Il sorbetto della regina/Parte seconda/XIII

Parte seconda - XIII. Post nubila Phoebus

../XII ../XIV IncludiIntestazione 10 agosto 2009 75% romanzi

Parte seconda - XII Parte seconda - XIV


[p. 291 modifica]

CAPITOLO XIII.


Post nubila Phoebus.


L’assassinio dell’avvocato, la storia del conte d’Altamura, narrata ed esagerata da cento bocche, l’ingerenza dell’ambasciatore di Francia nel processo del colonnello, di cui venne pure a galla la storia, l’uccisione di Cecilia, nota come una delle lionnes della capitale.... tutte queste notizie, gettate di un sol colpo in quella città dal silenzio morale e dallo strepito assordante, produssero un’agitazione di spiriti, di cui non v’era più esempio dopo la rivoluzione del 1820. Gli era a chi arrogeva la sua parte di dettagli al fondo generale. Gli era a chi ricolmerebbe le reticenze del conte d’Altamura, a chi designerebbe i nomi propri delle persone implicate nel suo racconto.

Gli incidenti in un racconto sono come le ciliege in un canestro: una aggrancia l’altra. Tranne gli episodi medicinali dell’appartamento secreto di Ruitz, tutto il resto era cognito e si commentava nei caffè e nei saloni. Le passioni si accendevano. La sorte di Cecilia commoveva [p. 292 modifica]le donne. La condotta di Bruto era giudicata in varie maniere dalla borghesia. Il processo del colonnello eccitava le classi elevate, gli uomini politici, il corpo diplomatico e la Corte.

Il movimento raddoppiava.

La compassione o il disprezzo per Cecilia, la simpatia o l’avversione per Bruto si svaporavano in epigrammi o in declamazioni. La discussione sull’affare del colonnello sollevava le passioni di partito e delle amare riflessioni sulla situazione del paese. Le sventure di Bruto aumentavano l’interesse pel colonnello, suo ospite ed amico.

Si temè per un momento che il brevetto di medico in secondo della regina madre fosse ritirato a Bruto. Le indiscrezioni calcolate del ministro di Francia a Napoli istruivano il pubblico dei passi che facevano a Parigi Donizetti, Ondina e il principe di Joinville. E si seppe che il generale Sebastiani, ministro degli affari esteri di Luigi Filippo, conosceva personalmente il colonnello barone Colini, che l’aveva avuto sotto i suoi ordini. Tutte queste rivelazioni stordivano, elettrizzavano, esaltavano la città e la Corte.

Il processo del colonnello prendeva l’aspetto di una questione internazionale. Ogni dispaccio, che l’ambasciatore del re a Parigi inviava (ed e’ piovevano), produceva nella Corte di Napoli dei parossismi di rabbia male celata, che infiammava il partito realista ed allarmava una parte del corpo diplomatico. La Corte di Napoli considerava i buoni uffici della Francia, in favore dei suoi vecchi soldati, come un’intrusione [p. 293 modifica]nell’amministrazione interna del regno ed un attentato all’indipendenza del sovrano.

Il re Ferdinando aveva materialmente ragione, moralmente torto.

La condotta del governo napolitano verso il colonnello offendeva la coscienza umana, la morale, la giustizia ed il diritto. Ed il ministro di Francia aggiungeva: anche i trattati; — quello di Casalanza, per esempio, coi quali il governo napolitano s’era impegnato a riconoscere i gradi militari accordati dai monarchi francesi. L’ambasciatore d’Austria, il ministro di Russia, il nunzio sostenevano il governo borbonico. I ministri d’Inghilterra e di Prussia restarono neutri diplomaticamente, ma personalmente appoggiavano quello di Francia.

Il re, per provare la sua indipendenza, aveva ordinato di raddoppiare di rigore contro il colonnello. L’ambasciatore francese usava ogni specie di rappresaglie conciliabili col suo titolo e col suo carattere. Tutto il partito liberale del regno era con lui. All’incontro il partito cattolico e tutti gli agenti dell’amministrazione secondavano ed applaudivano la Corte. La polizia inveiva contro coloro che frequentavano l’ambasciata e l’ambasciatore di Francia. L’irritazione prendeva l’andazzo della collera.

Don Terenzio aveva accettato la difesa del colonnello perchè era in rottura colla Corte e teneva il broncio ai Borboni. Dopo la morte di questo avvocato l’ambasciatore non era riuscito ad impegnarne un altro che con molteplici restrizioni. La polizia terrorizzava la gente del fôro. Il colonnello, istrutto di codesto, aveva [p. 294 modifica]rifiutato l’aiuto di un così poco libero difensore e dichiarato che si sarebbe difeso da sè. Questa decisione aveva allarmato il presidente, il tribunale e la Corte.

Infatti, che partito per imbavagliare un accusato che perora per conto suo e racconta dei fatti storici con dignità e convenienza? Ed erano appunto questi fatti storici che la Corte temeva. Il presidente poteva egli intralciare la difesa, ritirare la parola ad un uomo, pel quale nove decimi della città s’interessavano, dinanzi al corpo diplomatico e il meglio della società napoletana, in mezzo all’ansietà generale e sotto il pungolo della curiosità e sotto gli sguardi d’un pubblico esaltato, quando questo accusato si presenterebbe vestito dell’uniforme di sergente del generale Mack, ma tenendo alla mano la spada che egli aveva portato in tante battaglie, la decorazione che aveva ricevuto dalle mani dell’imperatore, il brevetto di colonnello ed il diploma di barone dell’impero?

Poteva egli, quel presidente, impedirgli di raccontare le sue geste, la storia dell’imperatore e quindi di fanatizzare l’assemblea, quando egli crederebbe di provare — a torto o a ragione — ch’egli aveva diritto alla protezione della Francia, offesa nella persona sua? Gli si proverebbe poi ch’egli aveva torto. Benissimo; ma egli avrà parlato, avrà infamato il governo napolitano, avrà esaltato l’uditorio, avrà fatto risuonare nel santuario stesso della legge quel nome di Napoleone ch’era proibito pronunziare nelle vie, pena la prigione.

Infrattanto il giorno del giudizio si avvicinava [p. 295 modifica]e l’interesse pubblico aumentava d’intensità. Restava al governo napolitano un elemento certo di trionfo. La Francia, coprendo con la sua benevolente protezione un uomo che aveva per lei seminato le sue membra ed il suo sangue lungo l’Europa, non aveva ancora deciso che costui facesse sempre parte dell’esercito francese e che il decreto del ministro della guerra di Luigi XVIII fosse indegno.

— Perchè, diceva il ministro della guerra di re Ferdinando, sostenuto dal ministro della giustizia e da quello degli esteri, perchè riconoscerei io ciò che il governo francese esita esso stesso a riconoscere?

Con questo argomento si teneva in iscacco l’ambasciatore di Francia e la pubblica opinione. Ma l’ambasciatore di Sua Maestà napolitana a Parigi scriveva: “Fate presto, condannate od assolvete come meglio vi piace; ma spicciatevi: preparate un fatto compiuto. Non si è ancora deciso, ma la decisione può arrivare da un momento all’altro ed io non vi garantisco sarà favorevole.„

— Che si faccia presto, dunque! rispondeva re Ferdinando. Se io sarò costretto a rendere all’esercito francese uno dei suoi commilitoni, voglio cavarlo dall’ergastolo e rimetterglielo colla catena del forzato al piede. Non è alla mia autorità che lo si strapperà allora, ma alla mia grazia.

Un nuovo dispaccio venne a gettar lo scompiglio nella Corte. L’ambasciatore di Napoli a Parigi annunziava, che la cantante Ondina ritornava a Napoli sul battello a vapore il Sully, [p. 296 modifica]portando all’ambasciatore di Francia dispacci, di cui e’ non era giunto a sapere il contenuto, ma che aveva ragione di creder molto gravi.

Questa notizia cacciò la febbre addosso ai ministri degli esteri e della polizia. Il re ruggiva come una bestia feroce. Ma come presentare all’udienza un uomo malato ancora di febbre tifoidea? come trascinare sopra una barella questo moribondo, questo scheletro? Pure fra tre giorni arrivava il Sully.

Se si avesse avuto almeno dinanzi a sè una settimana! se si fosse potuto almeno avvelenare codesto avanzo di soldato, che creava tanti guai! Lo si poteva certo; ma l’ambasciatore francese avrebbe dimandato un’autopsia, ed allora!.... Il colonnello, d’altronde, conoscendo a fondo i suoi Borboni, non prendeva medicamenti, non riceveva il medico e si curava da solo, come voleva difendersi da solo. Nè prendeva altro rimedio che il ghiaccio.

Infine i tre giorni passarono. Erano sembrati tre secoli alla Corte, ai ministri, all’ambasciatore francese, che conosceva già il contenuto dei dispacci, e sopratutto ad Ondina, a cui era noto meglio che a tutti. Di fatti aveva appena messo il piede sul ponte del Sully a Marsiglia, che chiedeva già al capitano quando arriverebbero.

— Fra tre giorni, signorina.

— Tre giorni! ma la è un’eternità.

— Non avrei mai creduto che si potesse avere tanta premura d’arrivar a Napoli, signorina, osservava il capitano, che era francese, anzi [p. 297 modifica]parigino, e che era saltato dalle barricate di luglio sul ponte di una nave.

— Quando vi avrò detto che vado a maritarmi, rispose Ondina ridendo, mi comprenderete, spero.

— Alla buon’ora! senza di che non mi spiegherei perchè si vorrebbe arrivare in un paese ove non s’incontrano che preti, frati, spie e lazzaroni, un re da teatro, un governo di ribaldi vili e venali, delle donne gialle come il cuoio di Russia, le quali non si lavano, che si rassegnano a tutto, eccetto di far senza di messe e di baciare le mani ai cappuccini. Avete il passaporto in regola, almeno?

— Penso che sì, rispose Ondina, la quale non aveva punto coscienza dei piccoli inconvenienti cui il capitano veniva di enumerare.

Il primo giorno passò, poi il secondo, grazie al mal di mare, che diede alla figlioccia altri triboli. A Livorno la s’informò se poteva continuare il viaggio per terra. Lo poteva; ma con ritardo di tre giorni.

— Il mal di mare piuttosto, gridò Ondina, ed arriviamo presto.

— Rigioitevi, signorina, soggiunse il capitano, il tempo è cambiato; fra poche ore il mare volerà sotto le nostre ruote, come gli strilli nella vostra bocca.

— In questo caso, rispose Ondina ridendo, saremo ancora scaraventati, se il mare si avvisa di rappresentare qualcosa di Verdi.

A partir da Civitavecchia, Ondina non potè più tenersi nella sua cabina; ad ogni istante ella domandava se Napoli fosse in vista. Le [p. 298 modifica]stelle della notte la videro gironzare sul cassero. L’alba vaporosa la sorprese vicino al pilota marsigliese, il quale contava in provenzale il numero dei nodi che restavano ancora a correre.

L’aurora la trovò ancora solo a sola col capitano il quale le precisava l’ora dell’arrivo.

— Non saprei però predirvi, signorina, aggiungeva il capitano a che ora poserete i vostri piedini sul sudicio lastrico della città, perocchè occorrono ancora lunghe storie avanti di ottenere la libera pratica della polizia.

— Polizia! polizia! esclamò Ondina un po’ imbronciata; voi non vedete che polizia a Napoli, capitano?

— Gli è che non v’è altro nel vostro bel paese. Tutti ne fanno parte, o ne sono vittime. Ah! c’è pure la buonamano! Polizia e buonamano! Ecco Napoli.

Il capitano aveva ragione. Ed ecco perchè, quando i Borboni sono caduti, sotto il soffio di Garibaldi accompagnato da sei persone, ecco perchè non un braccio si alzò per difenderli, non una voce disinteressata per compiangerli.

Questo capitano essendo stato segnalato come uno degli eroi delle barricate di luglio, la polizia napolitana gli faceva subire ogni specie di miserie per determinarlo a rinunziare ai suoi viaggi a Napoli. Ma il capitano aveva le sue ragioni per venirvi; egli era l’agente del comitato europeo.

In fine, eccoli a Napoli. Il capitano scende colla lista dei viaggiatori ed i passaporti e si reca all’uffizio della polizia. [p. 299 modifica]

Gli avvenimenti avevano camminato e si erano aggravati. L’ambasciatore aveva inviato alla prigione un addetto alla legazione, onde assicurarsi se il colonnello avesse forza abbastanza per difendere la sua causa, messa al ruolo fra quattro giorni. L’addetto non era stato ammesso a visitare il prigioniero.

Il principe di Joinville era entrato in rada il giorno prima, sulla Belle-Poule, in via per la Grecia. Il re gli aveva mandato un aiutante di campo per complimentarlo. Il principe lo aveva fatto ricevere da un ufficiale subalterno, dicendosi malato e poche ore dopo era andato a pranzo all’ambasciata.

La sera stessa, dall’ambasciatore d’Inghilterra, che dava festa al principe, il ministro della polizia aveva stesa la mano all’ambasciatore di Francia: questi distratto, aveva posto in tasca la sua, fingendo guardar altrove. Poi, in un gruppo, si parlava di un discorso che il signor di Chateubriand aveva pronunziato alla Camera dei Pari, al tempo della ristorazione.

Il ministro degli affari esteri del re disse:

— Ho pranzato da lui a Roma, lo conosco.

— Quale fra le sue opere preferisce, vostra eccellenza? interrogò non senza ironia l’ambasciatore d’Austria.

— I beefsteack! sclamò ridendo l’ambasciatore francese, anticipando la risposta.

L’arguzia non era nuova, ma cadeva a proposito: perocchè dicevasi a Napoli che quella eccellenza passava più tempo nella sala da pranzo che nella sua biblioteca.

La disputa erasi inciprignita; si rimbecca[p. 300 modifica]vano già alla bello e meglio. Non mancava che il colpo di grazia. Il ministro di polizia, offeso della berta datagli la sera precedente dall’ambasciatore, lo portò.

Il capitano del Sully ritornò a bordo col commissario di polizia, che diede pratica.

Si principiò l’appello; quando arrivò il nome di Ondina.

— Voi non potete scendere, disse il commissario. Il vostro passaporto non è in regola. Ci manca il visto del console del re di Marsiglia.

— Ma io ho dei dispacci a rimettere all’ambasciatore di Francia, sclamò Ondina perduta.

— L’ambasciatore verrà a prenderli se non ha la gotta.

Ondina cadde affranta sopra una panca del naviglio.

Un addetto all’ambasciata di Napoli a Parigi, che portava anch’egli dei dispacci, scese pel primo, guardando con un’aria di trionfo la povera vittima.

Tutti partirono. Ondina chiese del capitano.

— È sceso a terra, signorina, rispose il pilota marsigliese, e non ritorna che domani mattina.

Ondina ruppe in lagrime e si coperse il viso.

Era ancora nel parossismo della desolazione, quando vide un canotto, alla bandiera francese, staccarsi dalla Belle-Poule, scivolare sul mare silenzioso e leggiero come un raggio di luna, avvicinarsi al Sully e parlamentare. Si abbassò la scala e un personaggio salì sul cassero. [p. 301 modifica]

— Dov’è madamigella Ondina? chiese egli.

— È quella piccola che piange, rispose un marinaio. Il personaggio si avvicinò.

— Madamigella, diss’egli, io sono l’ambasciatore di Francia, fatemi l’onore di accettare il mio braccio.

Il capitano del Sully, che l’accompagnava, rideva, come un erede, del bel tiro che aveva fatto alla polizia.

— Vi manderò domani i vostri bauli, signorina, coll’istesso mezzo e che Dio mandi il cólera al vostro governo.

L’ambasciatore condusse Ondina al palazzo dell’ambasciata, nella sua vettura, che lo aspettava a Mergellina.

La sera, il capitano del Sully raccontò questo aneddoto agli ufficiali della Belle-Poule al caffè d’Italia e tutta Napoli ne fu informata. La sera stessa si potè vedere, nel palchetto dell’ambasciata, Ondina che rideva, come una pasqua di rose, in faccia al ministro della polizia, il quale spumava dalla rabbia.

Cosa contenevano i dispacci portati da Ondina all’ambasciatore e dall’addetto napoletano al ministro degli esteri?

L’indomani, l’ambasciatore, in uniforme, si presentò al ministro, e comunicò al ministro del re: che il ministro della guerra di Parigi aveva annullate le disposizioni del ministro di Luigi XVIII; che il signor Pietro Colini era riconosciuto nel grado di colonnello da lui posseduto nel tempo della battaglia di Waterloo, e che si procedeva ad una inchiesta onde assicurarsi se l’imperatore gli avesse conferito il [p. 302 modifica]grado di generale sul campo di battaglia; che il governo francese, considerando il colonnello come facente parte dell’esercito francese, gli riconosceva pure la decorazione di commendator della Legion d’onore ricevuta dalle mani dell’imperatore e il titolo nobiliare di barone; che il barone Colini, essendo stato riconosciuto come colonnello ammesso al ritiro dall’esercito, era quindi, per la stessa ragione, considerato come cittadino francese ed in questa qualità lo si copriva della protezione della Francia, ch’e’ risultava da una deposizione del marchese di Diano, complice del colonnello, che questi era stato attaccato dal marchese, che non c’era stato un vero duello, ma un semplice scambio di colpi, nel quale il colonnello non aveva fatto altro che respingere l’aggressione; che in nessun paese del mondo, sotto nessuna legislazione e in nessun tempo, non era proibito ad un uomo assaltato di difendersi; e che ciò essendo, il giudizio del colonnello era un atto odioso ed abusivo, al quale il governo francese non si rassegnava, ed in causa di cui esso dimandava una riparazione morale per l’insulto fatto alla Francia, in un membro del suo esercito, ed una riparazione materiale, in favore dell’uomo leso nella sua libertà e nella sua persona. L’ambasciatore aggiungeva terminando, dopo aver dato lettura della nota, di cui riassumiamo il contenuto, che se il colonnello Colini non era messo in libertà, egli, l’ambasciatore, protesterebbe, in nome della Francia, contro ogni sorta di danno causato sì al fisico che al morale d’un cittadino francese, [p. 303 modifica]salvo le ulteriori determinazioni che verrebbero prese a Parigi.

A questa nota, seguita da questa dichiarazione, si accoppiò il dispaccio dell’ambasciatore napoletano presso le Tuileries, che rendeva conto dell’eccitamento negli spiriti a Parigi per questo insulto del governo napoletano.

Il generale Sebastiani era furioso. L’opposizione alla Camera preparava un’interpellanza sull’avvenimento, di cui la stampa faceva già una grave accusa contro il ministero. L’ambasciatore napoletano soggiungeva che la regina Amelia lo aveva consigliato di scrivere al re, di non provocare oltre misura un paese che non aveva rimesso ancora i fumi della rivoluzione, e che il ministro Sebastiani gli aveva dichiarato, extra-ufficialmente, che egli si crederebbe vilipeso come ministro e come soldato, se tollerasse che il colonnello Colini fosse insultato. Queste comunicazioni ebbero l’effetto del fulmine. Il re era idrofobo.

All’indomani, il colonnello doveva comparire dinanzi i suoi giudici.

Una parte di questi fatti, esagerati, passando di bocca in bocca, circolava già nella città. La emozione era grande. Questo conflitto colla Francia rialzava lo spirito dei liberali, che odiavano il governo dei Borboni.

All’indomani mattina, dunque, la folla faceva ressa per guizzarsi nella Camera del dibattimento.

Ondina si disponeva a rendervisi, quando le fu annunziato un ciambellano della regina madre, portatore di una lettera di Sua Maestà. [p. 304 modifica]

Lo stupore della giovane fu immenso, sapendo quanto fosse detestata alla Corte.

Ricevette il ciambellano e la lettera.

Sua Maestà, avendo udito parlare del prodigioso successo di lei a Parigi, la invitava a venir a cantare nelle sue stanze, dinanzi a lei ed alle sue figlie, la prossima domenica. Ondina corse al gabinetto dell’ambasciatore per dargli questa notizia e chiedergli consiglio.

— Aspettate per rispondere che la sentenza del tribunale sia conosciuta, disse l’ambasciatore.

— Posso recarmi al tribunale? chiese Ondina.

— Sarebbe imprudenza, rispose l’ambasciatore. Nessuno dell’ambasciata vi va.

Difatti, tutto il corpo diplomatico si trovava al tribunale, eccetto le persone dell’ambasciata di Francia.

Suonano le dieci. I giudici entrano e si assisero nei loro seggi. Ma l’accusato mancava, il presidente non compariva ancora. Scorse un quarto d’ora e tutti si dimandavano cosa ciò significasse, quando entrò un usciere e rimise una lettera al vicepresidente.

Il presidente annunziava che, preso da subita febbre, non poteva assistere al giudizio e rimetteva l’affare ad otto giorni.

Sua Maestà non voleva recedere da ciò ch’ei credeva fosse il suo diritto; ma non avendo ancora nulla deciso sul come tirarsi da quel ginepraio, aveva ordinato che il processo fosse aggiornato.

Un mormorio generale accolse la lettera del [p. 305 modifica]presidente. Il vicepresidente salì al seggio e fu chiamata un’altra causa.

La notizia fu accolta favorevolmente all’ambasciata di Francia. Questo primo passo indietro indicava un ulteriore rinculare.

Allora Ondina, dietro consiglio dell’ambasciatore, prese la penna e rispose alla regina che la era felice e riconoscente di obbedire agli ordini di Sua Maestà.