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“V’era allora un canonico dell’arcivescovado, il quale ci aveva fatte delle proposte per essere ammesso nel consiglio d’amministrazione della società. Costui era il tesoriere stesso del tesoro di San Gennaro. Mediante la promessa di accettazione della sua domanda, ventimila ducati di benvenga e la sua parte di benefizi, io lo aveva persuaso di darmi licenza a lanciar nella circolazione quell’immenso deposito di ricchezza improduttiva, che si chiama — Tesoro di San Gennaro. — Credete voi che il cranio tarlato d’un buon diavolaccio, il quale professava, vivendo, il principio della povertà evangelica, abbia bisogno di tanti diamanti, di tanto oro, di tanto argento e di quella corte di settanta ad ottanta statue colossali di santi in argento? Ciò deve offendere la sua santità e quella profusione di gioielli deve urtare la semplicità aristocratica dei suoi gusti.

“Il canonico, uomo di logica, ammise questi principii e tutto fu ammannito: seghe, scarpelli, chiavi, leve, accette e persino un fornello per conciliare e fondere insieme quelle statue, le quali non dovevano mica andar troppo d’accordo, le une essendo di gesuiti, le altre di domenicani e francescani, quelle di vergini e quelle di vecchie.

“Aimè! ricevetti avviso da un corrispondente della società: cavalleria, fanteria, gendarmi e sbirri gironzavano intorno la Cattedrale. Eravamo stati traditi. Il canonico aveva avuto dei rimorsi: egli aveva calcolato che non avrebbe avuto che una parte degli utili, mentre poteva prendere il tutto! E’ non si trovava ab-