Il sorbetto della regina/Parte seconda/X
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CAPITOLO X.
Un abate come un altro.
Tre mesi sono passati.
Gli avvenimenti hanno progredito e precipitano verso lo scioglimento.
Sbarazziamo la nostra via.
Il padre di Bruto e la povera Tartaruga sono morti.
Il marchese di Diano se l’è svignata a Parigi, ed è probabile che, avendo mangiato del frutto proibito, non ritorni così tosto a Napoli.
Don Gabriele ha arricchito il suo repertorio di nuove commedie, che gli fanno ogni sera teatro pieno.
Bruto, profondamente malinconico, ha cessato di vedere il conte di Ruitz. È d’uopo credere però che sia costui che per favore postumo l’abbia fatto nominare secondo medico della regina madre. Il conte Ruitz si è consolato dei suoi dispiaceri e dell’abbandono di Bruto colla conoscenza che ha fatto di uno dei suoi compatriotti, bello e vigoroso garzone di ventisei anni, ch’egli chiama non saprei se consigliere, barone, conte, addetto d’ambascia.... Franzt Hobermann.
Lena, sotto il nome di Ondina, fanatizza i dilettanti di musica italiana al teatro Ventadour a Parigi, ma i suoi allori non le fanno dimenticare il padre. La polizia corre dietro alle tracce di Cecilia, la quale è sparita col marchese.
Ed ora veniamo al colonnello.
Quando l’ispettore di polizia, quattro gendarmi e sei birri trascinarono dalla sua casa il colonnello, Tartaruga, conoscendo gli usi della città, fece scivolare qualche moneta nelle mani dell’ispettore, dicendogli:
— Signor ispettore, lo raccomando alla vostra carità.
L’ispettore sorrise scuotendo il capo di un modo significante.
Il colonnello comprese subito la causa del suo arresto: ebbe paura. L’uomo, che aveva veduti tanti campi di battaglia, ebbe paura di trovarsi fra gli artigli della polizia. Imperocchè l’uomo onesto aveva sempre paura, sotto i Borboni, di trovarsi là, dove ei lasciava talvolta l’onore, sovente la libertà, sempre la borsa.
Gli sbirri, che hanno sempre perspicacia, immaginandosi che il colonnello, colla sua gamba di legno, potesse aver l’idea di scappar via, gli si serrarono intorno e gli misero le manette — o piuttosto una manetta — attaccando il suo unico braccio all’unica sua gamba con una corda. Poi, siccome non si deve mai prendere precauzioni a metà, quando se ne prendono, strinsero la corda con tanta previdenza che la gli penetrò nelle carni.
Il colonnello lasciò fare senza profferire un lamento.
Arrivati al corpo di guardia, lo gettarono in un buco orribilmente fetido e formicolante d’insetti, ove non poteva tenersi nè in piedi, nè coricato. Se il colonnello avesse conosciuto il confessore del re, o se avesse potuto mandare una bella donna dal ministro di polizia, se avesse potuto disporre di una borsa ben gaudiosa (che è sempre più efficace delle indulgenze plenarie), il suo atto d’accusa si sarebbe trasformato in un panegirico. Ma non avendo nulla di tutto ciò, restò alla segreta con quel manicherino che non era per fermo di tela d’Olanda.
Per esser giusti, diremo che il commissario di polizia del quartiere, Silvestri, era un uomo eccellente. Non aveva che due minimi difetti: era collerico e credeva che chiunque avesse bazzicato la Francia, da presso o da lontano, fosse carbonaro ed ateo. Ora un ladro, un assassino, un usuraio, un denunziatore potevano lusingarsi di trovare indulgenza presso questo paterno commissario; ma uno studente che avesse trasandata la messa, una donna leggera provocatrice al peccato mortale, un uomo in collera che avesse bestemmiato, si fosse pur santo Cesare, tutti questi non avevano nulla da sperare.
A queste disposizioni benevole del commissario s’aggiunse l’insinuazione dell’ispettore, il quale, trovando insufficiente la mancia di Tartaruga, dipinse il colonnello come uomo che non temeva nè la Corte della terra, nè quella del cielo. Questo commissario aveva inoltre l’abitudine di recarsi al suo ufficio con premura, quando era in collera — per igiene — perocchè allora la sua bile non gli si spandeva pel corpo, ma cadeva sull'anima vili che gli capitava fra le mani.
In questa condizione di cose, il commissario Silvestri sedette pro tribunali e si fece menar dinanzi il colonnello. Il cancelliere, che era solamente un po’ sordo, gli si mise vicino.
Il colonnello restò in piedi. Il signor Silvestri fiutò una presa di tabacco, mise gli occhiali, squadrò da capo a piedi, da uomo che se n’intende, il delinquente, e, tenendo a briglia la sua irascibilità, principiò l’interrogatorio.
— Come ti chiami?
— Pietro Colini.
— La patria?
— Moliterno, in Basilicata.
— L’età?
— Cinquantadue anni.
— La tua professione?
— Soldato.
— Perchè sei stato arrestato?
— Ve lo dimando, signor commissario.
Il cancelliere scrisse: “Per contrabbando; sono emissario.„
— Conoscete il marchese di Diano?
— No.
— Ah! ti metti sulla negativa al presente?
— Io non mentisco giammai, signor commissario.
— Ti sei, ad ogni modo, battuto in duello ed hai ferito il tuo avversario.
— Mi sono difeso.
— Allora confessi?
Il cancelliere scrisse ancora: “Malora ai processi!„
Il colonnello risponde, il commissario continua.
— Confessa ora le cause di questo duello.
— Non ne conosco nessuna.
Il cancelliere scrisse: “Al bosco, alla bruna.„
— Menti, gridò furioso il commissario. Non si batte in duello come si fuma un zigaro. Quando se ne ha uno, si sa bene perchè.
— Signore, rispose il colonnello con calma, il verbo mentire non esiste nel dizionario della mia vita. Io non ho mai mancato al sacramento dell’onore.
— Ah! eccolo là, che fabbrica ora un ottavo sacramento, come se i sette della Chiesa non bastassero al dogma cristiano. Per questa sola eresia meriti le galere.
Il cancelliere scrisse domanda e risposta, così: “Senti non si tratta di vitello, nè d’allume, nè di zigaro. Quando se ne ha uno, lo si tiene per sè. — Signore, il verbo si fa sentire nel santuario della mia vita ed io non gli ho mai marcato un sentimento di orrore.... Ah! eccole che fabbrica un ottavo supplemento, come se gli insetti della chiesa non mangiassero il dogma cristiano.„
L’interrogatorio continuò su questo tono. Quando fu finito, il commissario lo firmò ed inviò il colonnello a Santa Maria Apparente, la peggiore di tutte le prigioni della polizia.
In questo mentre Ondina otteneva a Parigi, mediante Donizetti e la benevolenza del principe di Joinville, che il ministro degli affari esteri ponesse la questione: se il colonnello non doveva essere riconosciuto come facente parte dell’esercito francese e come tale reclamato.
L’ambasciatore di Francia a Napoli, istruito delle pratiche incominciate, insistette per la messa in libertà del colonnello.
Il ministro degli affari esteri del re Ferdinando opinava che non valeva la pena di attaccar briga col gabinetto francese per un uomo, a proposito del quale la stampa avrebbe fatto un diavolerio, appena la storia se ne fosse divulgata.
Il re rispose: che il delitto essendo stato commesso nei suoi dominii, la legge doveva avere il suo corso e il giudizio il suo effetto.
Ora il duello era punito coi lavori forzati. Il re odiava il colonnello Colini, di cui gli avevano raccontata la storia; era ostinato, si millantava della sua indipendenza e faceva le mostre di sprezzare la Francia.
Il caso era grave.
La Russia e l’Austria appoggiavano il re.
L’ambasciatore di Francia, mediocremente soddisfatto della risposta di Sua Maestà e della benevolenza dei suoi colleghi, risolse di prenderla sur un tono alto con questa Corte di Napoli, che trattava in maniera così infame i soldati della Francia, gli eroi di Napoleone.
Egli chiese, in conseguenza, che il giudizio fosse pronunziato immediatamente. Esigette ed ottenne che l’accusato fosse trasportato in una prigione più sana, perocchè il colonnello era già ammalato e minacciato di tifo. L’ambasciatore scelse in seguito uno degli avvocati più considerevoli del foro di Napoli, don Terenzio Siniscalchi, il quale da semplice commessuccio, spinto dalle brezze della Corte, aveva percorso rapidamente il cammino ed era giunto al culmine della fortuna.
Le domande dell’ambasciatore furono mal viste, poco gradite, ma si diè loro soddisfacimento.
Il colonnello steso sur una barella fu trasportato alla prigione di San Francesco.
Lo cacciarono in un dormitorio, ove erano già una quarantina di persone civili, vale a dire che potevano pagare al direttore della prigione un po’ di libertà e di benessere e si lasciavano taglieggiare da lui senza lagnarsi.
Da otto giorni era arrivato in quella sala un notaio falsario, dicevasi, il quale, mediante una considerevole somma, si era redento dall’orribile carcere della Vicaria.
Due giorni dopo, quel notaio padroneggiava la sala ed i suoi compagni agghiadati di terrore. Egli, pertanto, parlava poco, non aveva che un gesto famigliare, dietro al quale un uomo cadeva morto o ferito. Passeggiava lentamente, fumando la pipa e squadrando di uno sguardo rosso di sangue chiunque osasse fissarlo in faccia. Portava vestiti convenienti ed un berretto di pelle di lontra sul capo. Dava denari, senza contare, a chiunque ne avesse bisogno, ai carcerieri e a chi lo serviva.
Quando nei primi giorni un ex-banchiere gli domandò chi si fosse e di che delitto la giustizia lo accusasse, e’ non rispose che alla prima domanda, e disse:
— Io sono il reverendo abate di questo luogo.
Lo si ebbe per detto; e da quel giorno non lo si addimandò altrimenti che il reverendo abate.
Appena il colonnello si fu coricato sul suo strapuntino, l’abate gli si avvicinò e alla sua volta gli chiese il suo nome e il delitto. Il colonnello rispose laconicamente e si volse, dall’altra parte dicendo: “E voi?„ senza aspettar la risposta. L’abate venne da quest’altra banda, sedette sul letto rimpetto al colonnello, incrociò una gamba sull’altra, cacciò una mano nel corpetto e continuò a fumare come un uragano senza più schiuder labbra.
Una febbre spaventevole bruciava il colonnello.
Il medico non doveva venire che l’indomani.
L’abate gli tastò il polso e fece segno a due prigionieri. A uno disse:
— Chiama don Gennaro e digli di far portare un’aranciata. Ecco il danaro.
All’altro:
— Salassa quest’uomo.
E presentò un temperino a questo chirurgo d’occasione.
I due ordini furono eseguiti.
L’indomani venne il dottor Sibari, un allievo di Tibia.
Questo dottore aveva compreso che il governo, avendo premura di spopolare le prigioni senza strepito, sorrideva al tifo ed agli agenti della provvidenza che giustificano la teoria di Malthus. Da fedel suddito, il dottor Sibari eseguiva gli ordini dei suoi superiori, a meno che l’ammalato non gli mettesse in mano alla prima visita il prezzo anticipato dei suoi consulti.
Il colonnello non conosceva gli usi della casa.
Il dottore, quindi, invece di farlo trasportare all’ospedale della prigione, lo lasciò nel dormitorio: “Non è nulla.„
Il dottore era partito da un’ora, quando la porta della camera s’aprì ed il carceriere accompagnò al letto dell’ammalato un ometto tutto lindo, a cappello, di crini neri, occhiali d’oro, cranio calvo, naso e mento appuntiti, labbra strette e sottili, vivace, pronto, fresco come un maggiociondolo. Era l’avvocato dell’ambasciata di Francia, don Terenzio Siniscalchi in persona. Il quale non avendo potuto cavare alcun costrutto dall’interrogatorio redatto dal cancelliere della polizia, lo si può bene imaginare, veniva ad informarsi dal cliente dei fatti e delle cause.
Don Terenzio godeva d’una riputazione colossale nel fôro di Napoli. Si raccontava ancora un processo, avocato da lui, nel principio della sua carriera, e che era stato l’origine della sua fortuna. Egli è vero che don Terenzio respingeva con tutte le sue forze l’onore che gli si voleva attribuire, ricordando la sua prima causa. Ma il fatto non era per questo meno vero e merita di essere riferito.
Il conte d’Altamura, uno dei più nobili napolitani che avevano acclamato la repubblica Partenopea del 1799, aveva comperato il feudo del principe di Sora, vendendo a tale scopo tutto ciò che possedeva, e contraendo un debito onde completare il prezzo di compera. Il figlio del principe di Sora, bellissimo giovane, marchese d’Atella, aveva seguito la Corte dei Borboni in Sicilia ed erasi cattivato il favore della regina Carolina, la quale amava i bei giovani, ciò che non le impediva di amare altresì anche le belle donne. Quando i Borboni furono ricondotti a Napoli dal cardinal Ruffo, Nelson ed Emma Liona e che la repubblica naufragò nel sangue, il marchese d’Atella reclamò la restituzione del suo feudo, asserendo che suo padre non aveva facoltà di vendere ciò che era un appannaggio costituente il suo maggiorasco e che il conte d’Altamura non poteva restarne possessore, perchè aveva.... accettato la repubblica e simpatizzato con la Francia! S’intavolò un processo, che avanzò rapidamente sotto l’impulso della regina e di Emma Liona.
Però, per quanto presto procedesse, gli avvenimenti correvano ancora più celeremente che le sentenze dei tribunali, e Napoleone emetteva dei decreti che volavano come quelli del destino. Il processo non era, adunque, ancora terminato, quando i Borboni furono di nuovo ricacciati in Sicilia, e Giuseppe da prima, poi Gioacchino vennero ad occupare la prefettura reale di Napoli.
In questo frattempo il conte d’Altamura moriva e lasciava un figliuolo minorenne ed una vecchia vedova. Il processo si agghiadò. Ma il minorenne toccò l’età virile, divenne conte d’Altamura ed accelerò il processo, che si giudicava in ultima istanza e definitivamente quando il 1815 arrivò, Napoleone cadde, Murat fu fucilato, Ferdinando di Borbone ritornò di Sicilia ed il processo stava per essere deciso. Si consigliò al conte d’Altamura di prender per avvocato don Terenzio Siniscalchi, ben visto alla corte in quell’epoca e perciò temuto dalla ruota dei giudici.
Il conte d’Altamura, avvegnacchè lo sprezzasse, impegnò l’avvocato, il quale in realtà aveva più ingegno che fortuna e più scienza legale che moralità. Il giuoco era pericoloso. Andare a scegliere, — lui murattista, — un avvocato del partito borbonico per un processo, di cui si faceva una specie di dichiarazione di principii ed un affare di partito! Avvenne ciò che il conte d’Altamura avrebbe dovuto prevedere. Il marchese d’Atella comperò l’avvocato. La Partanna, seconda moglie del re, ordinò a don Terenzio di condursi bene. Il principe ereditario disse una parola al ministro della giustizia, il quale ne disse un’altra al presidente della Corte. Il giorno dei dibattimenti giunse. Don Terenzio, prima di recarsi al tribunale, assicurò il conte che il processo era guadagnato, e gli ripetè tutte le ragioni legali che gl’inspiravano tale fiducia. L’ora di arringare suonò.
La sala era zeppa; l’aspettativa indicibile; la curiosità eccitata al più alto punto. Don Terenzio principiò la sua difesa.... Ohi sventura! l’ansietà gli cagiona come un’apoplessia d’idee. S’imbroglia, balbetta. Una specie d’angina lo soffoca. Uno spossamento cerebrale annienta la sua scienza legale, oblitera tutte le ragioni del suo cliente.... La causa è perduta.
Il conte d’Altamura, sua madre, la giovine sua moglie sono ridotti alla miseria. Il feudo comperato col loro denaro è loro tolto.
Da quel momento don Terenzio fu celebre.
Tale era il personaggio a cui l’ambasciatore di Francia confidava la difesa del colonnello, e che tenevasi ora al capezzale del suo cliente.
L’entrata di quell’uomo nella prigione parve un avvenimento. Una immensa curiosità si destò fra i prigionieri. Tutti vollero vedere il lion del fôro napoletano: questi per il semplice piacere di contemplar la sua persona, quegli per chiedergli un qualche consiglio. L’abate solo non si mosse dal suo posto e non gli diede neppure uno sguardo.
In fine la siepe dei prigionieri si allargò ed il cliente e l’avvocato si trovarono in presenza l’un dell’altro.
Parlavano in secreto da dieci minuti, quando un ruggito di tigre echeggiò dalla parte in cui l’abate fumava placidamente. Fu un lampo, in minor tempo che il tuono non metta a seguire la folgore. A questo grido di morte, scappato dal petto dell’abate, l’avvocato si volse. Non ebbe nè il tempo d’impallidire, nè la facoltà di gridare, nè la forza di fuggire. L’abate gli stava sopra.
— Grazia, conte d’Altamura, gridò don Terenzio.
L’abate gli conficcò tre volte un coltello nella gola, poi rispose con voce divenuta calma adesso:
— Il conte d’Altamura non è il re.
Egli fece, quindi, risonare il calcagno del suo stivale sul cranio dell’avvocato, leccò qualche goccia di sangue spruzzato sulla mano, gettò il coltello nel mezzo del dormitorio e si ritirò tranquillamente al suo posto, soggiungendo:
— Al presente, non mi resta più nulla a fare in questo mondo. La mia parte è compiuta.