Istoria del Concilio tridentino/Libro ottavo/Capitolo VI

Libro ottavo - Capitolo VI (15 agosto-15 settembre 1563)

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CAPITOLO VI

(15 agosto-15 settembre 1563).

[Opposizione al tentativo d’introdurre l’inquisizione spagnola a Milano. — Azione diplomatica di Pio IV per affrettare la fine del concilio: istruzioni impartite ai legati. — Questi decidono di proporre i capi di riforma, riducendoli di numero. — Ostacoli suscitati dal conte di Luna. — Gli ambasciatori si oppongono alla trattazione della riforma riguardante i poteri politici. — I legati la rinviano ad altra sessione, con parte dei capi di riforma. — Tenace azione dei vescovi per rafforzare il proprio potere: lotta contro le esenzioni dei regolari e contro l’autoritá temporale. — Ricevimento dell’ambasciatore di Malta. — Modifiche introdotte nei capi di riforma (sulla scelta dei piú degni ai benefici, sulle visite arcivescovili, le esenzioni dei capitoli, le pensioni, le annate, la pluralitá dei benefici, l’esame dei curati, le aspettative ecc...). — Istruzioni di Francia agli ambasciatori ed al Lorena perché non si proponga la riforma dei principi. — Insistenza dei vescovi perch’essa venga inclusa nel decreto. — Il conte di Luna ancora per la revoca del Proponentibus legatis. — Di fronte a tanti ostacoli, anche per segrete istruzioni del papa, i legati prorogano la sessione a novembre.]

Occorse un poco di timore tra i padri per una voce levata che in Inspruc vi fosse la peste. E giá molti si preparavano per le partenza, se il Cardinal Morone, il quale teneva di aver le cose in buon termine per finir il concilio, non avesse fatto venir certezza, la qual era che in Sborri, luoco vicino a Inspruc venti miglia, erano morti di mal contagioso molti di quei poveri uomini lavoranti alle miniere, per infezione contratta in luochi sotterranei; essendo però da quei d’Inspruc fatte cosí sicure provvisioni, che non vi era pericolo che penetrasse lá; anzi che nella terra di Sborri il male andava rallentandosi. Occorse anco un moto grande nelli prelati italiani, e [p. 291 modifica] particolarmente del regno di Napoli e stato di Milano. Imperocché avendo sino al mese inanzi proposto il re cattolico al pontefice di metter nello stato di Milano l’inquisizione ad usanza di Spagna, e per capo un prelato spagnolo, allegando che era necessario, per la vicinanza dei luochi infetti, un’esquisita diligenzia per servizio di Dio e mantenimento della religione; e avuto notizia che il papa ne avesse fatto proposizione in consistoro, alla quale, quantonque fosse stato contradetto da alcuni cardinali, il papa ne mostrava inclinazione, persuaso dal cardinale di Carpi, il quale rappresentava l’opera per utile a tener la cittá di Milano in devozione verso la sede apostolica (ufficio che egli fece per occulta speranza, fomentata dall’ambasciator spagnolo, che per quel servizio dovesse acquistar il favor del re di Spagna al papato); le cittá di quello stato mandarono al pontefice Sforza Morone, e al re cattolico Cesare Taverna e Princisvale Bisosto, e al concilio Sforza Brivio: questo a pregar tutti li prelati e cardinali di quello stato a compatir la patria comune, la qual essendo ridotta in miseria per le eccessive gravezze, si dissolverebbe a fatto con quella che superava tutte, preparandosi giá molti cittadini per abbandonar il paese, sapendo molto bene che quell’ufficio in Spagna non sempre aveva proceduto per medicar la conscienza, ma bene spesso anco per vuotar la borsa e per altri fini mondani. E se lá, sotto gli occhi del re, quelli che sono preposti a tal ufficio cosí rigidamente dominano li propri patriotti, quanto maggiormente lo farebbono in Milano, lontani dal rimedio, e verso persone meno amate da loro! Espose il Brivio in Trento il travaglio e pena che sentivano li cittadini generalmente per sí mala nova, richiedendo li prelati di favore. Ma quell’esposizione maggior dispiacere causava in essi prelati, che ne temevano piú che li secolari; e quei del Regno dubitavano che, imponendosi il giogo allo stato di Milano, non potessero recusarlo essi, come avevano fatto alcuni anni inanzi. Si congregarono insieme li prelati lombardi e deliberarono scriver al pontefice e al Cardinal Borromeo lettere da tutti essi sottoscritte: a questo, con dire che era pregiudicio suo, al qual toccava, [p. 292 modifica] come arcivescovo, esser il principale in quell’ufficio; e al papa, con mostrarli che non vi erano né quelle cause né quei rispetti che sono nelle parti di Spagna, da porvi sí rigorosa inquisizione: la quale, oltre l’evidente rovina che apportela a quello stato, saria di gran pregiudicio alla santa sede; la qual non potria negare che non si mettesse ancora a Napoli, e si darebbe occasione alli altri principi italiani di ricercar di far il medesimo anco loro. E avendo quell’inquisizione autoritá sopra li prelati, la santa sede averebbe da loro poca ubidienza, perché sarebbono costretti a cercar di star bene con i principi secolari, a’ quali per quella via si troverebbono soggetti; laonde il papa in occasione di novo concilio averia pochi prelati da fidarsi e a chi potesse liberamente comandare. Né doversi credere a quello che spagnoli potrebbono dire, che l’inquisizione di Milano sarebbe soggetta a quella di Roma, vedendosi per esempio come operano nella causa dell’arcivescovo di Toledo, e che sempre hanno ricusato di mandar li processi che da Roma li sono stati richiesti; il che fanno anco li inquisitori del regno di Sicilia, dependenti da Spagna. E non contenti li prelati di questo ufficio e de altri fatti da loro (ciascuno appresso li cardinali e altri di Roma, con quali potevano), proponevano che si aggiongesse nelli decreti del concilio qualche parola in favor dei vescovi, che li esentasse o assicurasse, e si decretasse il modo di fare li processi in quella materia; il che se bene non potesse riuscir nella prima sessione, si deliberasse per la susseguente. E il Cardinal Morone diede speranza di dar loro sodisfazione. E questo accidente tenne cosí occupato il concilio per il numero delli interessati, che se non fosse pochi di dopo arrivata nova che il duca di Sessa, avendo sentito il disgusto universale, e dubitando per sentori andatigli alle orecchie che il ducato di Milano non pigliasse esempio da’ fiamminghi, che a ponto erano divenuti «guesi» (cosí chiamano in quei paesi quelli della religione riformata) per il tentativo fatto di metterli l’inquisizione, aveva conosciuto l’intempestivitá di trattar quel negozio e fatto fermar gli ambasciatori destinati al re, promettendo che [p. 293 modifica] egli averebbe fatto ufficio sí che lo stato averebbe avuto sodisfazione, era per riuscir cosa di qualche gran momento.

Il pontefice, vedute le risposte dagli ambasciatori date alli capitoli dalli legati proposti, tanto piú si confirmò che bisognava metter fine al concilio, altrimente qualche gran scandolo sarebbe seguito; e aveva per leggeri li inconvenienti preveduti, e dubitava di qualche maggior impreveduto; ma vedendo la difficoltá di metter fine senza terminar le cose per che il concilio era congregato, se li principi non se ne contentavano, deliberò di far ufficio di questo con tutti. Scrisse di ciò alli nonci suoi in Germania, Francia e Spagna; ne parlò con tutti li ambasciatori residenti appresso di sé, e anco con quelli dei principi d’Italia. E usava questo concetto: che a chi l’avesse aiutato a finir il concilio sarebbe piú ubbligato che se avessero fatto assistenza con le arme in qualche gran bisogno. Alli legati rispose che voltassero la mira principale a finir il concilio, e a questo fine concedessero tutto quel che non si poteva negare per ottener questa intenzione, s’admettessero manco cose pregiudiciali che possibile fosse; che alla prudenza e forza loro, che erano nel fatto, rimetteva il tutto, purché al concilio fosse posto quanto piú presto fine.

Ma li legati, dopo aver considerato insieme con alquanti prelati le proposte delli ambasciatori sopra la riforma, e a loro instanzia tralasciati sei delli capi proposti, e ridottili a trentadue, il dí 21 agosto li diedero alli prelati per parlarne sopra. Il Cardinal di Lorena fece congregazioni particolari de’ francesi per esaminarli, il che era con sodisfazione delli legati, non solo perché erano certi che egli camminava con la medesima intenzione di loro, ma anco essendo desiderosi d’accordarli a comun satisfazione, prima che se ne parlasse in congregazione generale; e diedero cura alli arcivescovi d’Otranto, di Taranto e vescovo di Parma che, ciascuno d’essi separatamente nelle proprie case congregati li loro aderenti, li esaminassero, e intendessero quello che sarebbe di sodisfazione comune. E continuandosi in questo piú giorni, tra li spagnoli e altri italiani non chiamati fu mormorato assai, e fatto ammutinamento per opporsi. [p. 294 modifica]

Successe anco che, andato l’arcivescovo d’Otranto in casa dell’ambasciatore cattolico, fu da lui di questo ammonito, con dirli che non averebbe voluto aver occasione di far uffici appresso il re che non li piacessero; che quelle particolar congregazioni erano tanto mal intese dalli buoni prelati, che non poteva restar di darne conto a Sua Maestá. Egli si scusò che tutto era per buon fine, per facilitar la materia e per provveder alle difficoltá inanzi la congregazione generale: ed essendo sopraggionto a ponto allora il vescovo d’Ischia per parlar al conte a nome del Cardinal Morone, egli nel medesimo proposito li mostrò che li dispiacevano le private congregazioni, e che teneva opinione che non si facessero ad altro fine, se non per metter difficoltá e tralasciar parte delli capi, a fine di far piú presto la sessione. Con tutto ciò li legati, piú mirando a sodisfar li prelati che l’ambasciatore, vedute le cose avvertite in quelle congregazioni, le ricevettero per buoni avvertimenti, e accomodarono li decreti, mutando diversi luochi, e in altri inserendo secondo quelli.

Ma mentre che erano per darli fuora cosí emendati, arrivò un corriero dall’imperatore, per instruzione portata dal quale l’arcivescovo di Praga ricercò instantemente li legati a non proporre la riforma de’ principi secolari, sin che essi avessero risposta da Sua Maestá cesarea; la qual instanzia fece anco dopo loro il conte di Luna. Per questo li legati erano molto perplessi, poiché giá Francia, e ora l’imperatore e Spagna non si mostravano sodisfatti, e dall’altra parte era comun desiderio di tutti li padri che la reforma si facesse tutta insieme. Onde congregati in casa di Navagero indisposto, vedendo esser necessario dar sodisfazione alli ambasciatori, proposero se si doveva differir tutta la riforma o il capo solo dei principi. Lorena era di parere che questo solo si differisse e si proponesse tutto il rimanente; il che sarebbe piaciuto, quando non fosse restato dubbio di dar ombra alli prelati che la riforma secolare s’avesse ad ometter in tutto, e da questo pigliassero occasione di reclamare e privatamente e nelle pubbliche congregazioni. Onde fu risoluto di dar sodisfazione alli [p. 295 modifica] ambasciatori, differendo la riforma de’ principi; ma acciocché li prelati non interpretassero male, differire almeno la metá delli altri capi, e li piú importanti, dando fuori il rimanente come li avevano corretti, per far dir li voti e celebrar la sessione; se ben la difficoltá che si vedeva nel decreto de’ clandestini li faceva dubitare. E il dí 6 settembre furono dati fuori ventuno capi di riforma, con ordine di cominciar il dí seguente le congregazioni. Nella formazione di questi adoperò tutta l’arte e ingegno il Cardinal Simonetta con li altri suoi, per camminar con temperamento, sí che la corte romana ricevesse poco pregiudicio, fosse data sodisfazione al mondo che dimandava riforma e alli ambasciatori che la sollecitavano; e, quello che piú di tutto importava, restassero li vescovi contenti, poiché, volendo finir il concilio, era necessario che essi vi concorressero con buona volontá.

La mira dei vescovi era una sola, cioè d’aver il governo piú libero. Questo credevano dover ottenere, quando tre provvisioni fossero fatte. L’una, che li parrochi fossero da loro dependenti; il che sarebbe successo quando a loro fosse dato la collazione de’ benefici curati: e questo, oltra le altre difficoltá, metteva mano nelle reservazioni e regole di cancellaria, che era far una grand’apertura nelli arcani della corte romana, vedendosi chiaramente che sarebbe aperta la porta a levarli intieramente tutte le collazioni, che era tòrli ogni potestá e l’istessa vita. Però si venne al temperamento di tener ferme le reservazioni, ma far patroni li vescovi di dar le cure a chi loro piacesse, col pretesto dell’esamine: e a questo fine fu formato il diciottesimo capo, con l’esquisito artificio che ognun vede, il qual con speciosa maniera fa il vescovo arbitro di dar il beneficio a chi li piace, e non leva niente delli guadagni alla corte. L’altro capo era delle esenzioni, nella qual materia molte sodisfazioni avevano ricevuto li vescovi per il passato, e nondimeno fu anco aggionto l’undecimo capo per total complemento. Restavano le esenzioni degli ordini regolari; ed erano venuti li vescovi in speranza di poterle a fatto levare, o almeno moderar in tal maniera che li restassero in gran parte soggetti. [p. 296 modifica]

Giá sino nel principio dell’anno fu eretta una congregazione sopra la riforma de’ regolari, la qual, con l’intervento dei generali e conseglio di altre persone religiose esistenti in concilio, aveva fatto gran progresso e stabilito buoni decreti, senza nessuna contradizione, perché, quanto al di fuori e alle cose apparenti, li medesimi regolari non l’aborrivano, ma la desideravano. Quanto al di dentro e che occorre nelli monasteri, erano molto ben certi che l’averebbono interpretato e praticato come a loro fosse piaciuto; anzi avevano per cosa utile d’aver in scritto riforma restrettissima, come tutte le loro regole sono altre in scritto di quello che in osservazione. Ma quando s’incominciò a parlar di moderare le esenzioni e sottoporli, almeno in parte, ai vescovi, si ammutinarono tutt’insieme li generali con li teologi delli ordini, e fecero capo con li ambasciatori dei principi, mostrando loro di quanto servizio fossero alli populi, alle cittá e al pubblico governo; offerendosi, se in loro vi era abuso di qualsivoglia sorte, che si rimediasse; che si contentavano di ogni riforma, e che, ritornati ai loro governi, erano per eseguirla piú severa di quello che fosse ordinato: ma che sottopor li monasteri alli ordinari era un disformarli, perché quelli, non intelligenti della vita regolare e della severitá della disciplina con che si mantiene, averebbono disordinato ogni cosa. Dicevano li vescovi che il privilegio è sempre con detrimento e disordinazione della legge; che la revocazione è una cosa favorabile, ritornando li negozi nella loro natura; che il levarli non era far novitá, ma restituir lo stato antico delle cose. Si rispondeva dall’altro canto che l’esenzione de’ regolari per la sua antichitá era cosí ben prescritta, che non poteva chiamarsi piú privilegio, ma legge comune; che quando li monasteri erano soggetti ai vescovi, la disciplina ecclesiastica in essi e nei loro canonici era cosí regolata e severa, che meritava di sopraintendere a tutti; che volendo restituir l’antichitá, conveniva farlo in tutte le parti; che quando li vescovi fossero ritornati come in quei tempi, si poteva sottoporli li monasteri come allora; ma non era giusto che dimandassero d’aver sopraintendenzia ai [p. 297 modifica] monasteri, prima che si formassero tali quali è necessario che sia il rettor d’una vita regolare. Erano favoriti li regolari dalli ambasciatori e dalli legati, per interesse della corte, la qual averebbe perso un grand’instrumento quando non fossero stati dependenti da lei sola; e non gli mancava favore da qualche prelati, che confessavano le loro ragioni esser buone. Durò questo moto per qualche giorni, rimettendosi però pian piano, perché ogni giorno li vescovi che l’avevano eccitato vi scoprivano dentro maggior difficoltá.

Il terzo capo era per l’impedimenti che ricevevano li vescovi dalli magistrati secolari, quali per conservazione dell’autoritá temporale non lasciavano trascorrer li vescovi ad esercitar quell’assoluto imperio che averebbono voluto, non solo sopra il clero, ma ancora sopra il popolo. A questo effetto era fatto il capo della reforma de’ principi, del qual si è fatta menzione e al suo luoco si parlerá pienamente. Questa parte era stata, insieme con altre annesse a lei, differita per un’altra sessione, avendola per cosa difficile e che averebbe potuto molto prolongare; ma li vescovi interpretarono questa dilazione che fosse a fine di mandarla in niente. Si lamentavano che, trattandosi di reformar tutta la Chiesa, si riformasse solo il clero. Li legati facevano ogni diligenzia per quietarli, mostrando che non era differita questa sola, ma altri capi ancora, che era pur necessario trattare; promettendo che la dilazione non era se non per far le cose con maggior maturitá, ma che si sarebbono fatte certo; che era necessario facilitar l’espedizione di quella sessione, la qual sarebbe stata preparatoria all’altra, dove si sarebbe trattato senza meno il rimanente. Erano tutti intenti li legati per tener la sessione al tempo determinato, giudicando ciò necessario per espedir il concilio presto; e perché il papa, per ogni corriero ordinario senz’alcun fallo, e ben spesso con qualche straordinario, faceva loro instanzia per l’espedizione e che lo liberassero dal concilio.

Nella congregazione delli 7 settembre fu ricevuto fra’ Martino Roias, ambasciator degli Ospitalari di San Gioanni Gerosolimitano, detti cavalieri di Malta; il che fu differito di [p. 298 modifica] fare sino a quel tempo per grandi opposizioni che fecero li principali vescovi, acciò non li fosse dato luoco superiore, dicendo non esser giusto che una religione de frati dovesse preceder tutto il corpo di tanti prelati. Ma finalmente s’accomodarono; e fu nella congregazione pubblicato che se gli dava luoco tra gli altri ambasciatori, senza pregiudicio delli prelati che pretendono precedenza. Fece un’orazione l’ambasciatore, scusando il suo gran Maestro di aver tanto differito di mandar a Trento, per li romori dell’armata de’ turchi e per le incomoditá che ricevevano per Dragut corsaro; esortò li padri a porger rimedio alli mali presenti, li quali non toccavano poco anco li frati della sua religione, che non erano membri oziosi della repubblica cristiana. Esortò all’estirpazione dell’eresie, offerendo che il gran Maestro e la societá loro averebbono preso il patrocinio e difesa, spendendo non solo le facoltá, ma la vita e il sangue. Narrò l’origine della religione sua, principiata per quaranta anni inanzi che Goffredo passasse all’acquisto di Terrasanta; le opere eroiche fatte dai loro maggiori, alle quali non potevano corrisponder al presente per esser stati spogliati di gran parte delle loro terre e possessioni; che essi sono l’antemurale di Sicilia e dell’Italia contra li barbari. Per il che pregava li padri raccordarsi dell’antichitá, nobiltá, meriti e pericoli di quella societá, e operare che li fossero restituite le possessioni e commende usurpategli; e che dal concilio si decretasse che all’avvenire non fossero conferite ad altri che a quelli del loro ordine, confermando le immunitá e privilegi di quello. Gli fu risposto dal promotore per nome della sinodo, ricevendo l’escusazione e promettendo di aver quella considerazione che meritava la dimanda sua intorno al conservare le commende e privilegi di quella religione. Ma quantunque, nelli giorni seguenti, appresso li legati facesse la medesima instanza piú volte, ed essi ne facessero relazione al pontefice, egli altro mai rispose, se non che a lui toccava far la provvisione, e l’averebbe fatta al suo tempo.

In quella e nelle seguenti congregazioni furono dati li [p. 299 modifica] voti sopra li venti capi di riforma proposti, nelli quali se ben non vi fu cosa di gran momento, nondimeno, per serie dell’istoria e per dechiarazione di molte cose che occorsero dopo, è ben far menzione delle principali.

Nel primo capo, che era dell’elezione de’ vescovi, dicendosi che vi fosse obbligo di provveder del piú degno, tornò la difficoltá un’altra volta trattata, che era un legar le mani molto strettamente cosí al pontefice nelle collazioni, come alli re e principi nelle nominazioni, se dovessero esser restretti a nominar una sola persona: e la maggior parte voleva che, levato quel comparativo, si dicesse solamente esser tenuti a provveder di persona degna. Ma d’altro canto consideravano altri che dalli Padri era stato sempre usato il modo di dire che il piú degno fosse preferito, e adducevano la ragione, perché non può esser senza colpa chi antepone il manco degno, se ben idoneo, al piú meritevole. Vi fu assai che disputare, ma si trovò il modo di accomodarla, lasciando in apparenza la voce «piú degno», e parlando prima con li termini positivi e poi passando alli comparativi, in maniera che s’intendesse la provvisione libera. E cosí fu usata la forma di dire che si vede stampata, cioè che vi è obbligo di provveder di buoni e idonei pastori, e che mortalmente pecca chi non antepone li piú degni e piú utili alla Chiesa, restando a queste parole la natural esposizione che molti sono li piú degni e piú utili rispetto a molti altri che sono meno; nella qual amplitudine ha gran campo l’arbitrio di chi ha da provvedere.

Nel capo terzo fu qualche difficoltá intorno la visitazione degli arcivescovi. Questi, allegando li canoni e le consuetudini antiche che li suffraganei giuravano obedienzia ai metropolitani ed erano pienamente soggetti alla visitazione, correzione e governo di quelli, non acconsentivano che fosse fatto pregiudicio a quell’autoritá; e tra questi grandemente si riscaldava il patriarca di Venezia. Li vescovi, particolarmente quelli del regno di Napoli, per il contrario s’affaticavano a conservar la consuetudine introdotta, per quale non [p. 300 modifica] sono differenti d’autoritá, ma di solo nome. Ma l’esser il numero dei vescovi grande e degli arcivescovi picciolo, e il favore che li legati e pontifici facevano a quelli, acciocché li arcivescovi con la soggezione dei suffraganei non acquistassero autoritá e riputazione, de quali potessero valersi per non star tanto soggetti alla corte quanto sono, fu causa che non potèro ottener se non una sola parola di sodisfazione, che gli fu data, non proibendoli di visitare quando fosse con causa approvata dal concilio provinciale. Di che si dolevano con dire che era a fatto un niente, perché essendo nel concilio provinciale un arcivescovo con molti vescovi, si poteva aver per chiaro che occasione non sarebbe mai nata.

Il sesto capo era sopra le esenzioni di capitoli delle cattedrali dall’autoritá episcopale; nel quale avendo grand’interesse li vescovi spagnoli, e a loro contemplazione il conte di Luna, furono fatte molte restrizioni e ampliazioni; ma non però tali che quei prelati restassero contenti, se ben piú volte fu mutato, e infine anco tralasciato e portato all’altra sessione, come si dirá.

Il decimoterzo capo, in quello che tocca le pensioni, parlava generalmente che nessun beneficio potesse esser gravato di maggior pensione che della terza parte dei frutti o loro valore, conforme a quello che fu di costume quando le pensioni s’introdussero. Il che al Cardinal di Lorena non pareva conveniente, poiché vi sono benefici molto ricchi che, quando anco pagassero doi terzi, non si potrebbono intender gravati; e altri cosí poveri, che non possono sostentar pensione; poiché non era giusta distribuzione questa, ma meglio era proibire che li vescovati di mille scudi e le parrocchiali di cento non potessero esser gravate, e quanto al rimanente fermarsi. La qual opinione prevalse, con grandissimo piacere delli legati e delli pontefici, per la libertá assoluta che si lasciava al pontefice nelli buoni benefici. Furono molti e longhi li discorsi di quelli che dimandavano moderazione sopra le pensioni e riservazioni de frutti giá imposte, e sopra li accessi e regressi; ma la difficoltá constrinse ognuno a metter il tutto in silenzio, [p. 301 modifica] per la confusione e disordeni che si prevedevano poter seguire; perché tutti s’averebbono doluto, con scusa che non averebbono resignati li benefici senza quelle condizioni: e maggiormente quelli che, per ottener tal grazie, avevano pagato composizioni con la camera, averebbono occasione di dolersi che si levassero le grazie senza restituir li danari, li quali restituire si trattava dell’impossibile. Finalmente ad ognuno parve molto che si provvedesse all’avvenire, senza pensar al passato.

Il decimoquarto capo, che detestava e proibiva ogni pagamento de parte dei frutti per la collazione, provvisione o possesso, piaceva molto alli francesi. Dicevano che per quelle parole era levato il pagamento delle annate: e veramente, chi le considera ed esamina, non potrá darli altra intelligenzia. Con tutto ciò l’evento ha mostrato che in Roma non è stato inteso cosí. Nel decimosettimo, dove è proibita la pluralitá de’ benefici e concessa la dualitá in caso che uno non basti, fu ricercato da alcuni aggionzione che quei doi benefici non fossero distanti piú che per il viaggio d’un giorno, acciocché potesse il provvisto far parte di residenzia in ciascuno di loro. Ma non potêro ottenerlo; né li autori s’affaticarono molto, prevedendo che quel decreto, come anco tutto il capitolo, non averebbe avuto esecuzione se non contra qualche poveri. Il decimottavo se ben piacque, in quanto restituiva in fatti la provvisione dei benefici curati alli vescovi, li francesi però contradissero alla forma dell’esamine, perché pareva loro che legasse troppo strette le mani al vescovo in apparenzia. Usavano per ragione il dire che quel concorso era un dar luoco troppo aperto e pubblico all’ambizione; che l’antichitá aveva professato di dar le chiese a chi le recusava; che con quella nuova maniera s’introduceva non solo il procurarle apertamente, ma il professarsene degno e procacciarle.

Sopra il decimonono capo il vescovo di Coimbria si estese a parlare contra le espettative, come quelle che facevano desiderar e forse procurar la morte altrui; e delle reservazioni [p. 302 modifica] mentali passò a dire che erano fraudi e puri latrocini; e che in fine meglio era lasciar al pontefice l’intiera collazione di tutti i benefici, che usar artifici cosí indegni come era il voler dar virtú ad un pensiero non conferito, non pubblicato, e lasciando anco suspizione che potesse esser non capito nell’animo, ma inventato dopo il fatto. Ma il Cardinal Simonetta li attraversò il ragionamento, con dire che il riprender gli abusi, quando la provvisione non è ancora deliberata, è cosa ragionevole a fine di procurarla; ma vedendosi comune disposizione al rimedio, e giá formato il decreto, bastava stabilirlo coll’assentirvi, e non moltiplicar per ambizione in parole di reprensione dove non fa bisogno.

Il dí 11 settembre ricevettero li ambasciatori francesi littere del re delli 28 agosto, nelle quali significava aver ricevuto gli articoli comunicati a loro dalli legati, e veder le cose molto lontane dalla speranza concepita, poiché lo stabilir quelli era un tagliar le unghie alli re e crescer le ecclesiastiche. Il che non volendo egli sopportare, li comandava di rappresentar ai padri con prudenzia, desteritá e vivacitá che, sí come ogni principe, camminando il concilio come doverebbe, è in obbligo di favorirlo con ogni zelo e fervore, cosí l’occultar la piaga che causa li mali presenti, e farne una piú grande con pregiudicio dei re, è molto lontano da quello che si aspettava. Che egli veduto aveva come leggermente passano nel reformar le persone ecclesiastiche, che hanno causato li scandali a quelli che si sono separati dalla chiesa romana, e come si assumano autoritá di levar le ragioni e prerogative alli re, cassar le ordinazioni reali, le consuetudini prescritte e immemorabili, anatematizzar ed escomunicar li re e principi: tutte cose che tendono a seminar disubidienza, sedizione e rebellione dei sudditi verso li principi loro, essendo chiaro a tutto ’l mondo che la potestá dei padri e del concilio non si estende se non alla reformazione dell’ordine clericale, senza toccar cose di stato, potestá e giurisdizion secolare, che è in tutto distinta dall’ecclesiastica; e che sempre, quando li padri e concili s’hanno assonto di trattar tal cose, li re e principi [p. 303 modifica] hanno fatto resistenza; da che sono procedute molte sedizioni e guerre dannosissime alla cristianitá. Li confortassero, attendendo a quello che era di loro carico e necessario per li bisogni presenti, tralasciar quei tentativi che, non avendo mai fatto buono effetto, erano per partorirlo molto piú cattivo in quei tempi. Soggionse il re che se li padri con queste persuasioni non si retireranno, essi ambasciatori debbino opponersi virilmente; e fatta l’opposizione, senza aspettare il loro giudicio o remettersi alla loro discrezione, dovessero partirsi e ritirarsi a Venezia, facendo intendere ai prelati francesi che debbino continuare nel concilio, adoperandosi al servizio di Dio; essendo certo che dove vederanno esser posto in deliberazione alcuna cosa contra le ragioni, prerogative e privilegi del re e della chiesa gallicana, non mancheranno d’assentarsi, come Sua Maestá vuole e intende che facciano. Scrisse anco al Cardinal di Lorena nel medesimo tenore come ordinava si parlasse agli altri prelati, cioè che con la sua presenzia non dovesse approvar alcuna cosa trattata in concilio contra le ragioni regie, ma assentarsi se vederá che li padri escano fuori delle cose appartenenti al loro carico; rimettendosi nel sopra piú all’instruzione che mandava alli ambasciatori.

Li francesi, ricevute queste lettere e comunicato il tutto col Cardinal di Lorena, col conseglio suo ne diedero anco parte alli legati; e fecero passarne voce per il concilio, acciocché, inteso questo, desistessero li vescovi dal domandar reforma dei principi, ed essi non avessero occasione di far l’opposizione e venire a’ protesti. Ma la cosa partorí contrario effetto, perché li vescovi, li quali stavano alquanto quieti con l’espettazione che, fatta la sessione, si sarebbe proposta la riforma dei principi, intendendo questo di novo, e vedendo che si mirava a metterla in silenzio, si diedero a trattar tra loro di non voler passar piú inanzi negli atti conciliari, se non era dato fuora e messo in deliberazione insieme con gli altri anco quel capo che delli principi trattava. E le pratiche camminarono cosí inanzi che cento di loro si diedero la parola insieme di star constanti in questa deliberazione; e formatane una [p. 304 modifica] scrittura sottoscritta di mano di tutti, andarono alli legati, richiedendo che li articoli della riforma de’ principi fossero proposti e dati ai padri, dechiarando quasi in forma di protesta che non continuerebbono in parlare né concluderebbono niente sopra gli altri, se non insieme con quelli. Usarono li legati buone parole, con disegno e speranza di divertir l’umore. In questo moto il conte di Luna comparve di novo con la solita instanzia che il decreto del Proponentibus legatis fosse revocato, acciò ogni prelato potesse propor le cose che giudicasse meritevoli di riforma; e dimandò che fosse accomodato a gusto delli prelati spagnoli il sesto capo, levando a fatto le esenzioni alli capitoli de’ canonici delle chiese cattedrali, e sottoponendoli al vescovo. Ed essendo comparso in Trento un procurator per nome di quei capitoli, che faceva ufficio in contrario, li comandò che non dovesse parlarne.

Essendo le cose in questi termini, pensavano li legati a far sessione con la sola materia del matrimonio: ma a questo si opponeva il non esser ancora ben maturate tutte le difficoltá del clandestino, e anco il sospetto che li ambasciatori avevano che, se si fosse fatta una sessione senza parlar di riforma, era perduta la speranza che si dovesse trattarne mai piú. Ed essendo anco ben evidente e chiaro che nessuna speranza restava di poter per il tempo determinato alla sessione aver in ordine cosa alcuna di riforma, li legati, fatta congregazione generale il di 15 del mese, proposero di prolongarla sino alli 11 novembre: e cosí fu deliberato. La causa di cosí longa dilazione fu perché il pontefice, vedendo le difficoltá di finir il concilio, parte nascenti per le controversie tra i prelati e parte per le opposizioni dell’ambasciator di Spagna, pose ogni speranza di superar le difficoltá nel Cardinal di Lorena; onde scrisse alli legati che, quando la sessione non s’avesse potuto far al determinato tempo, si prolongasse per due mesi: e questo fece acciocché, potendo il Cardinal trasferirsi a Roma, avesse comodo di divisar con lui quello che non era possibile far per lettere né per messi; e acciocché fosse preparata ogni disposizione per potersi immediate venir [p. 305 modifica] all’esecuzione. Sino a quel tempo non ebbe il papa altra risoluzione che di terminar il concilio; ma allora deliberò fermamente che, se questo non si poteva, trovandosi per mera necessitá costretto a liberarsene in qualonque modo si fosse, voleva onninamente dissolverlo. Mandò facoltá alli legati di far suspensione o traslazione, come avessero giudicato meglio col conseglio dei padri, scrivendogli che voleva liberarsene in ogni modo, o con metterci fine, se fosse possibile, il che piú di tutto desiderava; quando no, usar un altro delli due rimedi: però facessero opera essi di far nascer occasione di esserne richiesti, per non mostrar che egli fosse autore, e sollecitassero il viaggio di Lorena. Per il che egli, fatta la determinazione di prolongar la sessione, il dí seguente si partí.