to di chi traduce non è l’insegnare essa lingua, ma le cose che da quella non sappiamo apprendere. Cicerone ed Orazio sono stati anch’essi di questo parere: e veramente, se si attendesse, come fanno alcuni, solamente alle voci, rappresentandole a numero e non secondo la sostanza loro, si riescirebbe oscurissimi, e nel tempo istesso si torrebbero alla traduzione i veri pregj dell’eloquenza. Perchè i modi e le parole proprie della lingua tradotta non si convengono sempre alla lingua in cui si traduce, e spesse volte accade che le bellezze di lei facciano tradotte un effetto assai brutto e diverso. Laddove una squisita scelta de’ più belli e proprj vocaboli, facendo spiccare l’elocuzione di tutte le virtù, pone nelle cose una certa anima parlante. La quale non può essere entro uno stile che si faccia soverchiamente servo alla lettera, e che, privo di eleganza e di grazia, manca sempre di dolcezza, e di quella rapida energia che fa parere la nobiltà della composizione. Di quì nasce, che coloro i quali si son dati a tradurre in tal guisa, stravisano i caratteri proprj degli originali, e ci presentano Tucidide, il quale suole impugnare più fiere armi ch’Achille, vestito con laide vesti di meretrice; e Senofonte, ch’è tutto grazie e dolcezza, con bocca fiera