Il sorbetto della regina/Parte seconda/XI

Parte seconda - XI. Il conte d'Altamura

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CAPITOLO XI.


Il conte d’Altamura.


Dopo un simile omicidio, si sarebbe dovuto traslocare il conte d’Altamura in una carcere più severa. Si limitarono a sbrattar via il cadavere dell’avvocato ed a fare all’assassino un predicozzo di mansuetudine. Il conte mandò a tutti i diavoli il predicatore e diede i suoi ordini ai carcerieri.

La sera egli dava una festa. Invitò tutti gli aguzzini dello stabilimento e le loro famiglie. Fece illuminare il dormitorio con candele di cera; ordinò dei rinfreschi di ogni sorta e in grandi proporzioni ed una cena squisita. Pregò poi il carceriere in capo, che suonava il violino, di venir a fare un po’ di musica con tre altri prigionieri, di cui uno suonava il flauto, l’altro la chitarra, ed il terzo il mandolino. Prezioso quel mandolino! Appena fatti, gl’inviti sono accettati; le disposizioni per la festa, date appena, sono in via d’esecuzione. Si principia a pulire la sala.... e gli invitati.

Scende la notte. [p. 263 modifica]

Una parte dei letti era stata depositata nel fondo del dormitorio, a guisa di divani turchi; un’altra parte, tolti via gli stramazzini, era stata trasformata a tavole, a panche, che, con un po’ di buona volontà e d’immaginazione, si potevano addomandare mensole.

Due o trecento candele, ficcate un po’ per tutto, in bottiglie o in candelieri, oppure semplicemente su de’ chiodi, illuminavano la vasta sala, le cui pareti, per fortuna, erano state imbiancate da poco.

Si ornarono le finestre di rami d’alberi e di fogliami, di cui un galante carceriere volle bene far dono alla “società„. Uno spazio vuoto fu lasciato all’estremità, vicino alla porta, pei danzatori ed accanto ai divani si allestì un buffet che avrebbe fatto impallidire quelli delle feste dei ministri di Sua Maestà Siciliana. C’era di tutto su quella tavola preziosa! Che Dio mi perdoni! perfino del thè, che in quel tempo, a Napoli, si comperava dai farmacisti come un rimedio.

Una parte delle coperte dei letti serviva di tappeto in quell’angolo della sala, interdetto ai ballerini, un’altra copriva le tavole ed i canapè. Tutto ciò che era commestibile e per bibite venne dal di fuori; dai fornitori reali argenteria, piatti, cristalli, coltelli, tovaglioli, tovaglie, tazze.... fin anco quattro guastade a fiori e quattro lampadari.

I signori della prigione s’erano tutti sbarbati, lavati, passati al ranno, vestiti del loro meglio, prestandosi reciprocamente ciò che avevano per farsi più belli. Si desolavano della man[p. 264 modifica]canza di guanti e di cravatte bianche, di brache corte e di scarpine. L’olio ordinario delle lampade della notte se ne andò intero a spalmar zazzere e baffi. Codesto non odorava forse bene, ma brillava. Infrattanto si provavano a ricordarsi ciò che sapevano di ballo e per rendersi più snelli ed elastici si regalavano di famosi calci, saltabeccando e sgambettando. Don Eugenio, ex-cameriere, s’era costituito maestro di cerimonie.

A sett’ore si udì scricchiolare la toppa della porta. Il carceriere addetto a questa sala lasciò entrare il carceriere in capo, i suoi colleghi, una quindicina di donne, di cui cinque sole brutte o vecchie, poi richiuse l’uscio e restò dall’altra banda, prendendo la sua parte della festa a traverso il graticcio di sorveglianza.

La gente venuta di fuori, uomini e donne, era allegra ed azzimata a domenica. Il carceriere in capo fece la sua entrata con uno sgambetto e segando il violino di un colpo di archetto. Le risposte della chitarra, del mandolino e del flauto non si fecero aspettare. Mentre i prigionieri si tenevano allineati in due file ai lati della porta, il conte d’Altamura, da vero gentiluomo, andava incontro alle dame che aveva invitate.

La danza principiò immediatamente. In qualità di padrone di casa, il conte si aggiogò alla vecchia moglie del carceriere in capo e tentò un giro di waltzer. Poi si aggiudicò la più bella tosa della compagnia e ballò con lei la quadriglia, la tarantella e malann’aggiano i guai! anche la gavotta! [p. 265 modifica]

Il povero colonnello steso sul suo giaciglio, cacciato in un angolo, battendo i denti dalla febbre, si agruzzolava sotto la coperta.

Le danze non fecero dimenticare il bere: e quante bottiglie!

Alle otto arrivarono i gelati, i sorbetti; poi le aranciate, i lattati, il cioccolatte ed ogni ben di Dio. Il conte festeggiava la corda che doveva impiccarlo.

— La unge di gioia, osservò un ex-cocchiere di Corte.

Poi si cantò. Tutto il repertorio del San Carlo, attagliato ai cantanti, vi sfilò a macca; quindi quelle belle canzoni napoletane, così melodiose, così saltellanti, così tristi, così scintillanti, azzurre come il cielo, stellate come il mare al luccicar dell’aurora!

E il ballo di nuovo! di nuovo il canto, ma questa volta di canzoni buffe, scollacciate e strambe.

E poi sorbetti, vini, punch a iosa, ancora e poi ancora di tutto.

Alle 11 le dame si assisero al buffet. Il conte al centro; gli uomini in piedi, intorno a loro. E avanti sempre! Mezzanotte scoccava, quando il conte propose questo brindisi:

— Alla rottura della mia corda!

— Fu accolto clamorosamente. E’ fe’ segno allora che voleva parlare ed in un batter d’occhio tutti si stettero, la bocca aperta, attenti, sospesi alle sue labbra, come i Cartaginesi alle labbra eroiche d’Enea, quando costui fece inghiottire a quella pettegola di Didone la schernevole gaglioffata del cavallo di Troja. [p. 266 modifica]

Il conte aveva cangiato di aspetto. Dacchè aveva commesso il suo ultimo atto d’uomo, era ridivenuto gentiluomo.

— Voi sapete adesso ch’io mi sia, diss’egli. Non ho che una parola ad aggiungere sull’atto di giustizia da me consumato. Io era ricco, aveva una giovane moglie ed una madre vecchia, aveva l’onore, il sorriso, la gioventù, l’avvenenza, l’avvenire il più carezzato dal destino; quel Caino mi prese tutto. Mi tradì come Trentacapelli tradì Murat, mi vendè come Giuda. Mia madre, mia moglie sono morte sotto un tetto straniero, quasi di miseria. Io le aveva accompagnate nella provincia, a Lauria, in casa di un mio zio, egli stesso rovinato dalle vicissitudini delle rivoluzioni e dei cangiamenti di dinastia. Restai presso il conte di Crac fino a tanto che vissero quelle due sante donne che io amava. Appena, però, ebbi loro chiusi gli occhi per sempre, mi affrettai di sgravare il mio bravo zio dalla spesa del mio mantenimento e ritornai a Napoli. Avendo vissuto quasi sempre all’estero, o ad Altamura, il numero dei miei amici era molto limitato. Se taluno me ne restava, alcuno non si avvisò a stendermi la mano. Non si riconosce volentieri un uomo che ha il cappello sbiadito, gli abiti logori, e che può dirvi da un momento all’altro: “Non ho mangiato, prestami una piastra!„ Da parte mia, non feci nessun tentativo.

— Non avevate parenti, dunque, signor conte? gli chiese la sua danzatrice.

— Piccina mia, il povero non ne ha mai. Però una circostanza mi fece incontrare una [p. 267 modifica]vecchia conoscenza. Nel tempo in cui viveva mio padre, io ebbi un giorno a pagare una somma che non possedevo. Fui presentato ad un notaio, il quale me la trovò senza troppo taglieggiarmi. Restammo in relazione di semplice saluto. Quando c’incontravamo: “Servitor umilissimo, signor conte! — Buon giorno, don Crescenzio!„ ed ognuno tirava dritto per la sua via.

“Un giorno, io passeggiava alla Villa, con uno stuzzicadenti alla bocca per rimpiazzare il pranzo, quando vidi don Crescenzio trottar dietro ad una cameriera inglese, la quale non lo comprendeva punto, perchè il gonzo notaro non le parlava la lingua delle sovrane. Don Crescenzio era galante. Egli arrossì nel vedermi. Io sorrisi. E’ si ricordava della storia del mio processo e delle mie sciagure.

“Egli era a sua volta, alla pista di don Terenzio, cui il governo aveva mandato procuratore del re in Sicilia. Me gli avvicinai. Egli s’informò de’ miei affari, sbirciando di un occhio esperto i miei tisici vestiti. Gli risposi ridendo:

— Affè di Dio, don Crescenzio, credo che uno di questi giorni andrò a chiedervi un posto di commesso.

— L’avete già, m’interruppe il notaro. Vi prendo a parola. Ho la vettura alla porta della Villa. Venite: vado ad installarvi in casa.

“Non glielo feci ripeter due volte. Eccoci in vettura.

“ — A casa, cocchiere.

“Fui ammesso nello studio e mi v’impiantai. Ciò durò due anni. Io era più che uno scrivano [p. 268 modifica]pel notaro, era un amico. Osservai, dal secondo giorno, delle cose che mi parvero equivoche. Volli andare al fondo. La curiosità mi ritenne in quello studio. L’abitudine mi fece prender radice nella cosa.

— Ci direte ora, signor conte, interruppe il carceriere maggiore, quale era codesta cosa?

— Un po’ di pazienza. Una sera, a mezzanotte, avvenne una strana circostanza. Non so precisamente come ciò ebbe luogo, nè quale fu la causa di questo avvenimento. Vi ho già detto che don Crescenzio amava il sesso forte: vi era dunque una donna sotto cappa. Il fatto sta che don Crescenzio ci capitò in uno stato disperato. E’ portava degli stivali ad imbuto, alla moda del tempo del Direttorio, larghissimi all’imboccatura. Codesti stivali, non so dove nè come, erano stati riempiti di bracie ardenti. Don Crescenzio era stato, in seguito, gettato alla strada, correndo, gridando, gemendo come un’anima del purgatorio.

“Allo strepito, una pattuglia notturna era accorsa.

“Chi va là?

“ — Il fuoco! il fuoco! gridava don Crescenzio.

“La guardia si avvicinò. Il notaro gridava sempre, saltabeccando: al fuoco! al fuoco! Una spiegazione ha luogo alla fine. Si decide di cavargli quei disgraziati stivali. Era troppo tardi. Le gambe erano arrostite. Il chirurgo chiamato, temendo la cancrena, si apparecchiava a tagliargliele senza più. Il notaro s’oppose a questo accorciamento di mezza la sua persona, dando [p. 269 modifica]per ragione che non aveva già di troppo della persona intera, quantunque lo si chiamasse Crescenzio. La sua ostinazione fu fatale. La cancrena si dichiarò. Otto giorni dopo era morto.

Requiescat! gridò l’assemblea.

L’ex-cameriere soggiunse:

— Un brindisi alla sua entrata in paradiso.

Si fe’ ragione alla pia proposizione. Ed il conte riprese il suo racconto.

“Il notaio mi aveva trattato sempre da amico. Avanti di morire, volle provarmi che lo era realmente, proponendomi la direzione di quella casa di commercio, cui egli addimandava il suo studio. Mi credetti allora in debito di chiedergli dei ragguagli più precisi. Seppi quindi, ciò che, del resto, io aveva presso a poco indovinato, che il notaro rappresentava una società, la quale aveva intrapresa l’opera umanitaria di livellare le ricchezze e faceva di tanto in tanto sparire i dissidenti che nuocevano sia ai membri, sia agli interessi della filantropica associazione.

— Birbi, per dio, brontolò il carceriere in capo.

“Avendo preso esatta cognizione dello scopo, dei mezzi, del personale della società, io cominciai a darle un’ordinanza più amministrativa. Portai a ventisei il numero degli amministratori e dei consiglieri, aggiungendovi gli aspiranti, ed i soprannumerari e formai così un insieme di sessanta giustizieri. Poi intavolai delle trattative all’estero, onde stipulare dei trattati di libero commercio e con i cittadini indipendenti delle foreste della Sila, in Calabria, [p. 270 modifica]onde avere all’uopo un corpo di riserva per l’esecuzione degli statuti dell’ordine. Avendo organizzato i miei uffizi, mi diedi ad intraprendere delle operazioni in grande. Io divideva gli utili più equamente che certe banche e certe società autorizzate dalla legge. Poi, sulla mia metà, io pagava i premi d’incoraggiamento per le invenzioni, le scoperte, i miglioramenti. Senza questi premi, le belle arti non prosperano — vedete in Inghilterra! Sulla mia parte, altresì, io pagava gli sbirri, i commissari, il prefetto, il ministro di polizia e dava delle sovvenzioni ai magistrati. Tutta questa gente ha diritto a vivere, tanto più che due terzi almeno di costoro sono, o sono stati, del mestiere. Tassai del cinque per cento le paghe, per i fondi delle vedove, degl’invalidi, degli infermi. Appo di noi il pauperismo ed il proletariato era abolito. Così organizzata, la società novella prosperò, al punto che la nostra repubblica aumentava tutti i giorni ed era già più popolosa di quella di San Marino. Degli uomini di tutte le classi e di tutte le condizioni ci indirizzavano domande di ammissione e di neutralizzazione, di guisa che se la cosa fosse durata ancora, fra quattro o cinque anni avremmo avuto uno Stato più considerevole di quello del duca di Modena e forse dello stesso granduca di Toscana. Un affare magnifico, che avevo intavolato, venne a mettere in sospetto il governo.

— Più bello ancora che gli altri? dimandò il carceriere in capo, al quale questo racconto faceva venire l’acquolina in bocca.

— Giudicatene, disse il conte. [p. 271 modifica]

“V’era allora un canonico dell’arcivescovado, il quale ci aveva fatte delle proposte per essere ammesso nel consiglio d’amministrazione della società. Costui era il tesoriere stesso del tesoro di San Gennaro. Mediante la promessa di accettazione della sua domanda, ventimila ducati di benvenga e la sua parte di benefizi, io lo aveva persuaso di darmi licenza a lanciar nella circolazione quell’immenso deposito di ricchezza improduttiva, che si chiama — Tesoro di San Gennaro. — Credete voi che il cranio tarlato d’un buon diavolaccio, il quale professava, vivendo, il principio della povertà evangelica, abbia bisogno di tanti diamanti, di tanto oro, di tanto argento e di quella corte di settanta ad ottanta statue colossali di santi in argento? Ciò deve offendere la sua santità e quella profusione di gioielli deve urtare la semplicità aristocratica dei suoi gusti.

“Il canonico, uomo di logica, ammise questi principii e tutto fu ammannito: seghe, scarpelli, chiavi, leve, accette e persino un fornello per conciliare e fondere insieme quelle statue, le quali non dovevano mica andar troppo d’accordo, le une essendo di gesuiti, le altre di domenicani e francescani, quelle di vergini e quelle di vecchie.

“Aimè! ricevetti avviso da un corrispondente della società: cavalleria, fanteria, gendarmi e sbirri gironzavano intorno la Cattedrale. Eravamo stati traditi. Il canonico aveva avuto dei rimorsi: egli aveva calcolato che non avrebbe avuto che una parte degli utili, mentre poteva prendere il tutto! E’ non si trovava ab[p. 272 modifica]bastanza rimunerato del pericolo d’esser impiccato.

— Scellerato! urlò l’uditorio di una sola voce.

“Avendo attirato gli occhi del pubblico sulla società, la polizia non poteva più chiudere impunemente i suoi. Bisognò pensare alla liquidazione ed alla dissoluzione. Diedi i miei conti, che furono accolti con un triplice grido di tripudio. Ci dividemmo i profitti da gente onesta. Deposi in mani sicure (quelle del presidente d’una corte d’appello) le memorie segrete del notaro Crescenzio, conservate fino allora tra le carte segrete del gabinetto, noleggiammo un cutter e ci imbarcammo per la Calabria, ove i nostri confratelli ci aspettavano. Quelli fra i nostri soci, che temevano il mal di mare e la brezza fresca dei boschi, restarono a Napoli, onde ritentare gli affari, sotto altro nome ed altri capi — serbandoci un ottavo dei beneficii. Portavamo con noi delle ricchezze immense. Tutto prometteva un avvenire così propizio come pel passato....

“La tempesta ci diè addosso e ci spezzò vicino Paola. Il cutter si spaccò come una melagrana, e colò a fondo, con uomini e roba. Avevan ragione quegli scaltri mariuoli d’aver più confidenza nel vino che nell’acqua!"

— Fuori la legge, l’acqua! si gridò da ogni banda tra grugniti all’acqua e tra evviva al vino.

“Quattro o cinque di noi, che sapevamo nuotare, ci salvammo, ma poveri come Adamo quando escì dal suo giardino. Fu spedito un inviato straordinario agli amici della Sila. Gli [p. 273 modifica]anziani di quella repubblica si riunirono immediatamente e decretarono che ci si manderebbe una guida e del denaro. Ed invero otto giorni dopo bevemmo insieme alla prosperità della nostra associazione. Il consiglio si riunì. Discutemmo gli affari e si principiarono nuove operazioni. Avevamo due metodi.

“Per queglino che riconoscevano senza resistere i diritti della società e pagavano le nostre tasse.... feste, canti, inni, piaceri e belle crapole. Poichè noi avevamo persino il poeta laureato della società e poi cantanti, ballerine, odalische, e tutto ciò che segue; — per queglino che insorgevano e si rifiutavano di pagare, il procedimento era logico. Si rimandavano in dettaglio ai loro parenti. Di rado, dopo aver spedito le orecchie, il naso ed una mano, occorrevano ulteriori raccorciamenti. Il denaro arrivava, il renitente partiva. Tutto andava, dunque, a gonfie vele. Ma in questa valle di lagrime, nulla e nessuno non isfugge al suo destino. L’uomo, d’altronde, non pensa mai che a difendersi dai suoi nemici. Lo sciocco! Egli dimentica gli amici!

— Foste, dunque, tradito di nuovo? chiese il carceriere in capo.

— Come sempre.

“Ora egli avvenne che il prefetto ed il suo segretario non andarono di accordo; poichè questi si trovava defraudato nella divisione della parte che facevamo alla prefettura. Il prefetto, dunque, fu costretto ad agire. Una notte i gendarmi e la truppa sorpresero il nostro accampamento. [p. 274 modifica]

“La fucilata fu terribile e durò tutta la notte. Ebbimo il nostro Waterloo. Quelli che sopravvissero al disastro si dispersero.

— Dio buono, sè v’è della gente disgraziata! sclamò la bella danzatrice del conte.

“Ben disgraziata! riprese il conte. Imperocchè che vita mai è quella del brigante! I suoi possedimenti sono illimitati. I suoi diritti sono completi e senza restrizioni. La sua religione non ha liturgia. Egli non riconosce questa oltracotanza sociale, che si chiama il tuo ed il mio. Viver libero in mezzo ad una natura libera e potente, la vôlta del cielo per palazzo, i fiori e le brughiere della foresta per tappeto! La prima donna che incontra è sua. I suoi amori sono febbre e rabbia: le sue orgie drammi che finiscono sempre coll’emozione possente dell’assassinio. È poi, sopratutto, il certaminis gaudia di Claudiano.... Bisognò rinunziare a tutto ciò.

— Povero signore! sclamò una vecchia.

“Cangiai di vestiti, continuò il conte, e, travestito, passai nella Basilicata, provincia limitrofa. Avevo imparato il disegno. Ma non ero che un dilettante e non facevo quel mestiere che per gusto della scienza geologica e mineralogica.... Le mie risorse principiavano a venir meno. Bisognò provvedere. Apersi una fabbrica di vescovi, poichè io facevo vedere le lettere che mi scriveva mio zio, prelato della Congregazione dei vescovi, ecc., quegli appunto che manipolava questa bisogna sotto Gregorio XVI.

— Ed era vero?

“Sì. Solamente ciò proveniva dal bagno di Civitavecchia ed il venerabile autore della let[p. 275 modifica]tera, cui io riceveva autenticamente, dalla posta, al nome del barone di Canzano, era un antico commesso del notaro don Crescenzio. Chi non se l’avrebbe bevuta? Carta, suggelli, stile, pietà, unzione episcopale, scienza, nulla mancava a quelle ammirabili lettere, che facevano onore agli uomini di Stato di sua Santità. L’arciprete del paese, che si trovava troppo piccolo al suo posto, aspirò a servir la Chiesa in qualità di vescovo, mediante duemila ducati anticipatamente pagati. Promisi ed intavolai subito una corrispondenza con mio zio a Roma e col suo agente presso il ministro del culto a Napoli. Un mese non era scorso quando arrivarono le bolle da Roma. E nulla vi mancava. L’arciprete ricevette le congratulazioni dei suoi parenti, dei suoi amici, del suo collega di Potenza, di tutti gli impiegati del governo e si apparecchiò a partire per Roma. Io ebbi a partire avanti di lui.

— Un altro tradimento? gridarono tutti a coro.

“Peggio ancora, una donna! Ah! signori miei, credetemi; non c’è malore che non abbia un’Eva per punto di partenza.