Istoria del Concilio tridentino/Libro ottavo/Capitolo VII

Libro ottavo - Capitolo VII (16-22 settembre 1563)

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CAPITOLO VII

(16-22 settembre 1563).

[Persistenti motivi di malcontento di Pio IV verso la Francia. — Caterina, a mezzo del nunzio Santa Croce, propone al papa un congresso dei sovrani cattolici. Difficoltá di esecuzione. — A Roma il Lorena sconsiglia al papa la sospensione del concilio e promette di adoperarsi per affrettarne la lieta fine. — Lagnanze di Pio IV con Spagna per gli ostacoli frapposti all’opera del concilio. — Molti vescovi francesi lasciano Trento. — Nuovo tentativo di superare la difficoltá dei matrimoni clandestini. — Proposta dei rimanenti articoli di riforma. — Il decreto riguardante la riforma dei principi. — Protesta francese contro di esso. Irritazione e polemiche suscitate dal vivace discorso del Ferrier e dalla sua apologia. — Nuove insistenze del conte di Luna per la revoca del Proponentibus legatis.]

Erano nel pontefice cessati tutti li disgusti di Francia per causa del concilio; né però era senza ricever continue molestie da quel regno. Gli dava molta noia la quotidiana instanzia che li era fatta di consentir all’alienazione di centomila scudi di beni ecclesiastici, e le continue detrazioni che intendeva usarsi dagli ugonotti contra lui e la sede apostolica. Li fu specialmente molesto che il cardinale Sciatiglione, il qual, come s’è detto, aveva deposto ogni abito clericale e si faceva chiamar il conte di Beauvais, dopo che intese dal pontefice esser stato dechiarato privato (sotto il di ultimo marzo) del cappello in consistoro, reassonse l’abito de cardinale e con quell’abito si maritò. E nella gran solennitá che si fece in Roano il 13 agosto, quando il re si dechiarò maggiore in parlamento, in presenzia di tutta la nobiltá francese egli comparve alla solennitá nel medesimo abito, che fu da tutti giudicato una gran sprezzatura della degnitá pontificia: di che il papa [p. 307 modifica] commosso, in questo tempo fece metter in stampa la sua privazione, e ne fece seminar molte copie per la Francia.

All’arrivo del Cardinal di Lorena in Roma, era pochi giorni prima arrivato il noncio del pontefice residente in Francia, spedito dalla regina per proponer al papa un abboccamento tra Sua Santitá, l’imperator, il re di Spagna e il re suo figlio, nella comitiva del quale ella ancora si sarebbe ritrovata. Dal pontefice fu giudicata l’esecuzione impossibile. La proposizione non li dispiacque, come quella che molto poteva servir a finir il concilio: e però diede parola di mandar nonci all’imperatore e al re di Spagna per questo, e destinò il vescovo di Vintimiglia per Spagna (il qual per ciò chiamò da Trento), e quello d’Ischia all’imperatore.

Al Cardinal di Lorena fece eccessive demostrazioni d’onore, l’alloggiò in palazzo e, cosa insolita, andò pubblicamente a visitarlo alle stanze sue. Li ragionamenti tra loro furono in parte sopra l’abboccamento, se ben il cardinale esso ancora non lo teneva per fattibile. Si trattò della vendita per centomila scudi, nel che non è chiaro se li uffici fossero fatti dal cardinale per promover o per tirar indietro l’esecuzione; anzi che, avendo in quei giorni il pontefice ad una nova instanzia dell’ambasciatore in quella materia risposto che la rimetteva al concilio, fu giudicato da molti esser iscusazione ritrovata da Lorena. Ma il principal negozio fu sopra il finir del concilio, cosa stimata dal papa per importantissima e conosciuta per difficilissima. Nel che fu somma confidenzia tra loro, avendoli scoperto il cardinale li interessi suoi voltati al medesimo, e come dopo la morte dei fratelli vedeva chiaro non esservi altro mezzo di sostentar in Francia la religione e la casa sua, che la congionzione con la sede apostolica. Il papa li promesse di far cardinali a sua instanzia, e li diede tal parole che mostravano intenzione di farselo succeder nel pontificato; le quali acciò avessero maggior credenza, mostrava che la grandezza di quel cardinale fosse utile per li fini che aveva di qualche novitá in Italia. È ben certa cosa che il pontefice aveva qualche mira a cosa di gran momento, perché la conclusione [p. 308 modifica] delli ragionamenti suoi con ogni persona era: «Bisogna serrar il concilio e provveder denari, e poi sará quello che a Dio piacerá».

Il pontefice conferí al cardinale che ad ogni nova qual gli capitava a notizia delle discordie e delli allongamenti che altri macchinavano, veniva in consultazione di suspender il concilio; ma n’era ritirato dalla considerazione dello scandalo che laverebbe ricevuto il mondo, al quale la veritá era incognita: e dall’un canto quello li pareva il maggior male che potesse occorrere, dall’altro canto lo giudicava inferiore al pericolo che portava l’autoritá sua, la qual era lo scopo dove e principi e vescovi e ogni sorte di persona saettava: ma che finalmente era necessario deponer tutti li rispetti e venir a questa risoluzione. Il cardinale lo levò di questa deliberazione, con mostrarli che quella non era una medicina da guarir il male, ma da differirlo con maggior pericolo, perché fra poco tempo averebbe nove dimande di restituirlo e macchinazioni di qualonque non fosse ben satisfatto di lui; e che il suspenderlo era anco piú difficile che fornirlo, perché di questo non faceva bisogno addur cause; bastava metter ben le cose a segno e intendersi ed esequire; che la suspensione ricercava allegazione di causa, sopra la quale ognuno averebbe detto la sua; che era anco piú onorevole finire che suspendere. E altre ragioni usò, che fecer conoscer al papa il conseglio esser buono e fedele; e appresso lo consigliò a parlar apertamente col re di Spagna.

Per il che, chiamati a sé gli ambasciatori di quel re, si querelò con parole gravissime, dicendo aver congregato il concilio sotto speranza e promessa del re che le cose del pontificato sarebbono favorite da Sua Maestá; alla quale anco aveva dato tutte le sodisfazioni immaginabili, ed era per darli delle altre, secondo le sue richieste, quando fossero levati li impedimenti che portava l’esser aperto il concilio; che egli non aveva dimandato altra grazia a Sua Maestá e alli ministri se non il fine di quello, per servizio di Dio e ben comune, ed in ciò era trattato molto male, senza che vi fosse alcun [p. 309 modifica] beneficio, anzi molto danno del re. Però era costretto tenir conto di chi faceva stima di lui, e gettarsi nelle braccia di chi voleva aiutarlo. Spedí anco al re un corriero con littera di sua mano, facendo querela delli uffici che facevano l’ambasciator e altri suoi a Trento, contrari alli ministri regi di Roma, dicendo l’una parte e l’altra far commissione di Sua Maestá; li mostrò che compliva per il servizio di Dio, della sede apostolica e della Maestá sua che quel concilio si finisse; e in fine lo ricercò di aperta dechiarazione, se in questo era per coadiuvar o no. Lo consegliò anco il cardinale a non si mostrar alieno di conceder all’imperatore il calice e matrimonio de’ preti, che cosí acquisterebbe l’imperatore e il re de’ romani, non tanto consenzienti a finir il concilio, ma ancora favorevoli e promotori. Parimente li considerò che era necessario tralasciar riforma de’ prencipi, come cosa che piú d’ogni altra poteva mandar la negoziazione in longo.

Ma in Trento, dopo la partita di Lorena, partirono ancora nove vescovi francesi per tornarsene a casa; onde non ve ne restarono al concilio piú che otto, oltra sei che erano andati a Roma col cardinale. La partita di quelli fece passar voce che fossero stati rechiamati di Francia, e che ci fosse anco intenzione di rechiamar gli altri per ufficio fatto dagli ugonotti, acciò, instando il fine del concilio, quando sarebbono stati anatemizzati non vi fossero francesi presenti.

Li legati, per agevolar le difficoltá del clandestino, fecero far dalli teologi una pubblica disputa in contradittorio con difensori e oppugnatori, cosa che in nessun’occorrenzia era piú stata fatta in concilio. Ma né meno quella partorí alcun buon effetto, anzi tutti si partivano piú confirmati nella propria opinione. E dopo questo, per reassumer le congregazioni e trattar della riforma, diedero fuori il rimanente degli articoli, de’ quali l’ultimo era per reforma de’ principi, vedendosi costretti a ciò fare per l’ammutinamento dei prelati. Del qual capo toccante i principi avendo fatto tante volte menzione, poiché siamo venuti ad un luoco che per intelligenzia delle cose seguenti è necessario recitarlo, convien sapere che quello [p. 310 modifica] conteneva un proemio con tredici decreti e un molto pregnante epilogo. La sustanzia de’ quali era: che la sinodo, oltra le cose statuite sopra le persone ecclesiastiche, ha giudicato dover emendar altri abusi dai secolari introdotti contra l’immunitá della Chiesa, confidando che i principi se ne contenteranno e faranno render la debita obedienzia al clero: e però li ammonisce, inanzi le altre cose, che facciano render dalli loro magistrati, ufficiali e altri signori temporali quell’obbedienza che essi medesimi principi sono tenuti prestare al sommo pontefice e alle constituzioni conciliari. Il che per facilitare, rinnovando, statuisce alcune delle cose decretate dai sacri canoni e dalle leggi imperiali a favor della immunitá ecclesiastica, le quali debbino esser osservate da tutti sotto pena di anatema.

I. Che le persone ecclesiastiche non possino esser giudicate al fòro secolare, ancora che vi fosse dubbio del titolo del chiericato, e quantonque essi medesimi consentissero, o vero avessero renonciato alle cose impetrate, o per qualsivoglia altra causa, eziandio sotto pretesto di pubblica utilitá o di servizio del re; né possino proceder nelle cause di assassinio, se non sará vera e propriamente assassinio e che notoriamente consti; e negli altri casi dalla legge permessi, non lo possino fare, se non precedendo prima la dechiarazione dell’ordinario.

II. Che nelle cause spirituali, matrimoniali, di eresia, decime, iuspatronatus, beneficiali, civili, criminali e miste, pertinenti in qualsivoglia modo al fòro ecclesiastico, cosí sopra le persone come sopra li beni, decime, quarte o altre porzioni spettanti alla Chiesa, e sopra i benefici patrimoniali, feudi ecclesiastici, giurisdizione temporale di chiese, non possino li giudici secolari intromettersi né in petitorio né in possessorio; levata qualonque appellazione, o per pretesto di denegata giustizia, o come d’abuso, o perché sia renonciato alle cose impetrate: e quelli che nelle suddette cause ricorreranno al secolare, siano scomunicati e privati delle ragioni che in quelle li competivano. E ciò sia osservato eziandio nelle cause pendenti in qualonque instanzia. [p. 311 modifica]

III. Non possino li secolari, eziandio per autoritá apostolica o consuetudine immemorabile, constituir giudici in cause ecclesiastiche; e li chierici che riceveranno tali uffici da’ laici, eziandio per vigor di qualsivoglia privilegio, siano sospesi dagli ordini, privati de’ benefici e uffici, e inabili a quelli.

IV. Che il secolare non possi comandare al giudice ecclesiastico di non scomunicar senza licenza, o di revocar o vero suspender la scomunica fulminata; né possi proibirli che non esamini, citi e condanni, e che non abbia birraria ed esecutori propri.

V. Che imperatore, re o qualsivoglia principe non possi far editti o ordinazioni in qualsivoglia modo pertinenti a cause o persone ecclesiastiche, né intromettersi nelle persone, cause, giurisdizioni né tribunali, eziandio nell’inquisizione, ma siano ubbligati prestar il braccio alli giudici ecclesiastici.

VI. Che la temporal giurisdizione de ecclesiastici, eziandio con mero e misto imperio, non sia turbata; né meno li sudditi loro nelle cause temporali siano tirati alli tribunali secolari.

VII. Nessun principe o magistrato prometti per brevetto o altra scrittura, o dia speranza di aver beneficio alcuno posto nel dominio loro, né li possi procurar da’ prelati o capitoli di regolari; e chi per quella via ne ottenirá, sia privato e inabile.

VIII. Che non possino metter mano nelli frutti dei benefici vacanti, sotto pretesto di custodia o iuspatronato o di protezione, né a fine d’ovviar le discordie, né mettervi economi o vicari: e li secolari che accetteranno tal uffici e custodie siano scomunicati, e li chierici suspesi dagli ordini e privati dei benefici.

IX. Che li ecclesiastici non siano costretti a pagar tasse, gabelle, decime, passi, sussidi, eziandio con nome di dono o d’imprestito, cosí per li beni della Chiesa come per i patrimoniali, eccettuate quelle provincie dove per antichissima consuetudine gli ecclesiastici medesimi nelli pubblici comizi [p. 312 modifica] intervengono ad imponer sussidi, cosí a’ laici come ecclesiastici, contra gl’infedeli, o per altre urgentissime necessitá.

X. Non possino metter mano nelli beni ecclesiastici, mobili e immobili, vassalli, decime e altre ragioni, né meno nei beni delle comunitá o dei privati, sopra quali la Chiesa ha qualche ragione; né affittar pascoli o erbaggi che nascono nei terreni e possessioni della Chiesa.

XI. Che le lettere, sentenzie e citazioni dei giudici ecclesiastici, specialmente della corte di Roma, subito esibite, senza eccezione siano intimate, pubblicate ed eseguite; né cosí di questo come di pigliar possesso delli benefici s’abbia da ricercar consenso o licenzia, che si chiama Exequatur o veramente Placet, o con qualsivoglia altro nome, eziandio sotto pretesto di ovviare alle falsitá e violenzie, eccetto nelle fortezze e in quei benefici dove li principi sono riconosciuti per ragion del temporale. E se vi sará dubbio o della falsitá delle lettere o di qualche gran scandolo e tumulto, possi il vescovo, come delegato apostolico, statuir quello che sará di bisogno.

XII. Non possino li principi e magistrati alloggiar li suoi ufficiali, familiari, soldati, cavalli, cani nelle case o monasteri de ecclesiastici, né cavar da loro alcuna cosa per vitto o per il transito.

XIII. E se alcun regno, provincia o luoco pretenderá non essere tenuto ad alcuna delle suddette cose, in virtú di privilegi della sede apostolica che siano in attual osservanza, li privilegi debbino esser esibiti al pontefice fra un anno dopo il fine del concilio, quali siano da lui confirmati secondo il merito dei regni o provincie; e finito l’anno, se non saranno esibiti, s’intendino di nessun vigore.

E per epilogo era un’ammonizione a tutti i principi di aver in venerazione le cose che sono di ragione ecclesiastica, come peculiari di Dio, e non le lasciar offendere dagli altri, innovando tutte le constituzioni de’ sommi pontefici e sacri canoni in favor dell’immunitá ecclesiastica, comandando, sotto pena di anatema, che né direttamente né indirettamente [p. 313 modifica] sotto qualonque pretesto sia statuito o eseguito alcuna cosa contra le persone e beni ecclesiastici, o vero contra la loro libertá, non ostanti qualsivoglia privilegi ed esenzioni, eziandio immemorabili.

E questo è quello che prima agli ambasciatori era stato comunicato, e da loro mandato ciascuno al suo principe, e per causa del quale il re di Francia diede l’ordine alli ambasciatori suoi, del quale di sopra si è parlato. E l’imperator, vedutili, scrisse al Cardinal Morone che né come imperatore né come arciduca assentirebbe mai che si parli in concilio di refornar giurisdizione de principi, né di levarli l’autoritá d’aver aiuti e contribuzioni dal clero; considerandoli che tutti i mali passati erano nati per oppressioni tentate dagli ecclesiastici contra li populi e li principi: che avvertissero di non irritarli maggiormente e far nascere inconvenienti maggiori.

Li ambasciatori francesi, dopo la partita di Lorena, posero in ordine la protestazione loro, per valersene se fosse stato bisogno. Laonde nella congregazione delli 22 settembre, dopo che uno dei padri con longa orazione discorse che la causa d’ogni disformazione procedeva dalli principi, che quelli avevano maggior bisogno di riforma, che giá erano ordinati li capitoli, che era tempo di proporli e non persuadersi di mandarli in niente con le dilazioni; doppoi che quello ebbe parlato, l’ambasciator Ferrier fece una longa e querula orazione, o, come li francesi dicono, complaincte, il contenuto della quale fu ne’ punti principali: che essi potevano dir ai padri quello che li legati dei giudei dissero ai sacerdoti: «Doveremo noi ancora perserverar digiunando e piangendo?» Sono centocinquanta e piú anni che li re cristianissimi hanno dimandato alli papi riforma della disciplina ecclesiastica; per ciò e non per altro hanno mandato ambasciatori alle sinodi di Constanza, di Basilea, di Laterano, alla prima di Trento, e finalmente s’è gionto a questa seconda. Quali fossero le dimande loro lo testifica Giovanni Gerson, ambasciator del constanziense, le orazioni di Pietro Danesio, ambasciator nel primo concilio di Trento, di Guido Fabro e del Cardinal di Lorena in questo [p. 314 modifica] secondo; nelle quali non s’è dimandato altro che la reformazione dei costumi dei ministri della Chiesa; e con tutto ciò tuttavia conveniva digiunare e piangere, non settanta anni, ma duecento continui, e voglia Dio che non siano trecento e molto piú. E se alcun dicesse esser stata data sodisfazione con decreti e anatemi, essi però non reputavano che fosse satisfar dar una cosa per un’altra in pagamento. Che se si dirá doversi sodisfare col gran fascio di riforma proposto il mese inanzi, essi sopra quello avevano detto il loro parere e mandatolo al re: il quale aveva risposto di vedervi dentro poche cose convenienti alla disciplina antica, anzi molte contrarie. Non esser quello l’empiastro d’Esaia per sanare, ma quella coperta di Ezechiele per far incrudir piú le ferite, quantonque sanate. Ma quelle aggionte di scomunicar e anatemizzar li principi esser senza esempio della Chiesa vecchia, e aprire una gran porta alla rebellione; e tutto quel capo che parla della riforma dei re e principi non aver altra mira che a levar la libertá della chiesa gallicana e offender la maestá e autoritá dei re cristianissimi, li quali ad esempio di Constantino, Giustiniano e altri imperatori hanno fatto molte leggi ecclesiastiche, che non solo non hanno dispiaciuto alli papi, ma essi anco ne hanno inserte alcune nei loro decreti, e giudicato degni di nome di santi Carlo Magno e Ludovico IX, principali autori di quelle. Soggionse che li vescovi hanno governato la chiesa di Francia con quelle, non solo dopo li tempi della Pragmatica o del Concordato, ma quattrocento e piú anni inanzi il libro dei decretali; e che queste leggi sono state defese e restituite dai re posteriori, dopo che nelli tempi seguenti gli fu derogato con sustituir li decretali in luoco di esse. Che il re, dopo fatto maggiore, voleva ridur in osservanza quelle leggi e la libertá della chiesa gallicana, imperciocché in quelle non vi è cosa contraria alli dogmi della chiesa cattolica, alli antichi decreti dei pontefici e alli concili della Chiesa universale. Passò poi a dire che quelle leggi non proibiscono alli vescovi il riseder tutto l’anno e predicar ogni giorno, non che nove mesi e nelle feste, come era stato [p. 315 modifica] decretato nell’ultima sessione; né meno vietano alli vescovi viver con sobrietá e pietá, e avendo solo l’uso e non l’usofrutto delle entrate, distribuirle o piú tosto renderle ai poveri che ne sono patroni. E cosí seguí nominando le altre cose statuite nel concilio, con simil forma d’ironia che pareva le beffasse. Poi soggionse che la potestá data da Dio al re e le antichissime leggi di Francia e la libertá della chiesa gallicana avevano sempre proibite le pensioni, le renoncie in favore o con regresso, la pluralitá dei benefici, le annate, prevenzioni, il litigar del possessorio inanzi altri che li giudici regi, e della proprietá o altra causa civile o criminale fuor di Francia; e proibito anco l’impedir le appellazioni come d’abuso, o vero impedir che il re, fondatore e patrone di quasi tutte le chiese di Francia, non possi liberamente valersi delli beni ed entrate, eziandio ecclesiastiche, delli suoi sudditi, per instante e urgente necessitá della repubblica. Disse appresso che di due cose si maravigliava il re: che essi padri, ornati di gran potestá ecclesiastica nel ministerio di Dio, congregati solo per restituir la disciplina ecclesiastica, non attendendo a questo, si fossero rivoltati a riformar quelli che convien obedire, se ben fossero discoli, e pregar per loro; e che si possino e debbino senza ammonizione escomunicar e anatematizzar li re e principi, quali sono da Dio dati agli uomini; il che non si doverebbe far manco in uomo plebeo perseverante in un gravissimo delitto. Che l’arcangelo Micael non ardí maledir il diavolo, né Michea o Daniel li re impiissimi; e pur essi padri versavano tutte le maledizioni contra li re e principi, e contra il cristianissimo, contra il quale le maledizioni sono macchinate se defenderá le leggi de’ suoi maggiori e la libertá della chiesa gallicana. Concluse che il re li ricercava di non decretare alcuna cosa contra di quelle; e se altrimenti facessero, comandava a’ loro ambasciatori di opponersi alli decreti, sí come allora si opponevano. Ma se volessero, tralasciati li principi, attender seriamente a quello che tutto il mondo aspettava, sarebbe gratissimo al re, il quale comandava ad essi ambasciatori di aiutar quell’impresa. [p. 316 modifica]

Sin qui parlò per nome del re; poi invocò i! cielo e la terra ed essi padri a considerare se la dimanda regia era giusta; se sarebbe onesto dar li medesimi ordini in tutto il mondo; se in questo tempo conveniva compatire, non alla Chiesa né alla Francia, ma alla dignitá di essi padri e riputazione; e alle loro entrate, che non possono esser conservate con altre arti che come furono da principio acquistate; che in tante confusioni conveniva ravvedersi, e quando Cristo viene, non cridare: «Mandaci nel gregge dei porci». Che se volevano rimetter la Chiesa nella reputazione antica, constringer gli avversari a penitenza e riformar li principi, seguissero l’esempio di Ezechia, che non imitò il padre empio, né il primo, secondo, terzo e quarto avi imperfetti, ma andò piú in su all’imitazione delli perfetti maggiori. Cosí allora non bisognava attender alli prossimi precessori, se ben dottissimi, ma ascender sino ad Ambrosio, Agostino e Crisostomo, li quali vinsero gli eretici, non armando li principi alla guerra, e tra tanto attendendo a mondarsi le unghie, ma con l’orazione, buona vita e predicazione pura; perché essi, avendo prima formato se stessi in Ambrosii, Agostini e Crisostomi, e purgata la Chiesa, fecero deventar anco li principi Teodosii, Onorii. Arcadii, Valentiniani e Graziani. Il che sperando, pregavano Dio che da loro fosse fatto. E qui finí.

Ma l’orazione, nel medesimo tempo che era prononciata, irritò sommamente non tanto li pontifici, quanto anco li altri prelati, e li francesi ancora; e finita, per il gran susurro che era, fu necessario finir anco la congregazione. Alcuni la tassavano di eresia; altri dicevano che almeno era molto sospetta; e altri che era di offesa alle orecchie pie; che a studio aveva presa occasione di farla in assenzia del Cardinal di Lorena, che non averebbe comportato quei termini; e che il fine non era altro se non romper il concilio. Che attribuiva alli re quello che non li appartiene; che inferiva l’autoritá del papa non esser necessaria per valersi dei beni ecclesiastici; faceva il re di Francia come il re d’Inghilterra. Sopra tutto nessuna cosa offese maggiormente quanto l’aver inteso [p. 317 modifica] che dicesse l’autoritá dei re di Francia sopra le persone e beni ecclesiastici non esser fondata sopra la Pragmatica, concordati e privilegi del papa, ma sopra la medesima legge naturale, sopra la Scrittura divina, gli antichi concili e leggi delli imperatori cristiani.

Erano anco li ambasciatori francesi ripresi, con dire che dovevano prender esempio dalli cesarei e dallo spagnolo, li quali, quantonque avessero li stessi interessi, non avevano fatto moto, conoscendo di non aver ragione. Si defendeva il Ferrier con dire che al Cardinal di Lorena era stato promesso dalli legati di non parlar piú di quel capo se non con tal moderazione che non toccasse le cose di Francia, ma poi era stato altramente operato; che al Cardinal era stata comunicata l’instruzione regia; onde, se fosse stato presente, averebbe non solo acconsentito, ma consegliata la protesta; che erano grand’ignoranti quelli che, non avendo veduto altro che li decretali, leggi di quattrocento anni, pensavano che inanzi quelle non vi siano state altre leggi ecclesiastiche; e chi vorrá riformar il re per li decretali, egli vorrá riformar loro per il Decreto, e condurli anco a tempi piú vecchi non solo di sant’Agostino, ma delli apostoli ancora. Che non faceva il re di Francia come il re d’Inghilterra, ma ben si opponeva a quelli che da longo tempo hanno incominciato a crescer la loro dignitá con diminuir quella dei re; che se quegli articoli portassero tanto danno all’imperator o al re cattolico, come alla Francia, non sarebbono stati proposti; né si debbe pigliar esempio da chi non ha uguali interessi. Sopra tutti l’arcivescovo di Sens e l’abbate di Chiaraval furono li piú disgustati; e andavano dicendo che li ambasciatori avevano fatto male protestando, e che il loro fine era stato per metter confusione e dar occasione che in Francia si facesse il concilio nazionale; che non erano uomini di buona volontá, e che erano creature del re di Navarra, mandati al concilio da lui per i suoi disegni, e avevano protestato senza commissione del re; e che conveniva constringerli a mostrar le loro instruzioni e formar inquisizione contra di loro, come che [p. 318 modifica] sentissero male della fede: di che tra gli ambasciatori e loro nacquero gran dispareri. Li ambasciatori il dí seguente diedero conto al re delle cause perché avevano differito sino allora, e perché in quel tempo erano stati costretti a passar alla protesta, soggiongendo che averebbono differito a farla registrar negli atti del concilio, sin tanto che da Sua Maestá fosse veduta, e comandato loro qual fosse la sua intenzione.

Li legati, non avendo copia dell’orazione, ne fecero far una raccolta dalla memoria di quelli che erano stati piú attenti, per mandarla al pontefice. Del qual sommario avendone avuto Ferrier copia, si lamentava che molte cose fossero state espresse contra la sua intenzione; e in particolare che dove egli aveva nominato le «leggi ecclesiastiche», era stato reposto «leggi spirituali»; e che diceva che li re possono prender li beni della Chiesa a beneplacito, dove egli aveva detto solo per causa necessaria. Per questo egli si vide costretto di dar fuori l’orazione, e ne mandò una copia a Roma al Cardinal di Lorena, scusandosi se non aveva usato parole di tanta acrimonia come li era comandato nelle sue ultime instruzioni, e nelle prime, che sono reconfirmate in quelle; aggiongendo anco che non poteva tralasciar di obedir al re, né meno sottogiacer alle reprensioni che gli averebbe convenuto sofferire dalli consiglieri di parlamento, quando in un concilio generale in sua presenzia si fossero determinate cose di tanta importanzia contra quello che dai parlamenti è stato sostenuto con tanta accuratezza: senza che, essendo l’autoritá regia, che egli defendeva, sostenuta continuamente per quattrocento anni dal regno di Francia contra la guerra fattagli dalla corte di Roma, non era giusto che li padri del concilio, la maggior parte cortigiani romani, dovessero esser giudici delle vecchie differenzie che il regno ha con quella corte. Diede anco copia dell’orazione agli ambasciatori e a qualonque ne dimandava, della quale gli altri dicevano che altramente la prononciò di quello che poi ha messo in scritto. A che egli replicava che non sarebbe detto cosí da chi avesse mediocre intelligenzia di latino; e con tutto che fosse la medesima la prononciata e [p. 319 modifica] la scritta, se essi le avevano per diverse, dovevano raccordarsi lo stile della sinodo essere non dar mai giudicio sopra le cose come erano dette in voce, ma come erano esibite in scritto; e però quello attendessero, senza mover controversia di cosa dove era piú giusto creder a lui che ad alcun altro.

Uscita l’orazione in pubblico, li fu fatto risposta da uno innominato sotto nome della sinodo, dicendo che con buona ragione gli ambasciatori francesi s’erano comparati alli ambasciatori ebrei, avendo cosí essi come quelli fatto querimonia indebita contra Dio; e che ben li veniva la risposta che il profeta per nome divino diede a quel populo: «che se per tanti anni avevano degiunato e pianto e mangiato e bevuto, tutto era stato per loro propri interessi». Che li re di Francia erano stati causa di tutti gli abusi di quel regno, con nominar alli vescovati persone illitterate, ignare della disciplina ecclesiastica e piú inclinate a vita lasciva che religiosa; che li francesi non volevano risoluzione delli dogmi controversi, acciocché la dottrina cristiana restasse sempre incerta e fosse dato luoco alli novi maestri che potessero grattar il prurito delle orecchie di quella nazione poco inclinata alla quiete. Che in tempi tanto turbulenti non avevano risguardo a dire che toccasse al re, ancora giovanetto, disponerdi tutto ’l governo della Chiesa; che avevano detto asseverantemente li beneficiali essere solamente usuari delle entrate; e pur in Francia da immemorabil tempo si sono sempre portati per usufruttuari, facendo anco testamento, ed essendo ereditati dalli propinqui, quando muorono intestati. Che il dire dell’entrate li poveri esser patroni era molto contrario ad un altro detto nella medesima orazione, che il re era patrone di tutti li beni ecclesiastici e poteva disponere a beneplacito. Esser una grand’assurditá il non voler che il re possi esser da un concilio generale ripreso, poiché David re fu ripreso da Natan profeta, e admise la reprimenda. Che sentiva alquanto il fetore d’eresia il bassar li vescovi delli prossimi tempi e delli precedenti, quasi che non siano stati veri vescovi. In fine si diffondeva la scrittura longamente contra il detto dell’ambasciatore, che li principi sono [p. 320 modifica] dati da Dio, confutandola come eretica e dannata dall’estravagante di Bonifacio VIII, Unam sanctam, se non si distingueva con dire che sono da Dio, ma mediante il suo vicario.

Da questa scritta mosso l’ambasciatore, messe fuori un’apologia in risposta, come se fosse alla sinodo fatta, dicendo che li padri non potevano risponderli come il profeta alli giudei, imperocché essi dimandavano la riforma dell’ordine ecclesiastico principalmente di Francia, conoscendo in quello il mancamento, e non come li giudei, a’ quali, perché ignoravano li propri defetti, fu imputata la causa del digiuno e pianto. Che li padri, ascrivendo alli loro re la causa della disformazione ecclesiastica, si guardassero di non far come Adamo, quando rivoltò la colpa sopra la donna datagli da Dio in compagnia; perché essi confessavano esser grave peccato ai re presentar vescovi indegni, ma maggior quello dei pontefici di admetterli. Che avevano ricercato la riforma inanzi li dogmi, non per lasciarli incerti, ma perché, convenendo in quelli tutti li cattolici, reputavano necessario incominciar dai costumi corrotti, fonte e origine di tutte l’eresie; che non si pentiva d’aver detto esser negli articoli proposti molte cose repugnanti alli antichi decreti, anzi voleva aggiongerci che derogavano anco alle constituzioni de’ pontefici delli prossimi tempi. Che aveva detto Carlo Magno e Ludovico IX aver ordinate le leggi ecclesiastiche con quali era stata governata Francia, non che il re allora intendesse farne di nove; e quand’anco avesse cosí detto, averebbe parlato conforme alle sacre lettere, alle leggi civili romane e a quello che scrivono li autori ecclesiastici greci e latini inanzi il libro dei Decreti. Dell’aver detto che li beneficiali avevano il solo uso delle entrate dimandava perdono, perché doveva dire che erano solamente amministratori; e quelli che vogliono aver per male quello che ha detto, si lamentino di Gerolemo, Agostino e altri Padri, che non solo dissero li beni ecclesiastici esser dei poveri, ma che li chierici, a guisa di servi, acquistavano tutto alla Chiesa. Che mai aveva detto il re aver libera potestá sopra li beni ecclesiastici, ma bene che tutto era [p. 321 modifica] del principe in tempo d’instante e urgente necessitá pubblica; e chi sapeva la forza di quelle parole, ben conosceva in quel tempo non aver luoco né richiesta né autoritá del papa. Che aveva ripreso l’anatema contra li re nel modo che negli articoli era stato scritto, e che concedeva potersi riprender li principi e magistrati al modo che Natan fece, ma non provocarli con ingiurie e maledizioni. Che avendo con l’esempio di Ezechia provocato alla reformazione delli antichi tempi, non si poteva inferire che non avesse per veri li vescovi delli ultimi, sapendo molto bene che li farisei e pontefici sedevano sopra la cattedra di Mosé. Che nell’aver detto la potestá dei re venir da Dio ha parlato assolutamente e semplicemente, come Daniel profeta e Paulo apostolo hanno scritto, non essendoli venuto in mente la distinzione di mediato ed immediato né la constituzione di Bonifacio; al che quando avesse pensato, essendo francese, averebbe riferito anco quello che le istorie dicono della causa ed origine di quella estravagante.

Non fece l’apologia diminuir la mala opinione concepita contra li ambasciatori, anzi l’accrebbe, per esser (cosí si diceva) non un’iscusazione di error commesso, ma piú tosto una pertinacia in mantenerlo. E vari erano li ragionamenti, non tanto contra gli ambasciatori, quanto contra il regno. Dicevano conoscersi chiaramente qual fosse l’animo di quelli che maneggiavano le cose in Francia. Notavano la regina madre che avesse molto credito alli Sciatiglioni, massime al giá cardinale; che potevano appresso lei troppo il cancellier e il vescovo di Valenza, ad instanza de’ quali era stato fatto quel sinistro rebuffo al parlamento di Parigi con detrimento della religione; che teneva intrinseca familiaritá con Crussol e con la moglie, quali per causa della religione non averebbe dovuto lasciar andar al suo cospetto. Che la corte regia era piena di ugonotti favoritissimi; che tuttavia mandava a sollecitar di poter vender li beni ecclesiastici con tanto pregiudicio della Chiesa; e altre cose di questa natura.

Ma mentre il concilio era tutto in moto per questi dispareri, [p. 322 modifica] il conte di Luna, secondo il suo solito di aggionger sempre difficoltá a quelle che da altri erano proposte, fece instanza che si levasse il Proponentibus legatis; cosa molto molesta a loro, che non sapevano come contentarlo senza pregiudicar alle sessioni passate; perché non solo la revocazione, ma ogni modificazione o suspensione pareva una dechiarazione che le cose passate non fossero successe legittimamente. Ma l’ambasciatore, non vedendo espedizione sopra la dimanda tante volte fatta, diceva che sino allora aveva negoziato modestamente, e sarebbe costretto mutar modo; e tanto piú parlava arditamente, quanto sapeva che il pontefice, per le sue instanzie passate, aveva scritto che si facesse quello che era conveniente; nel che la Santitá sua si rimetteva in tutto e per tutto. Ma li legati, per liberarsi dalle instanzie dell’ambasciatore, risposero che lasciavano in libertá del concilio di far la dechiarazione, quando li fosse parso. E cosí serviva il nome di libertá nel concilio a coprir quello che da altri procedeva; imperocché li legati, mentre cosí dicevano, facevano insieme strette pratiche con li prelati piú congionti, acciò li fosse interposta dilazione, cosí per portar questo particolare in fine del concilio, come per goder il beneficio del tempo, il qual facesse apertura a qualche modo meno pregiudiciale. Ma il conte, scoperte le pratiche, preparò una protestazione, e ricercò li ambasciatori imperiali, francesi e di Portogallo di sottoscriverla: li quali l’esortarono a non far tanta instanzia per allora, poiché avendo il Cardinal Morone convenuto con l’imperatore che si sarebbe provveduto inanzi il fine del concilio, sin che non si trattava di questo non sapevano come poter protestare di quell’altro. E il Cardinal Morone per quietar il conte mandò piú volte il Paleotto a negoziar con lui il modo come venir all’esecuzione della sua instanzia, il quale non era ben inteso manco da lui medesimo, imperocché né egli averebbe voluto che fosse fatto pregiudicio alli decreti passati, e con questa condizione era difficil cosa trovarci temperamento. Finalmente diedero parola li legati al conte che nella prossima sessione si farebbe la dechiarazione, purché si trovasse modo che dasse sodisfazione alli padri.