Il sorbetto della regina/Parte seconda/XIV
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CAPITOLO XIV.
La regina si diverte.
La sventura si era posata sullo stabilimento del conte Ruitz di Llamanda. Il nuovo pensionario che aveva impegnato, aveva fatto pessima riuscita. Questo Tedesco era un ubbriacone, puzzava di pipa a dieci leghe, era sempre sudicio ed, oltre tutto questo, aveva osato alzar la mano sulla principessa.
Questo tratto era forse un distintivo del carattere nazionale, poichè dicevasi che un altro Tedesco, il barone di Schmurgar, usava degli stessi modi con una donna augusta.
Era stato, quindi, mestieri allontanare Franz Hobermann dallo stabilimento, riconducendolo con garbo, fino a che non giungesse il momento di regalare al galuppo un colpo di coltello nella pancia. Poi era giunta la notizia dell’assassinio di Cecilia. Il conte se n’era assai mediocremente rammaricato, affliggendosi piuttosto degli scudi che Fuina gli aveva giuntati, insieme alla principessa di Kherson.
Imperocchè nè l’uno nò l’altra non dubitavano punto che Faina fosse uno dei soci della compagnia, di cui il conte d’Altamura era il capo, e l’una e l’altro avevano dato del denaro a questo segugio di polizia — avendo interesse di trovare le traccie di Cecilia — il conte per riprenderla e così tirare a sè nuovamente Bruto, la principessa per farla sparire, forse, poichè ella comprendeva che Bruto l’amava.
La regina madre, supplicata da Ruitz, aveva ordinato al ministero della polizia di proseguire con energia questo affare; e gli è per questo che sua eccellenza aveva incaricato Fuina delle ricerche. Ma l’infedeltà di questo agente essendo stata constatata, lo si era punito.... Fu mandato come agente secreto per sorvegliare i proscritti napoletani a Parigi ed a Londra.
Le disgrazie del signor Ruitz frattanto non erano per anco finite. Egli non si aspettava mica al certo che la perdita di Cecilia spingerebbe Bruto alla disperazione. Pure, un po’ di commedia di dolore avrebbe lusingato la sua vanità. Ora, invece, se Bruto non si rallegrò della libertà che quella morte gli apportava, codesta morte gli dava respiro.
Nel fondo del cuore, Bruto era sempre perseguitato dall’imagine di quella donna che aveva realizzato per lui il supplizio di Tantalo. Ma il solletico delle pupille voluttuose si calmava d’ora in ora. Ed una rivelazione di don Gabriele accelerava il ritorno della sua tranquillità.
Don Gabriele gli mostrò le lettere che Ondina gli aveva scritte da Parigi, tutte piene di amore e di progetti d’idilli.
La povera Lena o Ondina ignorava completamente la storia di Cecilia.
Ella amava Bruto d’un amore semplice, senza tamburi e senza trombette, nell’istesso modo che si respira la vita aprendo la bocca, che si guarda il cielo aprendo gli occhi. Le lettere così semplici, così confidenti di Ondina, lette una dietro l’altra senza prender flato, produssero in Bruto come una specie di barbaglio, di vertigine. Qualche cosa ch’era chiuso si aperse in lui. Egli comprese che l’amore non è sempre la delizia dei sensi. Ei si sentì aleggiare nelle zone temperate del marito, senza passare per l’atmosfera infiammata dell’amante.
Ruitz ebbe vento di tutto ciò, e ne fu indispettito. Nel fondo del suo cuore, egli non aveva ancora forse rinunziato a Bruto e, più il suo stabilimento passava per vicissitudini volgari, più egli rimpiangeva il tempo in cui Bruto l’aveva retto con tanta dignità. Questo matrimonio ora era una conclusione, un’offesa impiantata sur un disinganno, e tutti e due innestati sur un danno. Ruitz comunicò questa notizia alla principessa, la quale ricordava sempre Bruto senza rancore e si mostrava inesorabilmente implacabile contro di lui, Ruitz, per l’infame traffico che aveva fatto di sua figlia.
Ruitz capì che la principessa era gelosa, che ella aveva forse sorpreso nel cuore di Bruto qualche palpito d’amore per Cecilia e ch’ella attribuiva la lontananza del medico a codesto amore.
Che trionfo ora, che giustificazione, se egli le apprendesse che Bruto sposava la donna, cui per anni, aveva tenuta nascosta nei ripieghi i più reconditi del cuore.
Ruitz, dunque, parlò. Egli credeva presentare soltanto la sua giustificazione, ed egli portava un colpo spaventevole: e demoliva la speranza di una donna a quarant’anni. La principessa, non pertanto, non fiatò motto. Sanguinò all’interno: ciò che è il peggiore di tutte le ferite, come il sorriso senza schiudere le labbra è il più disgraziato dei sorrisi.
La principessa partì quel giorno più presto del solito. Ruitz andò alla Reggia onde fare ispezione de’ suoi canarini.
Alla Corte, dalla regina madre, egli udì parlare di Ondina. Per lui Bruto e Ondina non formavano che un odio a due teste.
Si raccontavano le avventure di quella giovane, ed in che modo l’ambasciatore di Francia era andato a prenderla al battello a vapore. Si rimontava a ciò che aveva fatto a Parigi pel colonnello, l’incendio che aveva destato contro la Corte di Napoli, il successo straordinario che aveva ottenuto al Teatro Italiano. Questa catena di fatti svegliò un’idea, o meglio un desiderio nello spirito della regina Urraca. — Vorrei proprio udir cantare codesta donna, diss’ella.
Desiderare, per una testa coronata, è comandare.
Senza dir altro, la regina si pose allo scrittoio e, tanto peggio per l’ortografia e la grammatica, scarabocchiò il suo invito autografo. Però non lo spedì. Ondina si trovava in una posizione eccezionale. La regina poteva dessa, diplomaticamente, invitarla e riceverla?
Attese.
Dormì su questa idea onde meglio maturarla. Ella premeditava l’invito, avvegnacchè Ruitz, che conosceva il desiderio di Sua Maestà, la spingesse forte a dargli corso. La regina non fece attenzione all’incoraggiamento audace di quel lacchè, e per ricordargli forse ciò ch’egli fosse, gli disse:
— Ruitz, vieni a mostrarmi i miei canarini ed a presentarmi i neonati.
Ruitz accompagnò Sua Maestà in questa ispezione e l’intrattenne a lungo sul canto di quelle creaturine susurrone. Ciò, forse, stuzzicò ancor più il desiderio reale.
Ritornando dalla visita dei canarini, Sua Maestà suggellò convulsivamente la lettera, che fu inviata all’indomani.
Il giorno indicato, a ott’ore della sera, una carrozza della Corte andò a cercare Ondina.
Fu introdotta immediatamente nell’appartamento della regina, ove questa l’attendeva già, in mezzo alle sue figlie e a due o tre dame di compagnia. La regina Urraca — quantunque spagnola — andò incontro graziosamente alla cantante e la ringraziò di essere venuta. Ondina le dimandò la grazia di baciarle la mano. Le giovini principesse la circondavano.
— Madamigella, disse la regina, abbiamo letto nei giornali e ci sono state raccontate delle cose così maravigliose della vostra voce che non abbiamo potuto resistere al desiderio di udirvi. Ho voluto procurare questo piacere anche alle mie figliuole.
— Grazie a Vostra Maestà, rispose Ondina assai confusa; se potrò darle il piacere che lei attende da me, ne sarò molto felice.
La regina se la fece sedere accanto con molta semplicità e le indirizzò qualche domanda sui parenti e sulla vita di lei. Ondina rispose con convenienza, vale a dire, velando molte cose. Si presero dei rinfreschi. Poi la regina condusse Ondina in un piccolo salotto addobbato di raso azzurro a strisce bianche, ov’eravi un magnifico pianoforte viennese.
Volendo dare alla riunione un’aria d’intimità, Sua Maestà non aveva neppur fatto venire un accompagnatore. Una dama di compagnia, che suonava benissimo, assunse quest’ufficio e si pose al clavicembalo.
Ondina chiese alla regina quale musica preferisse, e che maestro le fosse più gradito tra Bellini, Rossini, Donizetti, Mercadante, Ricci e Raimondi.
— Tutto ciò e nulla di tutto ciò. Amo ciò che è bello e melodioso e tenero. Una musica che è altra cosa che dolcezza e malinconia può esser bella, ma la non è che del suono ingegnoso. Anche le Amazzoni erano belle, ma desse non eran donne.
— Ho fatto bene, allora rispose Ondina, a non portare carte di musica. Una musica dinanzi ad uno zibaldone mi sembra tanto ridicola, che non saprei cantarla senza ridere e senza smarrirmi. Ho là un repertorio intero, continuò essa portando la mano alla fronte, e ancor più in là, soggiunse, mostrando il cuore. Vado dunque ad aprir le cateratte: quando sarà troppo, Vostra Maestà mi ordinerà di tacere.
Dopo questa dichiarazione, la dama di compagnia si alzò, Ondina sedette al piano e cominciò.
Non saprei dire tutto ciò ch’ella cantò. Dimenticando dove era, ed in presenza di chi ella fosse, invasa dalla fata delle melodie, Ondina si slanciò nel cielo dei suoni armoniosi ed ispirati; passò da Parisina alla Semiramide, dall’Anna Bolena alla Straniera, dall’Otello alla Donna Caritea, dal Giuramento agli Arabi nelle Gallie, dalla Vestale alla Saffo, Norma al Roberto Devereux, alla Maria di Rohan, alla Linda, al Pirata, al Bravo, alla Sonnanbula, alla Lucia di Lamermoor.... e, dovunque erano note tristi e tenere, canti soavi ed espressivi, ella li colse, li riunì, ne tessè una corona.
Poi, per bizzarria, ella spiccò un raggio di qui, uno spicchio di là, un razzo all’uno, un profumo all’altro; a questo un gorgheggio, a quello un largo, ad un terzo una cabaletta, a quell’altro un bagliore e si levò in una tale apoteosi di splendore, che la si sarebbe detta una cascata di pietre preziose cadenti da una coppa d’opala in un bacino d’oro. La regina sorse ad abbracciarla e le principesse non si tennero indietro.
— Ah! io comprendo, sclamò la regina, perchè ognuno si affretti a compiere i vostri desideri, o incantatrice! Deh! non vogliate chiedere a Giovi d’oltremonti, che umiliano i re, di cangiarci in pastorelle.
Ondina capi l’allusione e, giungendo le mani, rispose con voce toccante:
— Aspetto tutto dalla grazia di Vostra Maestà.
Fu servito il thè. Poi, essendo giunta per le principesse l’ora di ritirarsi, elleno uscirono dal salone. La regina fece segno alle dame di compagnia di seguirle e restò sola con Ondina. Parlarono di Parigi. E come non vi è persona più ghiotta della vita intima delle attrici, che le duchesse, le regine e le monache, Sua Maestà, avendo messo Ondina su questo capitolo, la condusse dolcemente nella sua camera da letto, ove sedettero lato a lato sur un tête-à-tête.
La bonomia mostrata dalla regina incoraggiò e sedusse Ondina, di naturale franco ed allegro. Ora, se è vero che a Parigi ella era stata saggia, aveva altresì udite ed apprese molte storie da palco scenico e da alcova.
Ella rise e tagliò le gomene alla sua parlantina. La regina rise con lei. Lanciata su questo pendìo la conversazione approdò al colonnello e a Bruto. Ondina rinvangò allora diversi particolari della sua storia, taciuti davanti alle principesse, svelò alla regina che il colonnello era suo padre e confessò che amava Bruto.
La regina sentì un brivido e chiamò qualcuno. Venne Ruitz. Sua Maestà gli ordinò di chiudere le finestre della camera che davano sul mare.
— Ed il mio galante medico, vi ama egli, signorina? chiese Urraca, con bontà.
— Se mi ama? Noi non abbiamo mai scambiato una parola d’amore, Maestà. Non si dicono codeste cose che quando le si scoprono a bella posta, un po’ alla volta, quando le s’indovinano, quando le si comprendono, o quando scoppiano all’improvviso. Credo che noi abbiamo sempre saputo di amarci. Ciò è nato nel cuore col cuore e vi è restato come l’ospite della prima ora. Dire a Bruto: Io t’amo! l’avrebbe stupito, come se gli avessi detto: To’! hai dei capelli neri! se Bruto mi avesse detto: Lena, io t’amo! gli avrei risposto: Bella novità! Si direbbe che vieni ad annunziarmi che l’arcivescovo ha messo ai mondo tre piccoli! Quando ci vedemmo per la prima volta ci conoscevamo già da un secolo.
— E Bruto sa tutto codesto, sente anch’egli a questa maniera?
— Se lo sa? Se lo sente? Figuratevi, Maestà, ch’ei non mi aveva mai detto una di quelle parole che si dicono alle fanciulle in simili circostanze e che aveva preparato tutto pel nostro matrimonio, ed era corso da me, accompagnato da mio padre per dirmi: Lena, ecco tuo padre! Andiamo a sposarci! Ora io ho tutto ammanito per le nozze e, dal canto mio, io non gli ho detto ancora: Bruto, ci mariteremo domenica! Altri ci ebbero, Maestà, senza possederci. Bruto ed io non abbiamo scambiato neppur un bacio e noi abbiamo divorato insieme tutte le voluttà dell’amore.
La regina arrossì, il sangue le invase il collo, il viso, la fronte. Ella aveva caldo addosso e chiamò. Ruitz riapparve, ed aprì le finestre.
— Portatemi dei sorbetti, disse la regina.
Mentre Ruitz uscì, la regina andò al suo armadio, aprì alcune cassettine, cercò qualcosa, e ne tirò fuori... un braccialetto. Frugava ancora, quando Ruitz le presentò una guantiera. Sua Maestà prese un bicchiere e guardò.
Era quella bibita deliziosa, color rubino, dall’odore di fior di pesca, che i Napoletani amano tanto.
Questa bibita si chiamava allora, e si chiama ancora oggidì, acqua di amarena o amarasca. Ma, dopo l’avvenimento che raccontiamo, alla corte, nei saloni del gran mondo non fu addimandata altrimenti che il Sorbetto della Regina; ed una storia, sobillata sotto voce, commentava l’origine di questo battesimo.
La freschezza, il profumo, il brio di quella bevanda facevano voluttuosamente dilatare le narici della regina, perocchè la sua respirazione divenne forte ed a balzi. Prese un bicchiere e si diresse verso il canapè, ove Ondina cogli occhi al cielo, nuotando nelle regioni dell’amore e dei sogni, restava assorta e quasi accasciata.
— Figliuola mia, disse Sua Maestà, avrai un giorno de’ più bei diamanti. Ma porta qualche volta questo braccialetto in memoria di me. Poi rinfrescati, devi aver caldo.
E nel tempo stesso che presentava graziosamente ad Ondina il braccialetto ed il bicchiere col sorbetto, Sua Maestà prendeva sulla guantiera un bicchiere simile e della stessa bevanda, e lo vuotava con delizia e quasi d’un tratto.
Ondina la ringraziò di una voce tenera e di un dolce sorriso. Passò il braccialetto al suo polso, dopo d’averlo baciato e bevve a sua volta, tutto ad un tratto come la regina, ma non con l’istessa voluttà.... Ella aveva meno caldo.
La regina si assise di nuovo accanto alla giovane. Ruitz uscì e la conversazione sulle attrici di Parigi riprese il suo corso. Ondina raccontava con brio un pranzo a tre, allestito dagli stessi convitati, in cui Rossini preparò i famosi maccheroni, Mercadante lo stufato per condirli, e Donizetti la polenta alla milanese, quando ella sentì un brivido correrle lungo la spina dorsale ed il suo fronte si perlò di sudore. Ondina non osò dire verbo e continuò il racconto. Ma la voce fluttuava, la gola le si stringeva e i suoi occhi si aprivano smisuratamente, mentre la vista le si oscurava e la lingua diveniva grossa ed imbarazzata.
— Perdono, Maestà, diss’ella tutto ad un tratto, mi sento morire.
La regina, molto allarmata, molto agitata per questo accidente, suonò. Ruitz apparve.
— Adagia questa fanciulla su questo letto, il caldo le ha fatto male.
Ruitz prese Lena nelle braccia e la posò sul letto della regina.
— Un medico, un prete, mormorò Lena.
— Non è nulla figliuola, non è nulla, disse la regina: tranquillatevi. Ruitz, apri le altre finestre.
Ruitz obbedì. La gioia gli crepitava sul sembiante.
Il vecchio birbo aveva stretto fra le sue braccia la vaga giovinetta.
— Un medico, un prete, di grazia, Ma....està, — balbettò ancora Ondina.
— Ruitz, manda tosto a cercare il dottor Bruto. Calmati, figliuola mia, è il caldo.
E ciò dicendo, Sua Maestà slacciava con molta bontà il busto della cantante. Poi appoggiò la mano sul cuore d’Ondina e non sentì che un formicolamento indistinto. Le pupille sembravano abbaini da cattedrale. La mano era madida ed agghiacciata. Le labbra smorte. Sua Maestà andò a sedere sul divano. Ruitz rientrò ed annunziò che Bruto, opportunamente di guardia quella notte ai Pellegrini, sarebbe fra una mezz’ora al capezzale dell’ammalata.
Seguì un silenzio — silenzio di piombo.
Lena si contorceva e lacerava le vesti sul suo petto. La sua respirazione galoppava saltabeccando. La si udiva, in mezzo a quel sinistro silenzio, come il rantolo d’un orologio in una leggenda di spettri. La regina guardava Ruitz. Ruitz aggrinzava il suo terribile rictus, come una tigre che sbadiglia. Quella mezz’ora fu eterna. Finalmente si udì un lontano rumore nelle prime anticamere.
— Eccolo! gridò Lena, sforzandosi di sollevarsi. Ah.... troppo tardi! soggiunse poscia ricadendo sul letto.
S’apre la porta. Entra Bruto. La regina gli addita, senza moversi, il letto e l’ammalata. Bruto riconosce Lena e si precipita sul letto reale.
Osserva e trema.
E’ sollevò allora la testa di Lena e volle prendere il lume sul tavolo, onde meglio guardarla in faccia. Vide in quel momento qualche cosa.... una boccetta forse, un Agnus dei, che so io? Fece un movimento d’orrore, indietreggiò fino ai piedi della regina, cadde in ginocchio e d’un accento supremo di disperazione gridò: Grazia.
La regina lo mirò stupefatta, come qualcuno che non capisce; poi, come se ella avesse afferrato il senso della parola di Bruto, sclamò:
— Grazia! ah! sì. Sta bene questo, giovane mio; amo le persone che credono in Dio e si volgono a lui nei momenti supremi. Sì.... prega; Dio vi farà grazia.
Ed escì. Ruitz la seguì.
Bruto si slanciò di un balzo di nuovo verso il letto, prese Lena nelle sue braccia, sollevò il suo capo, le tastò il polso, il cuore. La chiamò, le parlò, l’interrogò, cercò di rianimarla....
Udì allora come una chiocciolata di risa. Si volse e vide tra i battenti della porta un capo senza corpo, un capo spaventevole, dai rossi capegli stecchiti, dagli occhi verdi elettrici, dalla nera bocca fessa fino all’occipite, il capo di Ruitz.
Bruto torse lo sguardo e risollevò la testa di Lena. Quella testa ricadde sui guanciali. Un alito profumato di fior di pesca gli lambì il viso: un brivido scosse tutto il corpo della fanciulla, che s’irrigidì all’istante. Lena era morta.
Bruto fuggì.
Due ore dopo, il corpo di Lena, trasportato in una vettura di Corte, fra un prete e Ruitz, era gettato nella fossa comune del cimitero.
Di che era morta quella povera giovinetta?
— Chiedetelo al dottor Bruto, si diceva a Corte....
Ed il dottore rispondeva:
— Della rottura di un vaso nel petto.
Ma il delizioso sorbetto, ch’ella aveva bevuto, l’ho già detto, d’allora in poi si chiamò il Sorbetto della Regina.
Alcune settimane dopo, Ruitz poi moriva di un colpo d’apoplessia.
Il re fece grazia al colonnello Colini. Era così clemente re Bomba!
FINE.