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canza di guanti e di cravatte bianche, di brache corte e di scarpine. L’olio ordinario delle lampade della notte se ne andò intero a spalmar zazzere e baffi. Codesto non odorava forse bene, ma brillava. Infrattanto si provavano a ricordarsi ciò che sapevano di ballo e per rendersi più snelli ed elastici si regalavano di famosi calci, saltabeccando e sgambettando. Don Eugenio, ex-cameriere, s’era costituito maestro di cerimonie.

A sett’ore si udì scricchiolare la toppa della porta. Il carceriere addetto a questa sala lasciò entrare il carceriere in capo, i suoi colleghi, una quindicina di donne, di cui cinque sole brutte o vecchie, poi richiuse l’uscio e restò dall’altra banda, prendendo la sua parte della festa a traverso il graticcio di sorveglianza.

La gente venuta di fuori, uomini e donne, era allegra ed azzimata a domenica. Il carceriere in capo fece la sua entrata con uno sgambetto e segando il violino di un colpo di archetto. Le risposte della chitarra, del mandolino e del flauto non si fecero aspettare. Mentre i prigionieri si tenevano allineati in due file ai lati della porta, il conte d’Altamura, da vero gentiluomo, andava incontro alle dame che aveva invitate.

La danza principiò immediatamente. In qualità di padrone di casa, il conte si aggiogò alla vecchia moglie del carceriere in capo e tentò un giro di waltzer. Poi si aggiudicò la più bella tosa della compagnia e ballò con lei la quadriglia, la tarantella e malann’aggiano i guai! anche la gavotta!