Istoria del Concilio tridentino/Libro ottavo/Capitolo IX

Libro ottavo - Capitolo IX (11 novembre 1563)

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CAPITOLO IX

(11 novembre 1563).

[Sessione ventiquattresima. — Decreti di fede e di disciplina del matrimonio. — Decreto di riforma generale in ventun capitolo. — Osservazioni mosse ai vari decreti promulgati.]

Arrivò l’11 di novembre, nel qual fu tenuta la sessione con le solite ceremonie. In quella, dovendosi dir li voti nella materia del matrimonio clandestino, il Cardinal varmiense, che la teniva materia di fede e non sentiva che la Chiesa vi avesse sopra autoritá, non volse intervenir, iscusandosi che, quando si trattasse di cosa de iure positivo, non averebbe giudicato inconveniente dir il suo voto con libertá, quantonque dovesse esser decretato in contrario, ma che in questo sarebbe stato costretto dire, per satisfar alla sua conscienzia, che la sinodo non poteva far quel decreto; il che averebbe potuto causar qualche disgusti, da che egli era molto alieno. Fece il sermone Francesco Ricardoto, vescovo di Arras, dove ammonì il concilio che, essendo ormai due anni che quella santissima sinodo stava per partorire, e stando ognuno in espettazione qual debba riuscire il suo parto, non conveniva che mandasse in luce un parto troncato o mutilato, ché il mondo aspetta una prole soda e un parto integro; il che per mandar ad effetto, conveniva che risguardino li apostoli e martiri e l’antica Chiesa, e farla esemplare di onde pigliar i lineamenti della prole che è per partorire: che questi sono la dottrina, la religione e la disciplina, le quali tutte essendo degenerate in questi tempi, convien restituire all’antichitá. E questo esser quello che tanto tempo si è aspettato e tuttavia s’aspetta. Finite le ceremonie, furono lette le lettere di [p. 333 modifica] dama reggente di Fiandra, della missione di tre prelati al concilio, il mandato del duca di Fiorenza e quello del gran maestro di Malta; doppoi dal vescovo celebrante fu letta la dottrina e li anatematismi del matrimonio, a’ quali tutti acconsentirono. Letti li capi della riforma del matrimonio, al primo dell’annullazione del clandestino il Cardinal Morone disse che li piaceva se fosse piaciuto al papa; Simonetta disse che non li piaceva, ma si rimetteva al papa; degli altri, cinquantasei voti furono che assolutamente dissero non piacergli, li altri l’approvarono.

Furono dopo letti li decreti di riforma; e gionti al quinto delle cause criminali de’ vescovi, sentendosi eccettuati li regni dove si trova inquisizione, si eccitò moto grandissimo tra li padri, dicendo confusamente li lombardi e napoletani che quella eccezione non fu mai proposta in congregazione, e che si levasse via; in modo che fu necessario levarla allora allora. E dopo, il Cardinal di Lorena sopra il medesimo capo disse che approvava il decreto, con la condizione che non faccia pregiudicio alcuno alli privilegi, ragioni e constituzioni dei re di Francia, sí come era stato concluso nella congregazione del giorno inanzi, dichiarando che non facevano pregiudicio all’autoritá di principe alcuno; e in fine delli decreti, per nome suo e delli altri vescovi francesi, fece una protesta, in tutto conforme alla fatta doi giorni inanzi in congregazione, cioè che la loro nazione riceveva quei decreti non come perfetta riforma, ma come preparazione ad una intiera, sotto speranza che il papa supplirá col tempo e occasione li mancamenti, ritornando in uso li antichi canoni, o vero celebrando li altri concili generali per dar complemento alle cose incominciate. E ricercò per nome di tutti li vescovi francesi che questo fosse inserto negli atti del concilio, e ne fosse fatto pubblico instrumento. Furono diverse altre cose da altri aggionte, e fatte alcune opposizioni non di gran momento ad alcuni altri delli capi; sopra le quali nascendo qualche differenze, per esser l’ora tarda (che giá erano le due di notte), fu detto che si accomoderebbe in congregazione [p. 334 modifica] generale. E per fine della sessione fu letto il decreto di intimazione della seguente per li 9 decembre, con potestá di abbreviarla, esplicando che s’averebbe trattato del sesto capo, differito per allora, e degli altri capi di riforma esibiti, e d’altre cose pertinenti a quella; aggiongendo che, se parerá opportuno e il tempo lo comporterá, si potrá trattar di alcuni dogmi, come saranno proposti al suo tempo nelle congregazioni.

La dottrina del sacramento del matrimonio conteneva: che Adamo prononciò il legame del matrimonio esser perpetuo, e che due sole persone possono esser congionte con quello: cosa che fu dichiarata piú apertamente da Cristo, il qual anco con la sua passione ha meritato la grazia per confermarlo e santificar quelli che si congiongono. Il che è accennato da san Paolo, quando disse «quello esser gran sacramento in Cristo e nella Chiesa». Laonde, eccedendo il matrimonio nella legge evangelica li vecchi maritaggi in questo di piú, che è la grazia, meritamente è numerato per uno delli sacramenti della nuova legge. Onde la sinodo, condannando le eresie in questa materia, statuisce li anatematismi:

I. Contra chi dirá che il matrimonio non sia uno delli setti sacramenti, instituito da Cristo, e non conferisca la grazia;

II. Che sia lecito alli cristiani aver piú mogli insieme, e questo non esser proibito da alcuna legge divina;

III. Che li soli gradi di consanguinitá e affinitá espressi nel Levitico possono annullar il matrimonio, e che la Chiesa non possi aggiongerne altri né dispensar in alcuno di quelli;

IV. Che la Chiesa non possi statuir impedimenti, o aver fallato nel statuirne;

V. Che uno delli coniugati possi scioglier il matrimonio per eresia, per molesta conversazione, o volontaria absenza dell’altro;

VI. Che non si sciolga il legittimo matrimonio non consumato per la solenne professione religiosa;

VII. Che la Chiesa abbia fallato, insegnando che per l’adulterio non può esser disciolto il legame matrimoniale; [p. 335 modifica]

VIII. Che la Chiesa commette errore, separando li maritati a tempo terminato o indeterminato quanto alla congionzione carnale, o quanto all’abitar insieme;

IX. Che i chierici di ordine sacro o i professi regolari possino contraer matrimonio, e che tutti, che non sentono il dono della castitá, possino maritarsi, essendo che Dio non nega il dono a chi glielo dimanda;

X. Chi anteponerá lo stato coniugale a quello della virginitá o castitá;

XI. Che la proibizione della solennitá nuziale in certi tempi dell’anno sia superstizione, o dannerá le benedizioni e altre ceremonie;

XII. Che le cause matrimoniali non pertengono alli giudici ecclesiastici.

Li decreti della riforma del matrimonio contenevano:

I. Che quantonque sia cosa certa che li matrimoni secreti sono stati veri e legittimi mentre la Chiesa non li ha annullati, e che la sinodo anatematizza chi non li ha per tali, insieme con quelli che asseriscono li matrimoni contratti dai figliuoli di famiglia senza il consenso de’ padri esser nulli, e che i padri possono approvarli e reprovarli; nondimeno la Chiesa santa li ha sempre proibiti e detestati. E perché le proibizioni non giovano, la sinodo comanda che il matrimonio, inanzi sia contratto, sia denonciato nella chiesa tre giorni di festa; e non scopertosi alcun impedimento, si celebri in faccia della chiesa, dove il parroco, interrogati l’uomo e la donna, udito il loro consenso, dica: «Io vi congiongo in matrimonio in nome del Padre, Figlio e dello Spirito Santo», o usi altre parole consuete in quella provincia. Remise però la sinodo all’arbitrio del vescovo il tralasciar le denonciazioni; ma dechiarò inabili a contraer matrimonio quelli che tentassero contraerlo senza la presenza del parroco o altro prete di tal autoritá, e doi o tre testimoni, irritando e annullando tali contratti con pena alli contraffacenti. Dopo esorta li congiugati a non abitar insieme inanzi la benedizione, e comanda al parroco di aver un libro, dove li matrimoni cosí [p. 336 modifica] contratti siano scritti. Esorta li congiugati a confessarsi e comunicarsi inanzi il contratto o la consumazione del matrimonio; reserva le consuetudini e ceremonie di ciascuna provincia, volendo che il decreto abbia vigore trenta di dopo che sará pubblicato in ciascuna parrocchia.

II. Intorno li impedimenti matrimoniali afferma la sinodo che la moltitudine dei decreti causava gran peccati e scandoli; però restrinse quello della cognazione spirituale a quello che è tra il battizzato e padre e madre di quello con li padrini, e il numero di questi ad un uomo e una donna solamente, il medesino ordinando quanto alla parentela che nasce per il sacramento della confermazione.

III. L’impedimento dell’onestá, che ha origine dalli sponsali, lo restrinse al suo primo grado.

IV. Quello dell’affinitá fornicaria al primo e secondo.

V. Sopra le dispense del giá contratto matrimonio levò la speranza di quelle alli contraenti scientemente in gradi proibiti, e a quelli che anco ignorantemente avessero contratto senza le solennitá. In caso di probabile ignoranzia, si possi conceder dispense gratuitamente. Ma per contraerlo in gradi proibiti, o vero non si dia mai dispensa, o vero rare volte con causa, e senza spesa; né meno nel secondo grado, se non tra gran principi per causa pubblica.

VI. Che non possi esser contratto matrimonio con una donna rapita, mentre sará in potestá di chi la rapí: dichiara li rattori e chi li assiste di consiglio, aiuto o favore, scomunicati, infami e incapaci d’ogni dignitá; e chi averá rapito donna, o pigliandola o non pigliandola in moglie, sia tenuto dotarla ad arbitrio del giudice.

VII. Ordinò che li vagabondi non siano admessi a’ matrimoni, se non fatta diligente inquisizione, e con licenza dell’ordinario, esortando li magistrati secolari a punirli severamente.

VIII. Contra li concubinari ordinò che, ammoniti tre volte dall’ordinario, non si separando, debbiano esser escomunicati; e perseverando anco un anno dopo la censura, [p. 337 modifica] l’ordinario proceda contra loro severamente: e le concubine dopo tre ammonizioni siano punite e, parendo cosí al vescovo, scacciate dalle terre anco con l’aiuto del braccio secolare.

IX. Comandò in pena di scomunica a qualonque signore temporale e magistrato di non costringer li sudditi o qualsivoglia altri direttamente o indirettamente a maritarsi.

X. Restrinse le proibizioni antiche della solennitá delle nozze dall’Advento all’Epifania, e dalle Ceneri all’ottava di Pasca.

Li decreti di riforma, non nel modo che furono letti in sessione, ma come corretti il giorno seguente la sessione nella congregazione, come s’appuntò di dover fare, contenevano:

I. Che, vacante la chiesa, siano fatte pubbliche preghiere; che chi han alcuna ragione di metter bocca nella promozione siano ammoniti di peccato mortale, se non useranno ogni diligenzia acciò siano promossi quelli che giudicano piú degni e utili alla Chiesa, nati di legittimo matrimonio e ornati di vita, etá, dottrina e altre qualitá requisite dai sacri canoni e dai decreti di quel concilio. Che in ciascuna sinodo provinciale, con approbazione del pontefice, sia prescritta una propria forma dell’esamine conveniente a ciascun luoco da usarsi; e secondo quell’esamine fatto, sia mandato al papa per esser discusso dalli cardinali e proposto in consistoro: e che tutti li requisiti, per decreto della sinodo, di vita, etá, dottrina e altre qualitá nella promozione dei vescovi siano richiesti nella creazione de’ cardinali, ancorché diaconi, li quali il pontefice, per quanto potrá comodamente, li assumerá di tutte le nazioni e idonei. In fine aggionse che, mossa la sinodo dai gravissimi incomodi della Chiesa, non può trattenersi di ricordar quanto sia necessario che il pontefice per suo debito si adoperi ad assumer cardinali eccellentissimi e provveder alle chiese di idonei pastori, tanto piú perché, se le pecorelle per negligenzia dei pastori periranno, Cristo ne dimanderá conto alla Santitá sua.

II. Che il concilio provinciale sia congregato dal metropolitano o dal suffraganeo piú vecchio, al piú longo fra un [p. 338 modifica] anno dal fine di questo concilio; e dopo, almeno ogni biennio. Che li vescovi non siano costretti all’avvenire andar alla chiesa metropolitana; che li non sottoposti ad alcun arcivescovo ne eleggano uno nella sinodo provinciale, nella quale debbia intervenire e ricevere le ordinazioni di quella; del resto rimanendo salve le esenzioni e privilegi loro. E le sinodi diocesane siano celebrate ogn’anno, intervenendovi eziandio li esenti, eccettuati quelli che sono soggetti ai capitoli generali, i quali però, avendo chiese secolari annesse, per ragion di quelle debbino intervenirvi.

III. Li vescovi siano tenuti visitar in propria persona, o per mezzo di visitatori, la diocesi ogn’anno tutta, potendo; e quando sia molto ampia, almeno in doi anni. Li metropolitani non possino visitar la diocesi dei suffraganei, se non per causa approbata nel concilio provinciale. Li arcidiaconi e altri inferiori debbino visitar in persona, e con notario assonto di consenso del vescovo; e li visitatori capitulari siano dal vescovo approvati. E li visitatori vadino con modesta cavalcata e servitú, ispedendo la visita quanto prima, né possino recever cosa alcuna, eccetto il viver frugale e moderato, il qual però li possi esser dato o in roba o in danari, dovendosi osservar il costume, dove è consueto di non ricever manco questi. Che li patroni non s’intromettino in quello che tocca l’amministrazione delli sacramenti o la visita delli ornamenti della chiesa, beni stabili o vero entrate di fabbriche, se per fondazione non li convenirá.

IV. Che li vescovi in propria persona siano tenuti predicare, e, avendo legittimo impedimento, per ministerio d’altri; il parroco ancora nella propria chiesa, ed essendo impedito, per un deputato dal vescovo, a spese di chi è tenuto o suole condurla. E questo almeno ogni dominica e festa solenne, e l’advento e quadragesima ogni giorno, o tre alla settimana. Che il vescovo ammonisca ognuno di andar alla propria parrocchia ad udir la predica. Che nessun predichi contradicendo il vescovo, il qual abbia anco cura che sia insegnata la dottrina cristiana in tutte le parrocchie. [p. 339 modifica]

V. Che le cause criminali gravi contra li vescovi siano giudicate dal papa; e se sará bisogno commetterle fuori di corte, non siano commesse se non al metropolitano o a’ vescovi eletti dal papa; né meno con maggior autoritá che di pigliar informazione, reservata al papa la definitiva. Ma le cause piú leggieri siano giudicate in concilio provinciale, o per deputati da quello.

VI. Che il vescovo possi dispensar nel fòro della conscienzia li suoi sudditi in tutte le irregolaritá e suspensioni per delitto occulto, eccetto che per omicidio volontario; e assolver da tutti li casi reservati alla sede apostolica, o in persona propria, o per un vicario, e ancora dall’eccesso di eresia: ma questo non possi esser commesso alli vicari.

VII. Che il vescovo abbia cura che inanzi l’amministrazione de’ sacramenti sia esplicato al populo la loro forza e uso, in lingua volgare, secondo la forma d’un catechismo che la sinodo componerá, il qual il vescovo fará tradur fedelmente in volgare; e che da’ parrochi sia dechiarato al populo.

VIII. Che alli pubblici peccatori sia data pubblica penitenza, potendo il vescovo commutarla in altra secreta. In ogni chiesa cattedrale sia constituito dal vescovo un penitenziero, maestro, dottor o licenziato in teologia o canonico, di etá di quarant’anni.

IX. Che li decreti del concilio sotto Paulo III e Pio IV circa il visitar li benefici esenti siano osservati nelle chiese che non sono di alcuna diocesi, quali siano visitate dal vescovo piú vicino, come delegato dalla sede apostolica.

X. Che dove si tratta di visita e correzione de costumi, nessuna esenzione o appellazione interposta, eziandio alla sede apostolica, impedisca o suspenda l’esecuzione del decretato o giudicato.

XI. Che per li titoli d’onor che si danno ai protonotari, conti palatini, cappellani regi o vero desserventi a milizie, monasteri, ospitali, non siano esenti quelle persone dall’autoritá dei vescovi, come delegati dalla sede apostolica; eccetto [p. 340 modifica] se questi resederanno nelle case o sotto l’obedienza, e li cappellani regi secondo la constituzione d’Innocenzo III. E le esenzioni concesse ai familiari dei cardinali non si estendino in quello che tocca alli benefici.

XII. Che alle dignitá che hanno cura d’anime non sia promossa persona minor di venticinque anni; e li arcidiaconi, dove si può, siano maestri in teologia, o vero dottori o licenziati in iure canonico; alle altre dignitá che non hanno cura non siano promossi minori di ventidue anni. Li provvisti di benefici curati fra due mesi siano tenuti far la professione della fede, e il medesimo li canonici; e nessun sia recevuto a dignitá, canonicato o porzione, se non sará ordinato dell’ordine sacro che quella ricerca, o vero in tal etá che possi riceverlo. Che nelle chiese cattedrali tutti li canonicati e porzionari siano presbiterali, diaconali o subdiaconali; e il vescovo col capitolo distribuisca quanti debbiano esser per ciascun ordine, ma in maniera che la metá almeno siano presbiterali. Esorta anco la sinodo che tutte le dignitá e la metá dei canonicati nelle chiese cattedrali e collegiate insigni debbino esser conferiti a dottori in teologia o in canonico, e nessun di essi possa star assente piú di tre mesi all’anno. Che le distribuzioni quotidiane sotto qualonque pretesto non siano date a chi non intervenirá agli uffici, e ognuno sia ubbligato far il suo ufficio in persona propria, non per sustituti.

XIII. Essendovi molte chiese cattedrali povere, nel concilio provinciale si deliberi il rimedio, e si mandi al papa, il quale provegga secondo la sua prudenzia. Alle povere chiese parrocchiali ancora il vescovo averá cura di provvedere o con l’unione di qualche beneficio non regolare, o con assignazione di primizie o decime, o per contribuzioni e collette delli parrocchiani. Non si possino unire chiese parrocchiali alli monasteri, canonicati, benefici semplici e milizie; e li uniti siano revisti dagli ordinari; e per l’avvenire le cattedrali che ducati mille, e le parrocchiali che ducati cento non eccedono, non siano gravate di pensioni o reservazioni de frutti. Dove le parrocchiali non hanno certi confini, ma li [p. 341 modifica] sacramenti sono amministrati indifferentemente a chi li dimanda, il vescovo faccia che siano confinate e abbiano il proprio parroco; e nelle cittá dove non vi sono parrocchie, siano erette quanto prima.

XIV. Detesta la sinodo e proibisce tutte le instituzioni o consuetudini di pagar alcuna cosa per l’acquisto de titoli o possessioni, eccetto se s’ha da convertir in qualche usi pii, dechiarando per simoniaci quelli che le usurperanno.

XV. Nelle cattedrali e collegiate, dove le prebende e distribuzioni sono troppo tenui, possi il vescovo unirvi benefici semplici, o ridurli a minor numero.

XVI. Vacante la sede episcopale, il capitolo elegga uno o piú economi, o un vicario fra termine di otto giorni; altrimenti quest’autoritá si devolva al metropolitano: e il vescovo, quando sará creato, si faccia da loro render conto dell’amministrazione, e possi punirli se averanno commesso fallo.

XVII. Che nessuna persona ecclesiastica, ancorché cardinale, possi aver piú d’un beneficio; il qual se non basta per viver onestamente, se li possa aggionger un altro beneficio semplice, purché tutti doi non ricerchino residenzia personale; il che s’intenda de tutti li benefici, cosí secolari come regolari, di qual titolo e qualitá si voglia, eziandio commendati. E chi di presente ha piú benefici curati, sia obbligato fra sei mesi, ritenutone un solo, lasciar gli altri; altrimenti tutti s’intendano vacanti. Desidera però la sinodo che sia provvisto ai bisogni dei resignanti in qualche modo comodo, come meglio parerá al pontefice.

XVIII. Succedendo la vacanza di qualsivoglia chiesa parrocchiale in qualonque modo, siano descritti tutti quelli che saranno proposti o che proponeranno se stessi, e tutti siano esaminati dal vescovo con tre esaminatori almanco, e di tutti quelli che da loro saranno giudicati idonei il vescovo elegga il piú sufficiente, al quale sia fatta la collazione della chiesa. E nelli iuspatronati ecclesiastici il patrone presenti al vescovo il piú degno; ma nei iuspatronati laici il presentato dai patroni sia esaminato dalli medesmi esaminatori, e non admesso se [p. 342 modifica] non trovato idoneo. Li esaminatori siano proposti sei ogn’anno nella sinodo diocesana, de’ quali il vescovo ne elegga tre, e questi siano maestri o dottori secolari o regolari; giurino di far bene il loro ufficio, non possino ricever cosa alcuna, né inanzi né dopo l’esamine.

XIX. Che le grazie espettative ai benefici per l’avvenir non possino esser concesse, né qualonque altre grazie che si estendino a’ benefici che vacheranno; e insieme siano proibite le reservazioni mentali.

XX. Che le cause ecclesiastiche, eziandio beneficiali, in prima instanzia siano giudicate dall’ordinario, e al piú longo terminate fra due anni. Che non si ammetta l’appellazione, se non dalla sentenzia definitiva o che abbia forza di quella, eccettuando quelle che per li canoni si debbono trattar in corte romana e quelle che il sommo pontefice giudicherá per urgente e ragionevole causa avocar a sé. Che le cause matrimoniali e criminali siano reservate al solo vescovo. Che nelle matrimoniali, quelli che proveranno di esser poveri non siano costretti litigar fuori della provincia, né in seconda né in terza instanzia, se la parte avversa non li somministrerá li alimenti e le spese della lite. Che li legati, nonci e governatori ecclesiastici non impediscano li vescovi nelle loro cause, né procedino contra le persone ecclesiastiche, se non in caso di negligenzia del vescovo. Che l’appellante sia tenuto a sue spese portar al giudice dell’appellazione gli atti fatti inanzi al vescovo, quali il notario sia tenuto dar al piú longo fra un mese per conveniente pagamento.

XXI. Che nelle parole poste nel decreto della sessione prima sotto Pio IV presente pontefice, cioè Proponentibus legatis, non fu mente della sinodo di mutar in parte alcuna il solito modo di trattar li negozi nelli concili generali, né aggionger a qualsivoglia o detraer cosa alcuna di novo, oltre quello che dai sacri canoni e dalla forma delle sinodi generali sin allora era statuito.

In fine fu intimata la sessione per il 9 decembre, con potestá d’abbreviar il tempo, per trattar del sesto capo e degli [p. 343 modifica] altri dati fuori e differiti, e, secondo l’opportunitá, de qualche dogmi ancora, secondo che nelle congregazioni sará proposto.

Non fu aspettato l’esito di questa sessione con l’aviditá che quello della precedente, sí perché allora fu empita la curiositá universale, come anco perché la materia del matrimonio non pareva che potesse portar seco cose di grand’osservazione. Piú stava il mondo attento a veder che esito dovesse aver la protesta degli ambasciatori francesi, la qual fu letta con vari affetti. Dalli poco benevoli alla corte romana fu commendata come vera e necessaria, ma dalli interessati in quella, stimata da aborrire altrettanto quanto le protestazioni per li tempi passati da Lutero fatte.

Nel sesto anatematismo del matrimonio restarono admirati molti che fosse posto per articolo di fede la dissoluzione del matrimonio non consumato per la professione solenne; poiché essendo la congionzione matrimoniale, se ben non consumata col congiongimento carnale, vincolo per legge divina instituito (poiché la Scrittura divina afferma esser stato vero matrimonio tra Maria e Gioseffo), e la solennitá della professione essendo de iure positivo, come Bonifacio VIII ha decretato, pareva cosa maravigliosa non tanto che un ligame umano sciogliesse un divino, quanto che si debbia tener per eretico chi non sentirá che una invenzione umana, nata molti centenara d’anni dopo gli apostoli, prevaglia alla divina, instituita sino dalla creazione del mondo.

Ma nel settimo fu giudicato un parlar capzioso il condannar per eretico chi dirá la Chiesa aver fallato insegnando che per l’adulterio non si sciolga il matrimonio; perché dall’un canto, se alcuno dicesse assolutamente che il matrimonio per quella causa si dissolve, senza dire né pensare che alcuno abbia o non abbia errato insegnando il contrario, parerebbe che questo non fosse compreso; ma dall’altro canto non appare come alcuno possi cosí sentire, senza aver il contrario per errore. Era creduto che bisognasse parlar chiaro, e dir assolutamente che per l’adulterio non si dissolve; o vero che ambedue le opinioni sono probabili, e non far un articolo con verbo de verbo. [p. 344 modifica]

Ma questi forse non averebbono promosso la difficoltá, quando avessero saputo le cause narrate di sopra, perché si parlò in quella maniera.

Il nono canone diede da dire con quell’affirmativa che Dio non nega il dono della castitá a chi drittamente lo dimanda, parendo contrario all’Evangelio, che rafferma non dato a tutti; e a san Paulo, che non esortò a dimandarlo, il che era piú facile che maritarsi.

Li politici restarono molto sospetti per il dodicesimo anatematismo: che sia eresia tenere che le cause matrimoniali non appartengano a’ giudici ecclesiastici; essendo certo che le leggi dei matrimoni tutte furono fatte dagl’imperatori, e li giudici in quelle cause amministrati dalli magistrati secolari, sin tanto che le leggi romane ebbero vigore; il che la sola lettura delli codici teodosiano e giustiniano e delle Novelle lo demostra evidentemente; e nelle formule di Cassiodoro restano memorie delli termini usati dalli re goti nelle dispense delli gradi proibiti, che allora erano riputate appartenere al governo civile, e non cosí di religione. E a chi ha cognizione dell’istoria è cosa notissima che li ecclesiastici sono entrati a giudicar cause di quella natura, parte per concessione e parte per negligenzia delli príncipi e magistrati.

Ma nel primo ingresso del decreto della riforma del matrimonio molti restarono suspesi, intendendo a difinire come articolo di fede che li matrimoni clandestini erano veri sacramenti, e che la Chiesa li ha sempre detestati; essendo cosa molto contradittoria aver sacramenti detestabili. E l’aver comandato che il parroco interroghi li congiugati e, inteso il loro consenso, dica: «Io vi congiongo in matrimonio in nome del Padre, Figlio e Spirito Santo», era deriso dai critici con dire: o senza queste parole sono congionti, o no; se no, adonque non è vero quello che il concilio fiorentino ha determinato: «il matrimonio recever la perfezione dal consenso»; se sí, che congionzione è quella che il parroco fa di persone giá congionte? E se il «congiongo» fosse interpretato: «dichiaro congionti», si venirebbe ad aprir una porta per concludere che anco le [p. 345 modifica] parole dell’assoluzione siano declaratorie. Comonque questo fosse, dicevano il decreto non esser fatto per altro, se non per far fra poco tempo un articolo di fede che quelle parole dal parroco prononciate siano la forma del sacramento.

Della irritazione dei clandestini non fu meno che dire di quello che era stato nel medesmo concilio, lodando altri il decreto sino in cielo, e dicendo altri che se quella sorte de matrimoni erano sacramenti, e per consequenza instituiti da Cristo, e la Chiesa in ogni tempo li ha detestati e finalmente li ha annullati, non si sapeva vedere come questo fosse senza notar o d’inconvenienzia o almeno di negligenzia quelli che da principio non vi provvidero. E quando uscí fama della distinzione sopra qual fu il decreto fondato, che si annullava il contratto, che è materia del sacramento, fu cosa difficile per molto tempo far capire che il contratto matrimoniale abbia nessuna distinzione dal matrimonio e il matrimonio dal sacramento, e massime che il matrimonio prima fu indissolubile che sacramento, poiché Cristo nostro Signore non lo prononciò insolubile come instituito da lui, ma come instituito da Dio nel terrestre paradiso: e pur admettendosi che il contratto matrimoniale sia una cosa umana e civile separata dal sacramento, la qual sia annullata, dicevano altri che l’annullazione non toccherebbe all’ecclesiastico, ma al secolare, a cui tocca l’ordinazione e cognizione di tutti li civili contratti.

La ragion allegata per moderar gl’impedimenti matrimoniali era molto lodata per ragionevole, ma insieme osservato che concludeva necessariamente molto maggiori restrizioni delle decretate, non seguendo minor inconvenienti per gl’impedimenti confirmati che per gli aboliti. Il fine del capo delle dispense matrimoniali mosse nelli curiosi una vana questione: se il pontefice romano, coll’aversi assonto di concederle egli solo, aveva ricevuto maggior frutto o danno nell’autoritá sua. A favor del frutto si allegava la quantitá grande d’oro che per questo canale era colato in corte, e le obbligazioni di tanti principi acquistate con quel mezzo, cosí per restar essi sodisfatti nei loro appetiti o interessi, come anco per esser [p. 346 modifica] tenuti a defender l’autoritá pontificia, sopra quale sola resta fondata la legittimitá delli figli. Ma dall’altro canto per il danno si metteva la perdita delle entrate d’Inghilterra e dell’obedienzia di quella corona, che contrappesavano ogni guadagno e ogni amicizia per le dispense guadagnate.

Li francesi reprendevano il decreto che chi ruba donna sia tenuto dotarla ad arbitrio del giudice, dicendo che la legge sopra le doti non può essere fatta per autoritá ecclesiastica, e che era un artificioso modo di levar la cognizione di quel delitto al secolare; perché se tocca all’ecclesiastico far la legge, tocca anco il giudicar la causa; e se ben si diceva assolutamente ad arbitrio del giudice, non esser da dubitare che dechiarando averebbono inteso del solo giudice ecclesiastico. E riputavano usurpazione dell’autoritá temporale il punir li secolari d’infamia e d’incapacitá alle degnitá. Parimente non approvarono l’ordinazione contra li concubinari perseveranti in scomunica un anno, che siano puniti dall’ecclesiastico; perché l’estrema, ultima e massima delle pene ecclesiastiche è la scomunica, secondo la dottrina di tutti li Padri; onde il voler passar oltre quella, esser entrar nella potestá temporale; e tanto piú quanto se gli dá facoltá di scacciar le concubine dalle terre, deridendo la potestá secolare con implorar il braccio se fará bisogno: che è un affirmar che per ordinario si possi venir ad esecuzione di questa esulazione dal medesimo ecclesiastico.

Il decreto della reforma nel primo capo era notato o di mancamento o di prosunzione, atteso che, se l’autoritá della sinodo si estende in dar legge al papa, massime in cose tanto debite, non era giusto farlo in forma di narrativa e con obliquitá di parole. Se anco la sinodo ha da recever le leggi dal pontefice, non si poteva scusare di non aver passato li suoi termini; poiché se ben obliquamente, tuttavia però acremente riprende le passate azioni di quel e d’altri pontifici. Dicevano li periti dell’istoria ecclesiastica il tirar a Roma tutte le cause dei vescovi esser una nova polizia per aggrandir sempre piú la corte, poiché tutti li esempi dell’antichitá e li canoni delli [p. 347 modifica] concili di quei tempi mostrano che le cause de’ vescovi, eziandio le deposizioni, si trattavano nelle regioni di ciascuno. Quelli che aspettavano qualche provvisione sopra l’introdotto abuso delle pensioni, veduto quello che ne fu decretato nel decimoterzo capo, giudicarono che la materia dovesse passar a maggior corruzione, come l’evento anco ha dimostrato.

Il decimoquarto capo era da ognuno lodato, parendo che avesse levato le annate e il pagamento delle bolle che si spediscono a Roma per la collazione dei benefici; ma in progresso di tempo, essendosi veduto che quelli restarono in piedi, né mai si pensò né a levarli né moderarli, s’accorsero che si levano solo li piccioli abusi delle altre chiese, restando verificato che dagli occhi si levano le sole festuche, non mai li travi. Dello statuto dell’unitá o al piú dualitá de’ benefici, da ogni persona savia fu giudicato che questo secolo non era degno, e che non sarebbe servato se non in qualche miseri. Similmente l’esame in concorso nella collazione delle parrocchiali ognuno pronosticava che dovesse con qualche sinistra interpretazione esser deluso. E la profezia si verificò ben molto presto, perché non si stette troppo in Roma a dechiarare che non s’aveva da osservare concorso in caso di resignazione, ma esaminar il solo resignatario: che fu un abolir il decreto per la maggior parte, poiché con la resegna i migliori sono esclusi, e preferito quello che piú piace al resignante, e non vacano li benefici per altra causa se non casualmente. Il decreto della cognizione delle cause in prima instanzia, con l’eccezione soggiorna, cioè eccetto quelle che il papa vorrá commetter o avocare, esser affatto destrutto, perché non furono mai levate le cause alli legittimi tribunali, se non per commissioni e avocazioni ponteficie; e ora, conservando la causa del male, si medicava il sintoma solamente; e se ben quell’aggionzione: «per causa urgente e ragionevole» pareva che regolasse, però li intendenti sapevano molto bene che tanto quelle parole significano, quanto se dicessero: «per qualonque arbitraria causa».

Ma dell’ultimo capo, che giá tanti mesi era stato sotto [p. 348 modifica] l’espettazione, toccando nell’essenziale la libertá del concilio, vedendosi dechiarato non esser stata la mente della sinodo di mutar il modo di trattare né aggionger o sminuir cosa alcuna di novo alle vecchie ordinazioni, fu dalle persone savie detto che, per quanto a questo concilio tocca, era una dechiarazione contraria al fatto, e pubblicata quando piú non giovava né piú si poteva servirsene, come medicina applicata al corpo morto. E altri ridendo aggiongevano che era un consolare il buon uomo, la cui moglie avesse fatto figli con altri, dicendo non fu per farli torto. Ma per l’esempio dato alli posteri insegnava come nelli concili si potesse da principio a fine usar ogni violenza ed esorbitanza, e con una tal dechiarazione iscusare, anzi giustificar ogn’inconvenienza fatta, e sostenerla per legittima.