere e come dicesi analfabeto, che mentre l’imperatore suole scrivere le sole iniziali del suo nome sulle carte, quando comanda quello che dee farsi, egli nè comandare nè comprender sapea ciò che fosse da comandare o da fare: perciò lasciava che Proclo, il quale l’ufficio esercitava di questore e gli sedeva accanto, facesse tutto siccome piacevagli. Ma perchè alcun segno della mano dell’imperatore potesse sussistere, il magistrato a cui spettava questo uffizio immaginò il seguente ripiego. Fece incidere sopra una tavoletta di legno ben liscia la forma di quattro lettere che potessero leggersi latinamente, e quella sovrapposta alla carta che volevasi firmata dall’imperatore, a lui davasi in mano la penna intinta del colore, con cui gl’imperadori usavano scrivere, e altri la mano tenendogli, la penna aggirava per le forme di quelle quattro lettere, cioè per le singole incisioni della tavoletta e di questa maniera ottenuta dall’imperatore la firma se ne andava». (Cap. 11, traduz. del cav. Compagnoni)
  3. Zama (Cous).
  4. Altri leggono Cadua, ritenendo che il nome Cosroe fosse comune a tutti i re di Persia.
  5. (1) Figliuolo di Paolo bizantino, giureconsulto eccellentissimo, e uomo giusto ed incorrotto. La sua influenza sotto Giustino nel maneggio degli affari dell’imperio veniva confermata da un epigramma scolpito appiè d’una statua a lui eretta in Costantinopoli.
  6. Al § 4 del cap. 23 è narrata la sua trista fine per calunnia appostagli dal zabergan.
  7. Al settentrione della Colchide su la riva meridionale del Fasi, ed all’occaso del Ponto Eussino, avvegnachè di poi sotto il basso imperio venisse dato un tal nome a tutta la Colchide. «Male si formerebbero (così dice altrove il Nostro) dei Colchi e dei Lazj, abitatori entrambi delle rive del Fasi, due popoli differenti; la diversità sola tra essi è che gli antichi Colchi ora son detti Lazj: al quale mutamento di nome eziandio molti altri popoli andarono soggetti. Nondimeno egli è vero che in un così grande intervallo di tempo le trasmigrazioni delle genti, e le successioni dei principi furono cagione di non poche novità in quelle contrade» (St. miscel.). In oggi è chiamata Gura.
  8. Vedi l’antico uso persiano riguardo ai morti. Allo spirare di qualcuno i più stretti consanguinei trasportavanne il cadavere fuori della città, ed ignudo gittavanlo ai cani ed a gli uccelli di rapina perchè fosse divorato; nè quindi curavansi raccorne le ossa, abbandonandole disperse sopra il terreno. Quanto più sollecitamente poi erane consumate le carni, tanto estimavasi maggiore la purezza dell’anima sua, tenendo per lo contrario segno di grandissime colpe da espiare il ritardo posto dalle belve nel dar fine a quel cibo; laonde sendo il morto poco o nulla tocco da esse piangevasi amaramente come ridotto ad una tristissima condizione, e da orrendi supplizj cruciato. Addivenendo altresì pericolosamente infermo alcuno della truppa era adagiato vivente sull’aperta campagna con poco pane, poc’acqua ed un bastone accanto, acciò avesse mezzo di nutrirsi e di allontanare le fiere sinchè rimaneagli un resto di forza; al cessar della quale però non di rado andava soggetto ad essere lacerato semivivo. Che se tornava in salute era da tutti fuggito siccome profano, nè potea riprendere le sue ordinarie funzioni se non se quando fosse stato purificato dai maghi, e ridonato al commercio della vita.
  9. V. cap. 6, § 1.