XV. Attila, re degli Unni

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XIV XVI
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XV.


ATTILA, RE DEGLI UNNI.


Stupore!

Esco dallo studio dell’avvocato, e incontro per il corso la contessina con la madre.

Innebriante! Trionfale! Porta un bastoncino, ha grandi piume, pare la figura della Tosca. [p. 115 modifica]Accanto alla sua magnificenza saltellava sui tacchi lucidi il poeta Cioccolani, come un cagnolino al guinzaglio. Era anche lui, come me, tutto primaverile.

È prima la contessina a fermarmi per ringraziarmi dei marrons glacés e del mio bellissimo madrigale.

— Ma si copra, la prego.

Io ero rimasto col capo rigorosamente scoperto, con molta ammirazione dei buoni provinciali, e soltanto al suo comando deposi la maggiostrina su la mia lucida capigliatura.

— Ma lor due non si conoscono? — domanda la contessina.

— Mi pare, mi pare, — fa il poeta Cioccolani.

Parlava con l’erre moscio. — Mo’ vada là che mi conosce! — dico io.

La contessina lo scusa, dicendo che lui va soggetto a distrazioni incredibili.

Bella maggia questo poeta, come dicono a Milano.

— Se lei mi permette, contessina, io devo farle un secondo madrigale: la sua presenza illumina di vibrazioni moderne queste vie da medio-evo. Il Comune le dovrebbe dare, almeno, un diploma di benemerenza.

A questo mio complimento la contessina scoppia in una serie di “Ah! ah! ah!„ così [p. 116 modifica]squillante che la gente si volta a guardare. Ma lei ride finchè ha finito. Quando ha finito, mi dice:

— Il Comune? Il Comune socialista qui di P***? Se potesse, mi darebbe lo sfratto. Dica, dica lei, Cioccolani.

— La fine di Giovanna d’Arco — dice il poeta.

Je m’en fiche — dice la contessina.

La contessa madre, che ha inteso rumore, si fa tradurre all’orecchio il mio madrigale, e lo trova molto appropriato. Mi vuole far sapere personalmente che nell’evo-medio i suoi antenati camminavano per le strade di P*** come su di un proprio feudo.

*

Ci soffermiamo alla solita pasticceria. La vecchia prende un mélange con molto latte, perchè con molta cioccolata, perchè con molto zucchero, perchè con molte paste. La contessina prende un tè molto frappé: il poeta solo del gelo, cioè un gelato.

(Io mi sono servito qualche volta di un poeta per fare versi per le mie réclames. Era un uomo spettrale, che beveva liquidi inflammabili. D’altronde è notorio che i poeti si nutrono di eccitanti).

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Manifesto questa opinione: ma non è approvata.

— No, no, no, liquori! — esclama la contessina. — Precisamente il contrario. Ora poi che Cioccolani è in istato di grazia e di martirio, guai se prendesse eccitanti.

Domando se il signor Cioccolani sta poco bene.

— Sta creando — dice la contessina.

Mi permetto di domandare che cosa sta creando.

Cioccolani si è irrigidito e non risponde.

— Un poema drammatico — risponde per lui la contessina.

— In prosa o in versi? — domando io.

Il poeta fa una smorfia di disgusto.

— Superato! In prosa lirica — dice la contessina.

— Ah, benissimo — dico io. — E sarebbe?

— L’Attileide, o Attila re degli Unni, ossia la lotta delle stirpi.

— Press’a poco come adesso — dico io.

— Vedete, vedete? — esclama la contessina. — Vedete, Cioccolani, che capisce anche lui?

(Lui sarei io.)

— Raccontate, raccontate Cioccolani, quante persone vi saranno su la scena.

— Più di trecento — dice allora Cioccolani: — Unni coperti di pardalidi, vescovi mitrati, [p. 118 modifica]cavalle avare, nazarei con le cesarie intonse, gli ultimi legionari romani, le vergini di Santa Genoveffa. La tragedia si svolge in tre grandi stazioni; la prima ad Aquileja, la seconda sui campi Catalaunici, la terza in una cattedrale di Pannonia. Sinceramente, donna Ghiselda, mi sarebbe necessaria almeno una gita ad Aquileja per qualche studio archeologico: ma adesso le autorità militari frappongono difficoltà....

— Scusi — mi permetto di osservare, — ma mi pare che Attila re degli Unni sia un personaggio poco simpatico.

Il poeta non risponde: ma la contessina si infiamma: — Poco simpatico Attila? Ah! Il magnifico genio della stirpe, il purificatore sublime!

Mi permetto di non capire.

È semplice — risponde la contessina. — Attila è la Nemesis, che purifica con l’esterminio l’umanità.

— Mi dispiace, ma non posso condividere questa opinione.

— La guerra, egregio signore — dice Cioccolani, — è nient’altro che la catarsi dì purificazione: l’olocausto offerto ai genî oscuri delle stirpi.

Senonchè a questo punto il poeta Cioccolani mutò voce: — Ma cameriere, cameriere, venite qui: è inaudito!

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Ha trovato una cosa nera nel gelato bianco.

— Cosa c’è in questo gelato? Guardate! — E presentò al cameriere la cosa nera su la punta del cucchiaino.

Una mosca!

Disputa se è una mosca. È una mosca constatata.

La contessa madre, che finora ha vuotato mezzo il cestello delle paste, si sveglia e vuol vedere.

— Orrore! Una mosca!

Seconda disputa col cameriere se la mosca era caduta allora, o durante la mantecazione del gelato.

La contessa madre vuole interloquire e dice misteriosamente: — Adesso gli operai fanno apposta a mettere le porcherie nelle robe che devono mangiare i signori.

Terza disputa se è stato quel cameriere oppure un altro cameriere a portare il gelato. — Ma pretendete forse — dice Cioccolani — che io vi guardi in faccia per vedere chi è il cameriere che mi serve? Io constato una mosca. Ignorate, o ignorante, quanti milioni di microbi si nascondano sotto le ali di una mosca?

Non dice mica male; ma mi pare che si possa risolvere la questione con l’ordinare un secondo gelato: e così il pericolo della mosca è eliminato.

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— La guerra — riprese Cioccolani immergendo la paletta del cucchiaino nella crema del gelato, — la guerra è sempre un’opera di purificazione.

— Sarà benissimo. Però scusi, signor Cioccolani — mi permetto di osservare, — io credo che questa sua tragedia non potrà avere oggi un gran successo. Qualche anno fa era di moda la Germania, e andava bene. Ma adesso...! Pensi che questo inverno, a Milano, è uscita appunto una satira contro la Germania, col titolo a un di presso come il suo... (Ma cosa hanno da ridermi in faccia tutti e due mentre parlo?)

— Ah! ah! ah! — fa Cioccolani.

— Ah! ah! ah! — fa la contessina.

Mi pare che ridano alle mie spalle.

Quando hanno finito di ridere, la contessina mi spiega: — Ma non è Attila che vince! Chi vince è Roma, cioè il genio latino.

— Allora siamo a posto.

— La potenza della tragedia è immensa, — mi spiega la contessina. — Lei sa che quando Attila si presentò ad Aquileja, sopra il cavallo, sotto la cui unghia non crescerà filo d’erba, la cosa era molto grave.

— Lo credo bene.

— I cristiani con qualche secolo di [p. 121 modifica]predicazione pacifista avevamo smobilitato l’esercito delle legioni romane: ma la venuta dì Attila richiama il Papa sul terreno della realtà. Che cosa deve fare il Papa? Mobilitare! ma che cosa mobilita? Non c’è più esercito. Allora, secondo una leggenda, popolare anche oggi, ricorre a San Pietro e San Paolo. Ma che cosa vuole che potessero fare San Pietro e San Paolo? La leggenda cristiana dice che San Pietro e San Paolo fermarono Attila. Ciò è assurdo: Attila è il principio antitetico al Cristo: l’uno illumina l’altro, niente più! Attila, fin che può, va avanti e non indietro. Lei capisce benissimo che il giorno in cui Attila accetta di farsi frate, la storia si ferma come un orologio che ha consumata la carica. Mi guarda, signor Sconer?

Io la guardavo infatti, un po’ inebetito.

— No! non è il Papa con le sue ideologie, — proseguì la contessina, — che ferma Attila; è una donna sublime, santa Genoveffa, che con la clava spacca la testa di Attila, e allora Attila capisce subito, ed è anche fermato.

— Che vorrebbe significare — dico io — che, per persuadere i tedeschi, non c’è che un mezzo: spaccare la testa.

— Sì! sì! sì! Vedete, Cioccolani? Capisce anche lui. Capiranno anche le turbe.

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(Lui sarei sempre io. Non è lusinghiero).

— Scusi, contessina — domando, — Attila è veramente morto così?

— Attila veramente è morto in un congresso carnale in Pannonia; ma è stato Cioccolani a ricavare da questo fatto comune un altissimo significato simbolico.

Cioccolani è commosso, benchè silenzioso. Io mi congratulo con lui.

— Lo rappresentano a Milano questo dramma?

— A Milano? — dice allora Cioccolani. — Questo dramma non può essere rappresentato che a Roma, il centro della latinità.

— È il dramma — dice la contessina — che deve destare l’anima delle turbe romane.

— Questa — mi permetto di obbiettare — credo che sia una cosa difficile, commuovere i romani.

— L’arte può tutto!

— Allora non parliamone più.

A questo punto Cioccolani guarda l’orologio sul braccialetto e dice: — Sono le undici. La messa è già cominciata. Venite, basilissa?

— Mi dispiace; c’è mammà che è un po’ debole.

(Mi ha vuotato un cestino di paste e la chiama debole!)

Il poeta se ne va.

— Anche il signor Cioccolani è così religioso?

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— Veramente Cioccolani — risponde la contessina — va a sentire la messa cantata per inspirarsi per il terzo atto dell’Attileide. Vedete, Sconer: la messa cantata contiene elementi lirici e drammatici di primissimo ordine che agiscono su le turbe. Le turbe non capiscono niente, ma si muovono con la suggestione lirica. I versi di Cioccolani sono come la messa cantata: non sono versi, sono ponti lirici, su cui le turbe devono passare. Devono! Il brivido panico, il furore dionisiaco investe le turbe, e passano là dove vuole il poeta. — Qui la contessina si fermò, guardò con occhi strani, e poi disse: — Ah voi, ma che dico voi, nessuno può comprendere quale tragedia interiore si è svolta nell’anima di Cioccolani, e anche nella mia!

Non capisco; e si deve vedere che non capisco, perchè mi domanda:

— Conosce lei i Canti Ermetici di Cioccolani?

— Mi dispiace....

— È stata la sua prima affermazione lirica: il suo cervello è radio!

(Un milione al grammo!)

— Ebbene, i Canti Ermetici sono passati inavvertiti in Italia. L’Italia ignora Cioccolani! Ma non è ignorato in Germania: in una Geschichte der jungen futuristichen italienischen Literatur, [p. 124 modifica]Cioccolani è elencato tra i guerrieri più audaci, die tapfersten Soldaten che hanno spezzato il marmo sepolcrale della tradizione. Lei capisce benissimo che unicamente per questo fatto Cioccolani conserva un obbligo di gratitudine verso la Germania....

— Scusi, contessina, anch’io sono sempre stato in ottimi rapporti con le ditte tedesche, ma mi sembrano un po’ macellai.

— È la caratteristica dei grandi popoli, — risponde con indifferenza.

Io guardo quel suo volto con sempre maggior stupore. Ella, mentre così parla, prende con la mano la tazza del tè: con voluttà versa il contenuto giù nella gola. Sento un gorgoglio. Con la lingua ripassa su le labbra. Tè, liquore, sangue: quella donna mi pare avida di voluttà.

— Inoltre, — riprese ella, — noi amiamo la Germania; noi invidiamo (lei naturalmente non lo andrà a riferire) questa élite di guerrieri, di politici e di scienziati, che fanno marciare tutti i senza-patria del mondo in servizio dell’unica patria germanica! Ebbene, noi abbiamo sacrificato questi nostri sentimenti personali, io e Cioccolani: e siamo al servizio d’Italia, di questa democrazia che è il regno dell’incompetenza. Questa è la nostra tragedia! Ma cosa vuole? [p. 125 modifica]Noi siamo nobili e il nostro dovere è di sacrificarci.

È strano! Ma anche avendo un cervello ordinato metodico come è il mio, viene un senso di capogiro. Desidero prendere commiato.

— Torna a Milano? — mi domanda.

Dico alla contessina che ho preso in affitto, per la mia genitrice, un piccolo chalet.

— Verremo una sera con Cioccolani e le faremo conoscere i Canti Ermetici.

— Contessina, scusi, quel basilissa che dice Cioccolani, cosa vuol dire?

— Parola bizantina, vuol dire regina.

*

Finalmente sono solo. Vado in cerca della mia anima. Oh, povero Ginetto Sconer! E io stavo per sposare quella donna così istruita. Ma io sarei finito in una casa di salute!