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tera, cui io riceveva autenticamente, dalla posta, al nome del barone di Canzano, era un antico commesso del notaro don Crescenzio. Chi non se l’avrebbe bevuta? Carta, suggelli, stile, pietà, unzione episcopale, scienza, nulla mancava a quelle ammirabili lettere, che facevano onore agli uomini di Stato di sua Santità. L’arciprete del paese, che si trovava troppo piccolo al suo posto, aspirò a servir la Chiesa in qualità di vescovo, mediante duemila ducati anticipatamente pagati. Promisi ed intavolai subito una corrispondenza con mio zio a Roma e col suo agente presso il ministro del culto a Napoli. Un mese non era scorso quando arrivarono le bolle da Roma. E nulla vi mancava. L’arciprete ricevette le congratulazioni dei suoi parenti, dei suoi amici, del suo collega di Potenza, di tutti gli impiegati del governo e si apparecchiò a partire per Roma. Io ebbi a partire avanti di lui.

— Un altro tradimento? gridarono tutti a coro.

“Peggio ancora, una donna! Ah! signori miei, credetemi; non c’è malore che non abbia un’Eva per punto di partenza.