Istoria dell'Imperio dopo Marco (De Romanis)/Prefazione
Questo testo è completo. |
◄ | Dedica | Proemio | ► |
PREFAZIONE DEL TRADUTTORE
Il desiderio di trarre a se una parte di quella gloria che ha renduti celebri i nomi di tanti eccellenti scrittori greci e romani, ha eccitato in ogni tempo l’emulazione di uomini dottissimi ad arricchire le patrie loro di quelle nobili produzioni, che, a dir di Longino, dalla naturale altezza di spirito degli antichi, nell’animo di coloro che gl’imitano, come da sagre grotte, certi effluvj si tramandano, da’ quali ispirati anche quelli che noti sono molto disposti a esser dal furore febeo invasati, insieme coll’altrui grandezza l’entusiasmo concepiscono. Duopo è però di scegliere quelle opere, che per la costante fama e per lo universale giudizio degli uomini dotti, sono veramente insigni ed utilissime, potendo per esse sole sperare di vedere elevati gli animi nostri a quegli alti termini che ci siamo ideati. Onde io mosso dalle virtù di Erodiano, e dalla costante fama che lo ha sempre riposto fra i più squisiti ingegni dell’antichità, ho stimato di dare al pubblico la traduzione di quella sua bellissima istoria.
Prima però di far parola del modo che ho tenuto in tradurre, io credo necessario di scorrere brevemente su’ modi ch’egli ha tenuti nel dire, riserbandomi per ultimo di far conoscere i caratteri di quella parte che si attiene al sentimento. Erodiano si è compiaciuto di una lingua, che raramente partendosi dalle ateniesi eleganze, non si veste mai di parole affettate, invietite, e peregrine. Le particelle di ciascheduna dizione sono in esso limatissime, nè fa uso soverchio, come Tucidide, di sfrenatezze poetiche. Si vede però che pone ogni studio nel racchiudere in poche parole moltissime cose, e nel raccorre in fascio molte sentenze: per cui taluna volta dà desiderio di una maggiore evidenza. Dico taluna volta: perchè, generalmente parlando, egli è assai chiaro e perspicuo: che la brevità, quando si usino seco i precetti, non adombra la chiarezza. Sommo è stato Erodiano nell’uso delle figure e de’ tropi, contendendo in ciò di superare i più chiari, e rigettando quanto vi ha in loro di vago e di ripugnante alla naturale conseguenza. Le sue concioni sono piene di brevi ma forti sentenze, fornite di mirabili entimemi, e avvalorate da quelle difficili virtù, che dir si possono fulminatrici, per la rapidità colla quale risvegliano i più nobili affetti dell’animo. Non si scorge in esso imbellettamento di lisci e di sceniche ricercatezze: è tutto verità, tutto natura: brevi i periodi: le parole ordinate, ben connesse, numerose: la composizione, non si può dir quanto, variata e piacevole. Colorisce poi con sì freschi e forti colori, che lumeggia i successi di quella verità, che ce gli fa parere presenti: e sì vivaci ed arditi sono i brevi ritratti che di tratto in tratto scolpisce de’ primi personaggi dello stato, da non temere il confronto di Sallustio e di Tacito. Tutta la sua dizione finalmente sì è piena di purezza, di perspicuità, e di precisione, che dà una ottima tempera a’ suoi nobili concetti, e lo pone nel rango degli scrittori più magistrali e più classici.
Per tradurre uno storico, che ha dovizia di tanti pregj, era duopo di matura riflessione. Io ripeterò ciò che ho detto altra volta nel discorso che posi in fronte alla mia traduzione di Dionigi; vale a dire, che due sono le vie che si possono seguire nel tradurre, una rappresentante il senso, l’altra servente alla parola: una nondimeno parermi la vera, per esser necessario di conoscere spezialmente e approfondirsi entro ogni sentenza, e poi avere parole atte, non pure ad esprimerla, ma eziandìo ad illustrarla. Il tradurre fu posto in uso per iscoprire i concetti di una lingua che generalmente non fosse intesa; e però l’ogetto di chi traduce non è l’insegnare essa lingua, ma le cose che da quella non sappiamo apprendere. Cicerone ed Orazio sono stati anch’essi di questo parere: e veramente, se si attendesse, come fanno alcuni, solamente alle voci, rappresentandole a numero e non secondo la sostanza loro, si riescirebbe oscurissimi, e nel tempo istesso si torrebbero alla traduzione i veri pregj dell’eloquenza. Perchè i modi e le parole proprie della lingua tradotta non si convengono sempre alla lingua in cui si traduce, e spesse volte accade che le bellezze di lei facciano tradotte un effetto assai brutto e diverso. Laddove una squisita scelta de’ più belli e proprj vocaboli, facendo spiccare l’elocuzione di tutte le virtù, pone nelle cose una certa anima parlante. La quale non può essere entro uno stile che si faccia soverchiamente servo alla lettera, e che, privo di eleganza e di grazia, manca sempre di dolcezza, e di quella rapida energia che fa parere la nobiltà della composizione. Di quì nasce, che coloro i quali si son dati a tradurre in tal guisa, stravisano i caratteri proprj degli originali, e ci presentano Tucidide, il quale suole impugnare più fiere armi ch’Achille, vestito con laide vesti di meretrice; e Senofonte, ch’è tutto grazie e dolcezza, con bocca fiera ed urlante salmi non più dolci di quei di Nembrotto. Per dare poi alla dizione tutta la vivacità delle forme, e per incalorire ed animare gli argomenti, è mestieri possedere non solo la perfettissima cognizione delle due lingue, ma essere ancora versati entro le scuole de’ retori. Chè, alcuna volta, le figure soggiacciono agli stessi effetti delle parole, e quella che nell’una lingua animava e abbelliva il concetto, volta nell’altra, lo deturpa e infiacchisce. Ed allora si vuol fare ricerca di tale, che, corrispondendo, conservi alla dizione le bellezze e il vigore del’originale. Perchè, siccome nella musica dall’accompagnamento delle voci che accanto suonano, il suono principale e proprio diviene più soave, così il figureggiare andando di accordo ed essendo consuonante colla proprietà de’ vocaboli, dà più brio ed elevatezza all’elocuzione. E se accadesse che ne sortissero più belle e più magnifiche figure, ne ritrarremmo lodi anche maggiori, avendo ben detto quel dotto francese Laharpe che il tradurre è altresì un rivaleggiare di eloquenza con le diverse armi di due lingue diverse.
Ora io, volendo volgarizzare Erodiano, mi sono governato secondo questi precetti: e pigliando norma dalle traduzioni degli antichi, e da quella di Erodiano stesso che il celebre Poliziano volse in latino con modi elegantissimi e tutti proprj di quella lingua, ho fuggito a tutto mio potere l’errore di molti altri, ingegnandomi di dare alla mia versione il corso e le dolcezze proprie della italiana favella; e dove apparisse il contrario, confesso ingenuamente ciò esser proceduto dalla bassezza dell’ingegno mio, che non ha potuto aggiungnere a quelle doti, che si è sforzato di conseguire.
Riprendendo ora il discorso di Erodiano, io vengo a ragionare di quelle parti della sua storia che si attengono al sentimento. Erodiano ha tolto a scrivere di cose che o vide, o udì, o sperimentò esso stesso, per essere, come ci dice, vivuto in cariche pubbliche e principali. Ed in vero non può non consentirglisi, che, per non partirsi dalla verità cui è sagra la istoria, siesi egli grandemente adoperato, nulla avere aggiunto che nol patisse la materia, siccome quegli che non scrivea una storia incognita, o che avesse bisogno di testimonj, ma tale ch’era ancora nella mente di quelli che la leggeano. Ch’egli non si estende al di là di anni sessanta, come accenna nel proemio, e come apparisce da’ tempi stessi de’ quali fa la narrazione, parendomi non esser luogo a temere che una parte di lei possa andare smarrita per leggersi nel II. libro un errore de’ copisti, che alla parola ἑξήκοντα, sostituirono ἑβδομήκοντα. Scrivendo adunque la istoria de’ tempi stessi ne’ quali vivea, non la scrisse con modi vasti e diffusi, dimembrandola profusamente in varj capi: ma si valse di un argomento semplice, e sempre misurato a non digradarsi dietro alle menome cose. Perchè conobbe, che se la prestezza è utile in ogni operazione, lo è massimamente quando vi è abbondanza di cose da riportare; prendendo esempio, come dice il leggiadro e dotto Luciano, dal grande Omero, il quale, benchè poeta, tralascia Tantalo, Issione, Tizio, e i restanti: e da Tucidide che adoperò una forma di discorso brevissima, e tutta scevra di meschinità e di stucchevolezze. Dalla quale sua parsimonia, ritratta da’ precetti e dagli esempj, si vuol ripetere l’omissione de’ nomi di tutte le sorelle di Comodo, delle figliuole di Severo, di Giulia moglie di Eliogabalo, di Sallustia moglie di Alessandro, e di altre molte. E veramente, essendo questi nomi di persone che vissero senza infamia e senza lode, non era duopo si ricevessero entro una istoria, la quale non lascia fama che di coloro, i quali si sono distinti per grandi vizj o per grandi virtù. Quando però Erodiano ebbe a rendere ragione di avvenimenti, ne’ quali gli si consentì di far menzione di femmine, non omise di favellare di Lucilla e Fadilla sorelle di Comodo, di Marzia sua concubina, di Giulia moglie di Severo, della vecchia Mesa, e delle sue due figliuole Soemi e Mammea.
Si pare più difficile a confutare quella taccia di malignità, di cui fu notato e rimorso da uomini dottissimi, per le lodi tribuite a Massimino, e i biasimi detti di Alessandro Severo, come pure per non aver fatto parola di Giulio Paolo, di Ulpiano, di Erennio Modestino, e di Papiniano, tutti magistrati e giureconsulti grandi e ragguardevoli. Ma in ispezie non possono menargli buono il silenzio tenuto sulla gloriosa morte, a cui l’amore della giustizia condusse quest’ultimo. Volea Caracalla farsi parere innocente dell’assassinio di Geta, e a tal effetto impose a Papiniano di portarsi in senato a discolparlo. Ma quel magnanimo, avendo ciò in gran dispetto, fieramente e a viso aperto rispose al fratricida, che l’orribile eccesso si potea più facilmente commettere che scusare. Una tale risposta non era forse per onorare e grandissimamente la istoria? Perchè dunque tacerla? Chè se fu d’avviso di avere bastantemente soddisfatto al suo uffizio, col dire che Caracalla spense i più illustri dell’ordine senatorio, ebbe gran torto di non toccarne le cagioni, e soprattutto le nobilissime. Onde non potendo io rinvenire alcuna onesta difesa di questa sua omissione, nè palliarla di trascuraggine, mi veggo costretto a seguire il giudizio de’suoi accusatori.
Debbo però disgiugnermi da loro, quando vengono a biasimarlo di non avere divulgato quelle nefandità che nuocono al costume. Erodiano era troppo versato ne’ precetti, per non vedere che somiglievoli eccessi si debbono o tacere o toccare in modo, che non contaminino quella verecondia e quel decoro, i quali sono i più nobili sostegni della dignità della istoria. Di maniera che, se alcuna volta è stato tratto a ciò fare dalla forza della necessità, lo ha sempre fatto colla massima discrezione e con nobilissimo disimpegno, come si può rilevare dalla via coperta che ha tenuto nel far motto della opinione corsa dell’incesto di Caracalla con Giulia. Egli non ne fa apertamente la menoma parola: ma non omette di allegare le cagioni che inferirono il tiranno contro il popolo di Alessandria, e ci narra, ch’essendo esso di natura beffeggiatrice, avea posto alla madre di lui il soprannome di Giocasta. L'onesto velo di cui è coperta la voce dell’orribile eccesso, palesa il giudizio dello storico, e può passare per esempio di quella vereconda modestia, colla quale si dee trattare la istoria.
Venendo ora alle virtù di Erodiano, io dico che queste sono molte e perfettissime. Egli discorre nobilmente e con somma gravità le diverse cagioni che trascinarono Roma a servire i più crudi tiranni; la loro cupidigia, le atrocità, le rapine, le stragi, la corruzione e l’orgoglio della soldatesca, che, dimentica degli antichi ordini, fuggiva la obbedienza e la fatica, e, cercando gli agj e i piaceri, manomettea lo stato. Svelandoci poi tutti i politici traviamenti di tale reggimento di militar democrazia, sovvertitrice di ogni costume e di ogni legge, e ricercando con soda critica le cagioni che sì diversi e sì strani effetti produssero, non lascia di suggerire quei mezzi che gli si parrebbero i più opportuni per raffrenarle. Nel descrivere le guerre, è incredibile a dire a quale eccellenza sia aggiunto, e quanta ottima tempra dia a que’ concetti ed argomenti, pe’ quali apparisce intendentissimo dell’arte della guerra e della disciplina militare.
Finalmente non eccederò le lodi delle bellissime sue digressioni, delle parlanti pitture della peste, della fame, e degl’incendj, del drammatico della composizione sempre vivace ed ardito, della diligenza, robustezza, e felicità delle sentenze corroboranti la narrazione e i discorsi; solo brevemente dirò che nessuna delle celebratissime istorie si apre con magnificenza più straordinaria e più grande: Marco Aurelio, quell’imperadore filosofo, sul letto della morte, agitato dal timore che il figliolo suo ancor giovinetto, date le spalle a’ buoni studj e alle discipline, straviziasse nell’ubriachezza e nelle crapule. Nobile e veramente sublime è questo pensiere: esso ti vince tutti i sentimenti dell’anima, e ti trasporta fin da principio sopra una scena di dolore. Qui veramente si può dire che la compositura è messa in dignità ed in elevazione, perchè niuna cosa, a parere de’ grandi retori, è più grandiloqua, quanto il nobile affetto collocato ov’è uopo; comechè egli di un non so qual furore e divino vigoroso ispiramento senta, e in certo modo ir faccia piene di dignità le orazioni.
Non si può con precisione asserire in qual tempo vivesse Erodiano, ma da molti luoghi della sua storia apparisce esser egli vissuto a’ tempi di Severo, Caracalla, Eliogabalo, Alessandro, Massimino e Gordiano imperadori. Ignota ci è egualmente la sua patria, e si sa solo che di nazione fu greco. Ebbe cariche principalissime, com’esso stesso ci dice; ma si tacendo se fussero militari o civili, anche in questo ci rimaniamo all’oscuro. Giova solo sapere che fu personaggio assai raguardevole e al caso di procacciarsi le più esatte informazioni di quegli avvenimenti che prese a narrare.