Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Visi nuovi e amici vecchi
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VISI NUOVI E AMICI VECCHI.
Ad *** fu ricevuto con gran festa dai Goli e da sua sorella, ch’eran tutti e tre contentissimi della buona riuscita di quegli esami, coi quali si chiudeva il periodo più duro e malcerto della sua vita di maestro; e a lui parve di ritornare in porto dopo un lungo viaggio di nove anni, con qualche ammaccatura qua e là, con molte illusioni di meno, e con quel desiderio di pace che è il primo indizio della fine della gioventù; ma lieto d’esser vissuto molto, e d’aver ritrovato la via degli studi, e acquistato nelle prove passate nuove forze per i cimenti nuovi che l’aspettavano. Gli rimaneva ancora il dubbio che la giunta municipale di Torino, per mancanza di posti, non lo nominasse per quell’anno; ma una mattina gli arrivò la nomina di maestro alla scuola suburbana di Lucento, con mille lire: il più grosso stipendio che avesse mai avuto in vita sua. E allora non desiderò più nulla.
Ma un avvenimento straordinario per la sua città doveva chiudere la sua vita di maestro rurale, ed eran le conferenze pedagogiche, che il provveditore di Torino aveva bandite sei mesi prima, e a cui sarebbero concorsi maestri di tutte le parti del Piemonte, allettati anche un poco dalla gratificazione di venticinque lire, ch’era stata fissata per tutti. Le conferenze dovevan durare sette giorni. Il municipio di *** aveva destinato alle radunanze una vecchia chiesa e fatto predisporre un gran numero di letti. Sarebbe stata una specie di festa didattica originale e solenne, in cui il Ratti avrebbe certo riveduto parecchi dei suoi antichi colleghi dei villaggi. E questo pensiero lo rallegrava. Ma ebbe prima un altro vivo piacere, al cominciar di settembre: l’arrivo inaspettato di sua cugina, la quale cadde una sera come un razzo in casa Goli, portando una pelle di guanaco per la signora, un vasetto da prendere il mate per suo marito, una manata di frecce indiane per il Ratti e due cardinali per la sorella. Era vestita in una maniera bizzarra, con un poncho a scacchi bianchi e neri sulle spalle, e più ridente, più nervosa, più impetuosa, più poetica di quando era partita, come se con l’aria del nuovo continente le fosse entrato nel sangue un nuovo soffio di freschezza e di mattìa giovanile.
E per due o tre giorni assordò, abbarbagliò, commosse ed esilarò tutti quanti con ogni specie di racconti amabilmente bizzarri, facendo passare davanti ai loro occhi gli orizzonti della pampa e dell’Atlantico, le strade di Rosario e di Buenos Aires, i villaggi delle colonie e le isole del Paranà. Essa aveva lasciato dopo due anni l’America, non per altro che per l’invincibile bisogno che la forzava ogni tanto a cambiar tutto dintorno a sè. Ora s’era già assicurato un posto a Torino, in una ricca famiglia argentina, che voleva una maestra italiana che parlasse lo spagnuolo. Ma poi si sarebbe cercato un altro posto in una scuola italiana d’Africa, ch’era sempre la sua idea fissa: aveva in mente d’andar a raggiungere una sua amica piemontese che il Governo aveva mandato a Tripoli di Sorìa a dirigere un asilo infantile, dove c’era un centinaio di bimbi arabi, che imparavano l’italiano. Ah! ma in nessun luogo avrebbe trovato delle scuole così strane e così poetiche come le scuole italiane di Buenos Aires; sebbene le guastasse un poco la smania deplorevole che c’era, delle declamazioni e degli spettacoletti. Eran come l’immagine dell’Italia avvenire quelle scuole coi ritratti del re Umberto e di Giuseppe Mazzini l’uno accanto all’altro, con quella storia contemporanea che vi s’insegnava, già velata di poesia, come la leggenda, e con quella arditezza allegra d’avventurieri che anche i più piccoli ragazzi pareva che bevessero con l’acqua del rio della Plata. Che curiosa screziatura di scolaresca era quella, in cui si vedevan visi e si sentivano accenti di ogni parte d’Italia, tanto che, a far leggere dieci scolari di seguito, era come sentir la voce di tutte le province, da Venezia a Palermo! Ce n’eran di nati là, ma ancora tutti italiani di cuore e di lingua, per effetto della educazione che ricevevan dai parenti; altri che della patria non serbavan più che il ricordo come d’un sogno; parecchi ch’eran nati sui piroscafi o nei porti; molti arrivati di fresco, già grandicelli, con la famiglia ancora sossopra, che a sentir nominare l’Italia, di cui ricordavan mille cose, chinavano il capo e facevan gli occhi rossi; e moltissimi già mezzo “americanati„ i quali ogni giorno, nonostante la scuola, andavano perdendo un pezzo d’italianità, o nelle memorie, o nella lingua, o nel sentimento nazionale. Ed era amenissima la cugina a raccontare le fatiche che duravano i maestri per difender l’italiano dallo spagnuolo invadente, e come, a dispetto d’ogni cura, la lingua del paese penetrava da tutte le parti, ficcandosi nelle desinenze, alterando l’ortografia, forzando il giro delle frasi, così che certi componimenti dei ragazzi presentavano un carattere bilingue comicissimo, che pareva stato cercato per spasso. Come non perdonare ridendo a una bambina che vi scrive: Segnora maestra, yo mi arrepiento della mancanza che ho commesso.... yo le quieggo perdono, segnora, ed espero che vorrà concedermeló, con l’accento sull’o! Eppure, no, faceva pena invece a veder come i nostri ragazzi perdevano la lingua propria assai più presto di tutti gli altri, appunto perchè non la conoscevano, o l’avevano imparata malamente nelle prime scuole d’Italia, quasi come una lingua straniera!... Però, c’eran dei compensi. Era tanto dolce insegnar la storia patria a tanta lontananza dal proprio paese! Tutti quei nomi e quelle date che ricorrevano così spesso in quelle scuole, Garibaldi, Vittorio, il cinquantanove, Marsala, venti settembre, Daniele Manin, le cinque giornate, che suono nuovo avevano tra quelle pareti, che impressione più viva facevan nel cuore di quei ragazzi che in quelli di qua! Nella ricorrenza dei giorni memorabili della nostra storia, quando essa faceva un racconto d’occasione alla sua classe, vedeva tutti quei visetti colorarsi, gli occhi lampeggiare, delle lacrime cadere sui banchi, e anche le alunne più piccole, tocche dal sentimento dell’altre, senza bene comprenderlo, mettevan nei canti che rammentavano l’Italia lontana un accento, una vibrazione di voce che andava all’anima. — Ah sì! Anch’io, — diceva, — ho un bell’essere una testa vuota, un’anima nata per vagabondare, ma sentivo una grande nostalgia quando si scatenavano su Buenos Aires quei terribili temporali neri, in cui pare che al di là delle nuvole sia spento il sole, e allora, guardando la carta d’Italia appesa al muro, facevo il proponimento di ritornare in patria col primo postale, a qualunque costo, se anche avessi dovuto sbarcare a Genova col solo vestito che avevo addosso. So bene che qui ci trattan male e ci pagano peggio; ma è l’Italia! Oh! a proposito, — disse con uno dei suoi soliti salti, — sapete che c’era un negro che mi voleva rapire?
E così rallegrava la compagnia, rallegrata essa stessa dall’aspettazione delle prossime conferenze, le quali dovevan presentarle la più grande riunione di colleghi e di colleghe, che avesse ancor vista dopo che aveva dato gli esami di patente. E diceva per scherzo che, trovandosi fra tanti compagni affamati, si sarebbe spaventata come il conte Ugolino al vedere
Gli iscritti per le conferenze erano circa a mille; cominciarono ad arrivare una domenica, ogni treno ne versava delle cinquantine, l’ultimo della sera ne portò duecento, soltanto da Torino. Siccome, appena arrivati, si mettevano a girare, parve così che nella città si fosse raddoppiata la popolazione in poche ore. Mai non vi s’era vista una folla così varia e così singolare d’aspetto. In mezzo ai maestri zerbinotti, si vedevano i maestri rustici, dalle grosse cravatte di lana nera, dai larghi solini di tela dura rivoltati sulle giacchette alla cacciatora; accanto all’aristocrazia magistrale dei primi istituti femminili di Torino, le contadine dai larghi fianchi e dai rozzi vestiti a quadretti, alle quali non mancava che il paniere delle ova sotto il braccio; e misti a queste e a quelli, preti di tutte le età e di tutte le forme, con tonache di tutte le tinte, dal nero fresco al verde cavolo, con stivaletti di marocchino e scarpacce rotte, con pezzuole bianche profumate e larghi fazzoletti turchini tabaccosi. E nella stessa famiglia cittadina c’era una varietà grande: c’eran le signorine coi guanti fino ai gomiti, e coi vestiti da cinque soldi al metro; delle maestre messe con lusso vero, il cui vestimento rappresentava tre mesi di stipendio, e chi sa che lunga serie di colazioni e di desinari aerei; delle figure d’attrici, d’operaie, di educande, di sartine, di donne emancipate, di vecchie conferenziere, di vedovelle procaci; e tra gli uomini una non meno lunga gradazione di tipi e di valori intellettuali, dal maestro professore e cavaliere, autore di libri premiati e divulgati, al vecchio tirator di carretta che non legge più un libro da vent’anni, e russa in scuola e fa il Marat all’osteria. Tutta la città pareva mutata in una vasta scuola normale in ricreazione. Le strade e i portici erano affollati. Maestri e maestre andavano a gruppi di otto o dodici d’una città o d’un mandamento, a schiere che chiudevan le strade, a piccole processioni in doppia fila, ogni momento rotte e messe in disordine da incontri d’amici, da riconoscimenti inaspettati, da formazioni improvvise di crocchi o d’affollamenti che intercettavano il passo. E gli abitanti della città pure andavano in volta, maravigliati, dilettati dal rimescolìo di quella moltitudine, che portava per tutto un’ondata di gioventù, di letteratura, di pedagogia, di civetteria, di belle speranze e di vecchie miserie.
Fra i curiosi si gettò un dei primi il Ratti, impaziente di ritrovar degli amici, ed eccogli subito lì davanti don Leri di Garasco, solo, un poco incipriato alle tempie e con le spalle alquanto arrotondate dagli anni, ma sempre maestoso, e grave di alti pensieri. Al Ratti scappò da ridere ricordando la grand’opera La religione e la scuola, e pensò di domandargli a che volume fosse arrivato.... del Gaboriau; ma il prete lo abbordò con una così bella compostezza di grande dignitario della Chiesa, distratto per un momento dal corso d’una meditazione profonda, che la domanda gli morì sulle labbra. E lo piantò dopo i primi saluti, per cercar altri. Senonchè l’oscurità crescente gli tolse di riconoscere nuovi visi. Non gli sfuggivano, peraltro, in quella oscurità, i suoi moltissimi colleghi dei due sessi, che aspettavan l’ora d’andar a dormire, appoggiati ai pilastri dei portici e alle cantonate, vestiti poveramente, colle facce attonite o stanche, e che parevan vergognati di trovarsi in tanti, e avviliti d’esser fuori di casa, come emigranti affollati sulla calata d’un porto; ed egli pure, a momenti, si vergognava di loro, come aveva fatto altre volte. Ma reagiva contro a quella vergogna, pensando che era irragionevole. Forse che non avrebbero offerto lo stesso spettacolo tutte le classi professionali della società, ch’eran tutte una prova della disuguaglianza decretata dalla natura? Non si sarebbero viste anche più compassionevoli differenze, se si fossero raccolti insieme tutti i medici e tutti gli avvocati, dal Moleschott e dall’Orsini fino agli ultimi castracani e agli ultimi paglietta dello Stato? E cacciati questi pensieri, fu preso invece, a poco a poco, da quel fremito d’allegria e d’alterezza che serpeggia in tutte le grandi radunanze di genti della stessa professione, alle quali il trovarsi in folla ravviva il senso della propria importanza sociale e la coscienza della propria forza, come ai soldati il veder schierato il loro corpo d’esercito sopra una vasta pianura.
La mattina dopo, prima dell’otto, attraversando la piazza ch’era già affollata di maestri e di gente venuta in città per il mercato settimanale, nel punto che passava in mezzo a due baracche di rivenditori di tela, il Ratti si trovò a viso a viso con Faustina Galli.
Dopo la prima esclamazione di maraviglia, fecero l’uno e l’altro un gesto indeterminato, in cui si espresse il pensiero di tutti e due, che una stretta di mano fosse troppo poco per manifestare il piacere che provavano al rivedersi.
— Io la cercavo, — disse il maestro con la voce mutata. — Sapevo dall’avvocato Samis ch’era a Torino.
Sì, era da un anno a Torino. Non potendo più reggere nel villaggio dov’era morto suo padre, aveva concorso per Torino, con poca speranza, e c’era riuscita, forse perchè avevan dato un tema d’italiano, La poesia dell’infanzia, che le piaceva. Era stata nominata maestra suburbana al Rubatto. Così aveva il vantaggio di essere maestra di città e di vivere quasi in campagna, come pel passato. Le sue alunne erano ancora per la più parte figliuole di contadini. Aveva una camera nell’edifizio scolastico. Le era toccato un buon direttore. Era contenta.
Il giovane la guardava: qualche cosa c’era sul suo viso che accusava tre anni di più; ma appena una traccia leggera di stanchezza e d’appassimento, che, grazie al ricco vigore della sua natura, avrebbe ancora potuto esser cancellata dalla pace e dall’amore. Non aveva ancora un filo bianco nei capelli castagni finissimi; aveva sempre quella bocca piccola, fresca, dolce, buona, su cui pareva che sbocciassero come fiori le parole belle e generose. Il Ratti la fissò con quello sguardo che cerca i ricordi, e che somiglia allo sforzo che si fa con l’udito per afferrar le note d’una musica lontana. E gli entrò nel cuore una grande dolcezza. Abbassando gli occhi sul suo petto, vide il vestito che le faceva un po’ di borsa alle spalle, — il solito difetto dei vestiti che si tagliava ella stessa, — e quella vista finì d’intenerirlo.
— Io l’ho sempre ricordata, — le disse tutt’a un tratto, — e le ho sempre voluto bene.
Essa fece un movimento grazioso del capo, come per dire: — Ne dubito. — E poi gli domandò dove fosse maestro. Inteso ch’era a Torino, parve che cercasse, ma non le riuscì di nascondere un senso di maraviglia gradita. E gli domandò quando avesse dato l’esame.
Il Ratti le diede un cenno dei tre anni passati a Camina e a Bossolano, e del come s’era deciso a presentarsi al concorso; ma parlava quasi macchinalmente. Parlando, ripensava a quel terrazzino ad angolo, a quelle sante parole sull’infanzia ch’essa gli aveva detto i primi giorni, alla forza eroica con cui aveva sopportato i dolori e le privazioni, a quel non ne posso più disperato che gli aveva singhiozzato sul petto, e a quell’ammonimento fraterno che gli aveva bisbigliato all’orecchio, facendoci tremare il cuore: — Non beva; — e si ricordava dell’ultima volta che gli era apparsa sul terrazzino, straziata dal pensiero della morte imminente del padre, ma ferma e quasi altera contro il dolore, e così assorta ed immobile, che a lui era mancato il coraggio di salutarla. E s’interruppe per ripeterle con voce commossa: — Le ho sempre voluto bene.
— Oh che gran cosa! — rispose essa sorridendo. — Ed io pure a lei: non siamo stati sempre buoni amici? — E aprendo e chiudendo la bella bocca come se mandasse dei baci per aria, gli disse quanto aveva sofferto di vedergli prendere una cattiva strada, come era stata contenta quand’egli era tornato quello di prima, e con che tristezza aveva guardato la finestra della camera di lui, dove non abitava più nessuno, ritornando dal camposanto, dove aveva accompagnato suo padre. Ma il maestro quasi non l’ascoltava. Egli ripensava che quella era veramente la più buona e nobile creatura che avesse incontrato nella vita dopo sua madre; pensava a quell’espressione indefinibile che le soleva lampeggiar nel viso quand’egli le diceva una parola d’amore, e che gli faceva indovinare i tesori d’ardore e di tenerezza d’amante ch’ella nascondeva in fondo all’anima; pensava che fida e forte compagna sarebbe stata per un uomo quella donna in cui non aveva mai scoperto una frivolezza o una volgarità, che pareva stata impastata a un tempo per amare e per combattere, per soffrire e far felici gli altri: così gentile, così logica, così intrepida, così modesta. E le ripetè con maggior commozione: — Le ho sempre voluto bene.
Essa lo guardò, e le passò negli occhi un’espressione dolcissima; e aperse la bocca.... ma non disse nulla. Guardò intorno, guardò l’orologio, e con un accento soave e malfermo che non corrispondeva al senso delle sue parole, disse in fretta: — Debbo andare a un appuntamento con due amiche. La rivedrò alle conferenze. In ogni caso, c’incontreremo qualche volta a Torino.... — E gli domandò quando sarebbe partito.
Essendo gli ultimi di settembre, il maestro aveva deciso di partire l’ultima sera delle conferenze per trovarsi a Torino qualche giorno prima dell’apertura delle scuole. Lei pure sarebbe partita quella sera.
— Faremo il viaggio insieme? — domandò il maestro.
— Lo faremo insieme tutti — rispose essa sorridendo. — L’ultimo treno porterà via mezzo mondo. Sarà impossibile di ritrovarci. — Poi soggiunse, rifacendosi seria: — Avrò il piacere di rivederla a Torino.
Era il viso e l’accento con cui gli aveva sempre dato il rifiuto a Altarana. Il giovane n’ebbe un senso di freddo al petto. E tendendole la mano, le disse di malumore: — A rivederla.
Ma fatti cinque passi sulla piazza, voltandosi all’improvviso, vide che ella pure s’era voltata, e colse a volo un suo sguardo così vivo, dolce e luminoso, che gli inondò il cuore di gioia. Ah! quello era lo sguardo che tradiva l’anima e diceva il vero! E se n’andò tutto immerso e palpitante in quel pensiero, come in un raggio di sole.
Mezz’ora dopo egli andò alla prima riunione, ed assistette poi a tutte le altre, con grande curiosità, come a uno spettacolo di teatro. Le conferenze erano dirette dal provveditore Megári, il cui aspetto invecchiato gli fece da prima un senso di tristezza, che gli turbò il piacere di rivederlo. Egli stava con altri professori a un tavolo coperto d’un tappeto verde, sul davanti dell’altar maggiore. La chiesa era tutta affollata, e negli intervalli tra le letture e i discorsi risonava di un mormorio assordante, come se vi passasse a traverso un torrente. E là dentro appariva più strana che all’aria aperta la varietà della falange magistrale, poichè vi s’abbracciavano d’un solo sguardo, a centinaia, i cappellini piumati e infiorati, i fazzoletti da capo delle maestre contadine, gli zucchetti dei preti, le teste bianche, le capigliature grigie arruffate dei vecchi originali, le chiome lucide e ben divise dei giovani maestri. C’era sempre un vivo fermento; le discussioni accennavano spesso a burrasca. Molti eran venuti con delle proposte innovatrici, meditate da anni, alle quali tenevano con passione di monomani; alcuni con dei disegni di discorsi solenni, che dovevano abbracciare mezzo lo scibile umano; altri con atti d’ingiustizia da denunziare e riparazioni da chiedere: e a tutti questi, quando riescivano a parlare, le interruzioni o i dissensi cagionavano un’irritazione grandissima. C’eran di più, fra vari, delle rivalità di scrittori didattici, dei rancori nati da polemiche giornalistiche, i quali scoppiavano al minimo contrasto. In fondo, non dicevano gran cosa di nuovo: rifriggevano, con poche variazioni, le cose che da dieci anni tutti i maestri colti sapevano. Ma c’erano quattro o cinque oratori d’idee chiare e di parola facile, che allettavano l’uditorio e tenevano alte le discussioni: uno burbero aggressivo tonante, che pareva il malcontento incarnato di tutta la sua classe; un altro che impiegava tre quarti d’ogni suo discorso a chiarir meglio, com’egli diceva, i concetti che tutti avevan compresi alla prima, e parlava con una straordinaria umiltà di frasi e d’accento, come se avesse avuto un uditorio d’imperatori; una signorina sottile, con voce di soprano, con una petulante penna bianca sul cappello, audace, battagliera, infaticabile. Le discussioni, per altro, erano svariate da ogni sorta di episodi faceti. Il primo giorno una vecchia maestra rurale lesse un sonetto di cui nessuno capì l’argomento, fatto sullo stampo di quelli in onor dei santi, che i contadini attaccano all’uscio della stalla. Un’altra, rurale pure, domandò la parola sopra una quistione didattica, e cominciò schiantando tre quattro spropositi di lingua così madornali, che l’uditorio implorò per pietà che tacesse, ed essa lo esaudì, cortesemente. Infine ci fu un grosso prete di campagna, il quale, cominciato il suo discorso con intonazione conveniente al soggetto e al luogo, si lasciò vincere a poco a poco, senz’accorgersene, dall’abitudine del pulpito, e intonò una vera predica semicantata, con tutta la mimica convulsa dell’orator sacro, invocando, supplicando, imprecando, e provocò un baccano d’inferno. Il Ratti, nuovo a quelle adunanze, si divertiva altrettanto del contegno dell’uditorio che dei discorsi degli oratori. La parte cittadina dell’assemblea si accalorava: c’erano delle maestrine infiammabili che battevan le mani a tutti i maestri giovani, mostrando per aria le braccia nude, e dell’altre, più interessate nelle quistioni, che accoglievano certi giudizi degli avversari con atti di diniego furiosi, facendo tremare tutte le penne del cappellino, o li stavano a sentire con un continuo sorriso sarcastico: molte pigliavan delle note con rapidità, senza alzar la testa dal taccuino. Ma dei rurali la maggior parte si seccavano perchè non capivano. Alcune maestre facevan la calza. Una disse al Ratti, che le era accanto: — Non capisco; parlano un italiano troppo stretto. — Quasi tutti quelli della campagna, però, erano sbalorditi dalla cultura e dalla eloquenza dei loro colleghi di città, che parlavano come tanti avvocati, e atterriti insieme dall’audacia dei giovani maestri che osavano fare osservazioni contraddittorie persino al regio provveditore, e con un certo tono! Pareva a loro di essere oramai in piena rivoluzione scolastica, e che stesse per capovolgersi il mondo. Fra questi poi, che formavano la plebe di quel popolo, e quelli che primeggiavano, s’agitava, fremeva tutta una schiera di maestri e di maestre di mezza levatura, ch’eran pieni fino al gozzo di idee, di propositi, di collere e d’ambizioni, ma che non osavan parlare: e costoro si sfogavan piano coi vicini, disapprovando tutti gli oratori, e all’uscita, rabbiosi di non aver avuto il coraggio di domandar la parola, afferravano gli amici e li intronavano per delle mezz’ore. L’uscita era sempre rumorosa: davanti alla chiesa e per le strade intorno si formavan dei crocchi in cui le discussioni continuavano, e si ripetevano qualche volta le disapprovazioni e gli applausi. In questa confusione, la mattina del secondo giorno, il Ratti vide la maestra Galli che lo salutò sorridendo, e sparì tra la folla, prima ch’ei la potesse raggiungere, e un altro giorno s’imbattè nel maestro Calvi, insaccato nel suo vecchio pastrano sgualcito, con un gran fascio di carte sotto il braccio, e la faccia scontenta. Il giovane lo salutò; ma quegli appena gli rese il saluto, e, scrollando il capo, disse con un sorriso di compassione amara: — Non hanno idee! non hanno idee! — e se n’andò, curvo sotto il carico delle sue.
A metà della settimana s’era già formata in quella moltitudine una rete fitta di amicizie e di relazioni, come fra gli abitanti stabili d’un paese. Gli oratori più brillanti eran segnati a dito per le strade, e passavano in mezzo a un mormorio di curiosità; eran già conosciuti tutti i maestri d’ingegno, che s’erano acquistati una piccola celebrità nella stampa scolastica come propugnatori valorosi della causa; conosciute le maestrine conferenziere e scrittrici di Torino; cercati e interrogati certi maestri e maestre rurali, diventati famosi per avventure strane e persecuzioni subite, che avevan fatto il giro dei giornali; attorniati e festeggiati tre o quattro maestri vecchissimi, celebri per i loro sessant’anni di servizio e le loro medaglie, e citati ad esempio nei discorsi delle occasioni solenni. E a tutti questi disputavano l’attenzione pubblica sei o sette maestre bellissime, che andavano in volta per la città dalla mattina alla sera. Già a molti erano stati messi dei soprannomi che tutti ripetevano: la regina di Saba, a una maestra di quarant’anni, vestita teatralmente, con certi galloni d’oro sul petto; il pastorello d’Arcadia a un oratore mellifluo; a un altro Napoleone il Grande; Confucio, ad uno che aveva citato parecchie volte le scuole elementari chinesi. Tutta quella gente s’era rimescolata: le brigate del giorno dell’arrivo s’erano in gran parte disfatte, e se n’eran formate delle nuove, seguendo l’età, l’indole, le simpatie; gruppi di vecchi e di vecchie; drappelli di maestrine e di maestri di vent’anni, ai quali grillava il cuore e il cervello; conciliaboli di ragionatori perpetui; comitive allegre che andavano a far colazioni e merende per i colli circostanti, e ritornavano in città la sera canterellando, con dei fiori all’occhiello. E ciascuno conformava il suo modo di vita alle condizioni della propria borsa. Molti insegnanti di campagna facevano i loro pasti con un po’ di pane e frutta e dormivano nei letti messi a loro disposizione dal Municipio in scuole e luoghi pii, in maniera da poter ancora riportare a casa dieci o dodici lire delle venticinque che eran loro assegnate. Gl’insegnanti cittadini, invece, invadevano i caffè e le trattorie, dove ferveva un’allegria rumorosa fino ad ora tarda. E qui il Ratti passava la sera per studiare fin d’allora i suoi futuri colleghi di città, non potendo però seguire mai il filo d’un discorso in quella tempesta di voci, in cui risonavano mille volte le stesse parole: — ordine del giorno — chieder la parola — protesta — proposta — programmi — asinerie. Veramente, a lui sarebbe piaciuto che certe sue colleghe non parlassero tanto forte per far sentire la bella frase e la bella pronunzia; certe arguzie che sentiva, gli parevan freddure trite di collegiali; e lo urtavano gli sguardi di disprezzo che certe maestre eleganti lanciavano alle maestre rozze, le quali pure si facevano in là con atto ossequioso per ceder loro il posto, e le stavano a sentire con ammirazione, altere, si vedeva, e confuse insieme d’esser colleghe di quelle signorine così ben vestite e così colte. Ma pensava poi a quanto era costato a quelle povere ragazze quel po’ di posto a Torino per cui si pavoneggiavano. Che dura trafila, Dio buono! Tre anni di scuola normale, due anni di servizio di tirocinio, fra i diciott’anni e i venti, gratuito; un esame di concorso per il posto di maestra supplente; tre anni di servizio di supplente con seicento e cinquanta lire di stipendio; e dopo tre anni di supplenza un altro esame di concorso per il posto di maestra effettiva, e ancora quattordici anni di servizio di maestra effettiva per diventar maestra inamovibile; e infine, dopo trent’anni di servizio, la pensione intera, ossia, tanto da strascinare senza troppo grandi privazioni gli ultimi anni della vita; ma dopo che lunga serie di fatiche, di prove vinte, di dispiaceri, di pericoli di perder tutto per un nonnulla! E pensando a questo, scusava ogni cosa.
In quel gran numero di maestri, alcuni attirarono in special modo la sua attenzione, e quella di molti altri: degli originali che godettero in quei pochi giorni d’una specie di celebrità amena, la quale si sparse poi per tutto il Piemonte. Una era una maestra di villaggio, sui trentacinque anni, bionda come un’albina, con due occhi d’allucinata, trasandata nel vestire: un prodigio di fecondità letteraria, ch’essa aveva rivelata fin dal primo giorno a un desinare, leggendo una interminabile poesia. Costei aveva bisogno di scrivere come di respirare, e non le importava nè che nè come; la creazione artistica era per lei quasi una funzione naturale dell’organismo; essa scriveva senza interruzione da quindici anni; s’era portata con sè un grosso baule pieno di manoscritti, e n’aveva lasciato quattro a casa; scriveva in prosa e in verso tutto quello che vedeva, che udiva, che pensava, che leggeva, che sognava; aveva fatto la biografia d’un’amica in tremila versi sciolti, scritto duecento pagine di resoconto di conferenze in quattro giorni, improvvisate delle descrizioni dei dintorni della città da metterne insieme un volume. Dall’età di venti anni, passava regolarmente tre notti su sei a scrivere, e si rovinava la salute; ma quanto più deperiva, e tanto più scriveva, e tutte le volte che poteva, leggeva, leggeva per dell’ore filate senza riprender respiro, fin che le sue amiche domandavan pietà, o s’addormentavano, o fuggivano, o svenivano; e ciò che toglieva il ridicolo a questa sua monomanìa, era il sapersi da tutti che, al suo villaggio, essa faceva la maestra con zelo, guadagnava qualche cosa scrivendo discorsetti, poesie e brindisi di commissione, e con questi suoi miracoli di operosità, e lesinandosi il pane, manteneva tre sorelle. Un altro originale era un maestro di campagna, al quale avevan messo il soprannome di Cesare Cantù, perchè rassomigliava a questo moltissimo; a parte l’espressione dell’ingegno. La sua virtù principale, anzi unica, il suo conforto, la gloria della sua vita era una facoltà visiva di straordinaria potenza, ed egli era venuto alle conferenze per farne pompa. E ne dava saggio da per tutto, per le strade leggendo insegne di botteghe a grandi distanze, nei caffè leggendo i giornali a dieci passi, a desinare, facendo tirar fuori dai commensali lettere e biglietti di visita, che leggeva da una parte all’altra d’una lunga tavola, con un occhio solo, con gli occhi socchiusi, tentennando il capo, guardando il foglio di sbieco, in tutte le maniere. A ogni proposito tirava il discorso sulla vista per dare accademia, e, come di ragione, attribuiva a questa facoltà un’importanza massima anche nell’insegnamento; tanto che nei suoi ragazzi educava in special modo, anzi quasi unicamente, la vista. Aveva per sentenza — La vista è tutto! — e la sosteneva con una grande quantità d’argomenti, preparati di lunga mano: — Che cosa sarebbe l’astronomia senza la forza della vista? E la paleografia? E l’orologeria? E la miniatura? E tutte le arti di precisione? Che cosa è un soldato senza dei buoni occhi? E che cos’è senza una vista acuta un agente di polizia, un giudice, un diplomatico, che debbono osservare i più piccoli movimenti delle fisonomie, per indovinare i pensieri e i sentimenti nascosti? — Per lui la scienza educativa della vista era ancor nelle fasce, tutto rimaneva da fare, e parlava di scuole e di istituti appositi che si sarebbero dovuti aprire, e di biblioteche di manuali e di trattati che si avevan da scrivere. C’era in fine il più ameno di tutti, un piccolo prete dalle gambe arcate e dalla faccia torta, con certi capelli grigi e irti che parevano spilli, uno spirito vivacissimo e arguto, autore di quasi tutti i soprannomi lepidi che erano in corso, sempre leggermente brillo e saltellante come un Figaro, imitatore abilissimo di voci e di gesti, e cantatore di canzonette francesi, che aveva imparate da ragazzo in Savoia. Al solo vederlo scoppiava l’ilarità da ogni parte; aveva di continuo un crocchio intorno; dopo quattro giorni, conosceva già mezzi i suoi colleghi, salutava tutti facendo l’atto dello schermitore che dà un colpo di punta, si cacciava in mezzo alle maestrine, prorompeva in esclamazioni comiche al passaggio delle più graziose: — Ah! che bella creatura! Ah! che bella gioventù! — facendo scintillare degli occhi di antico servaio; e fumava sigarette, mandava baci agli oratori felici, raccontava a bassa voce, alle cantonate, aneddoti da far sbellicar dalle risa, e soltanto quando i maestri giovani volevano spingere la celia troppo oltre, si faceva serio un momento, e diceva due o tre volte: — Est modus in rebus, est modus in rebus. Poi ricominciava peggio di prima.
Per due o tre giorni il Ratti cercò il suo collega Labaccio; ma non lo trovò. E, riflettendoci, gli parve naturale che non fosse venuto: in quel luogo dove, tra molte glorie, erano pure messe in mostra tante miserie della sua classe, in quel campo di discussioni e d’innovazioni, dov’eran convenute le teste più calde della famiglia, non ci poteva esser lui. Gli dissero poi che c’era un maestro del suo comune, ed egli cercò di questo per aver notizia del suo amico. Capitò male però, in una specie di piccolo Lérica inacetito, sociasta sospetto, e gelosissimo della dignità della sua classe; il quale gli domandò bruscamente, squadrandolo: — È amico di Labaccio, lei? — e fece una carica a fondo contro il collega, un pagnottista, un corcontento fradicio, un rampichino pieno d’astuzie e vuoto di scrupoli, che si teneva coi rossi e coi neri, leccando tutti, che avrebbe razzolato dei quattrini fin nella cassetta della spazzatura delle scuole. Aveva sposato una vecchia patronessa dell’asilo di Stalora, con dieci anni più di lui, ma con la borsa gonfia, s’era fatto far consigliere, braccava la croce. E se ora almeno, ch’era arrivato in cima all’albero della cuccagna, avesse smesso di fare il lustrascarpe! Ma s’era invece perfezionato nel mestiere. Bisognava vederlo. Era arrivato a questo, per apparecchiarsi il terreno alle nuove elezioni, di farsi fare una quantità di cartoncini, su cui disegnava con la penna fiori e uccelli, e metteva iscrizioni laudatorie; e non seguiva più un matrimonio, un battesimo, un funerale, una festa per onomastico in una casa del paese, senza ch’egli mandasse il suo cartoncino, imbrattato d’adulazioni da far vomitare: il paese n’era pieno. E articoletti sopra articoletti, in gloria d’amici e di nemici, e dei gran dieci a scuola, e dei gran discorsi ai premi, per dir che tutto andava a vele gonfie; e con questo, lodi di ispettori, complimenti d’autorità, votazioni d’elogio del consiglio. Una cosa che gridava vendetta, insomma. Il Ratti fece qualche osservazione: era un uomo di cuore, in fondo; egli l’aveva sempre conosciuto servizievole, buono con gli amici. Ma quegli alzò i mazzi. — Eh! mi faccia il santo piacere, — gli rispose; — vuol dire che non l’ha conosciuto. Un uomo di cuore! Non ha visto l’ultimo articolo dell’Avvisatore dove si trattano i maestri di pitocconi, che farebbero meglio a studiare invece di piagnucolare a tutti gli usci, con le mani tese? — Ebbene, egli sapeva da buona fonte che l’articolo era del Labaccio. Un uomo di buon cuore! Un maestro rinnegato che, perchè aveva messo pancia rotonda, tirava calci ai colleghi affamati che gli disturbavano la digestione chiedendo pane! Egli sapeva pure che c’era nel corpo insegnante una forte irritazione contro di lui. — Mi faccia il favore, — concluse, — quando abbia occasione di scrivergli, di dirgli che la smetta.... — e soggiunse con un’occhiata bieca: — se gli preme di morir nel suo letto.
Il Ratti incontrò nei primi giorni anche la maestra Pedani, sola, con un vestito color d’avana che la stringeva come un guanto, e attirava gli sguardi di tutti. Le domandò subito conto degli esami. Era riuscita, ma a scappellotto, con un voto scarsissimo nei lavori donneschi, perchè aveva mezzo sciupata la camicia. Il giovane le fece varie domande che non aveva avuto tempo di rivolgerle a Torino, riguardo alle faccende di Camina, ed essa gli diede un mazzo di notizie. Il sindaco aveva fatto il capitombolo nella quistione della fognatura, il parroco era morto d’un colpo mentre scendeva dal pulpito, era morta anche la moglie del delegato, e questi, diventato anche più secco e più giallo, continuava a passar ore ed ore in fondo al suo orto, immobile su quel certo sedile, e guardato dalla gente che passava con un senso di ribrezzo, come un cadavere imbalsamato. — E il maestro Reale? — domandò il Ratti. — Sempre lo stesso? — Era sempre lo stesso, con la sola differenza che gli era preso un tremito alle mani che non lo lasciava più scrivere, e s’addormentava nella scuola, e i ragazzi gli attaccavano dei burattini di carta alla giacchetta, coi quali usciva per la strada, senz’avvedersene. Da ultimo era andato dicendo per il paese che voleva sfidare il deputato del collegio per una frase che aveva detto in parlamento contro i maestri; e quando il deputato era venuto, tutti s’aspettavano da lui qualche atto scandaloso di violenza; ma egli aveva cambiato idea tutt’a un tratto, e invece di mandargli i padrini, s’era fatto appoggiare una supplica al ministero con cui domandava un sussidio. Quanto alla signora Gamelli, alla letterata, disse la Pedani col sorriso sprezzante d’un sano gagliardo che parli d’un vizioso ammalato, dopo un breve periodo di resipiscenza, era ricaduta nella letteratura peggio che mai. Il nuovo sindaco, a dir la verità, si lagnava ch’ella s’occupasse troppo più delle sue poesie che delle sue alunne, e aveva avuto mezza intenzione di sbarazzarsene; ma era seguito un avvenimento che l’aveva rassicurata da ogni pericolo. Trascurando la scuola, aveva consacrato un semestre a un grande lavoro di ricamo, con un’epigrafe in versi, una maraviglia di finezza e di pazienza, ch’era riuscita a presentare alla regina, a Torino; e la regina avendole mandato in dono un anello, con una lettera del capo della real casa, questo le aveva dato nel paese una tale autorità, che nessuno s’era più arrischiato a molestarla. Il Ratti le domandò notizie di don Bruna. — Eccolo qui! — rispose la maestra, e lo piantò alla sua maniera soldatesca.
Don Bruna appunto veniva innanzi sotto i portici, coi suoi begli occhi azzurri, piccolo e sorridente, e fanciullesco come sempre. L’incontro fu una festa. E fecero a viso a viso, in un’osteria vicina, con un mezzo litro davanti, una di quelle deliziose partite di chiacchiere, che si ricordano per tutta la vita. Non era che poco più d’un anno che non si vedevano, e pareva al Ratti un tempo infinito. Aveva passato delle così liete ore con lui! Ed era felice di ritrovarlo quale l’aveva lasciato, così ingenuo e fresco, come un seminarista di vent’anni che si fosse messo una parrucca bianca. Ebbene, e la casetta? e la polenta? e la stalla? e la nipote? e il nipote? A queste ultime domande egli si rannuvolò un poco. La nipote s’era presentata senza frutto, per la quarta volta, agli esami di patente; l’avevan rimandata in aritmetica; e non s’era scoraggiata, la poveretta, neppur questa volta; ma, pur troppo pareva che quanto più la sua volontà s’ostinava, tanto più s’indebolisse la sua intelligenza. Era arrivata al punto che empiva dieci pagine di cifre per risolvere un problema d’una somma e d’una sottrazione, e che a una domanda di storia rispondeva con una definizione di grammatica, quando appena ci fosse fra le due idee un riscontro materiale di parole. L’abuso dello studio l’aveva ridotta a questo. Sul serio, egli cominciava a temere per la sua ragione. La sua disgrazia, povera creatura, era stata quella fissazione di voler diventare maestra, mentre forse sarebbe sempre vissuta sana e contenta, continuando a badar le pecore, come pareva che il buon Dio avesse destinato! Quanto al nipote, ahimè, la storia non era meno dolorosa. E qui don Bruna abbassò la voce. Quel reciticcio d’un chierichetto, è vero? quell’ombra di giovane tutto timor di Dio, che arrossiva per nulla e aveva sempre le mani giunte sul petto, s’era acceso a poco a poco d’una tal passione per la signora maestra Pedani, che l’aveva condotto a far degli spropositi senza nome. Signor sì, fino a andarla ad aspettare per le scale e a gettarsi ai suoi piedi, fino a passar le notti sotto le sue finestre nel fitto dell’inverno, fino a piangere e a mangiare il cuscino del letto come un ossesso, e a tentar di avvelenarsi con dei zolfanelli. Insomma, le cose erano arrivate a tanto che l’avevan dovuto mandar via, in un altro paese. — Ah! che mondo! — esclamò, cavando la tabacchiera, — ah che miserie!... Ma lei, — disse poi, rasserenandosi a un tratto — il mio bravo Emilio, lei s’è fatto onore! Maestro a Torino, niente di meno! Ah che carriera! che avvenire sarà il suo! Ma io conto ancora d’andar a sentire le sue lezioni all’università, com’è vero che siam qui tutti e due! — E c’era in questi esagerati pronostici tanta sincerità e tanta vivezza di sentimento, che, a suo malgrado, il maestro ne fu scosso come da una profezia credibile, e godè a sentirsela ripetere per la strada, quando accompagnò il suo piccolo prete all’albergo.
Ma tutte queste cose gli fecero molto minor senso in quei giorni di quello che in tutt’altro tempo gli avrebbero fatto, poichè ogni sua impressione era come soverchiata dal ricordo del suo incontro con la maestra Galli, al quale ritornava di continuo col pensiero. Ma tra per la confusione, che cresceva sempre, poichè ogni giorno seguitava ad arrivar nuova gente, e un poco per volontà di lei, non gli riuscì più d’intrattenerla. La vide altre due volte alle conferenze, molto lontana da lui, seduta in una cappella laterale, e tutta attenta agli oratori, con quella bella espressione della bocca, che, quand’essa ascoltava, rimaneva un poco aperta, come un bocciuolo di rosa allargato dal dito d’un bambino; la incontrò poi sotto i portici in compagnia d’altre maestre, ch’ei non conosceva, e una volta la trovò sola; ma gli sfuggì, dicendo che era aspettata. Certo, lo sfuggiva di proposito. Ma il sorriso con cui lo salutava era sempre quello che gli aveva fatto la prima volta, voltandosi indietro, un sorriso nuovo, nel quale c’era più che dell’amicizia, quasi una carezza, la fioritura di tutti i ricordi comuni, una promessa vaga, un pensiero dell’avvenire, di cui pareva che le sfuggisse, contro il suo volere, il segreto. Ed ora, pensandoci, egli non la vedeva più che con quel sorriso. E ne poteva ben vedere di più giovani e più belle, dei visi dai quali pure traspariva la bontà, la vita onesta e operosa e l’amor dell’infanzia; ma essa gli pareva più giovane di quelle, la bocca più bella era sempre la sua, nessun’altra ragazza poteva aver sofferto altrettanto, nessuna aveva la sua forza d’animo, nessuna amare i fanciulli e onorar l’ufficio suo quanto lei. E Torino oramai lo attirava principalmente per cagion sua. Una immagine gli si presentava mille volte: un quartierino al quarto piano, anche in una di quelle vie strette della vecchia città dove s’era sentito mozzare il respiro la prima volta che c’era andato dal villaggio, una piccola tavola, su cui avrebbero ammontato da una parte i lavori delle alunne, dall’altra quelli dei ragazzi, e mangiato insieme tutti i giorni il pane onestamente guadagnato, e una finestra alla quale si sarebbero affacciati l’uno accanto all’altro, le sere di primavera, dopo una giornata di fatiche, e dove, udendola parlare di suo padre e delle sue bimbe, egli avrebbe potuto osservare uno per uno, per delle ore, gli infiniti movimenti dolci, infantili e risoluti della piccola bocca, che espandeva in parole così nobili e sensate l’anima sua.
Una volta, però, fu distratto violentemente da quei pensieri, e fu alla chiusa dell’ultima conferenza, quando pronunziò un discorso d’addio il provveditore MegáriFonte/commento: normalizzo. Le ultime parole ch’egli disse, col sentimento vigoroso e l’accento squillante dei suoi anni migliori, risonarono nel silenzio profondo della chiesa affollata, come le benedizioni ispirate d’un sacerdote — ....Ritornino a casa i giovani rianimati dall’esempio di tanti vecchi che tengono ancora alta con vigor giovanile, dopo mezzo secolo di fatiche, la bandiera della scuola, e i vecchi, riconfortati dalla vista di tanta gioventù che si prepara con nuovo animo e nuovi studi a seguire l’esempio loro. Tornate all’opera vostra, o giovani maestre, a cui la patria ha commesso il santo ministero di madri dei suoi figliuoli, di nutrici delle sue più care speranze. Tornate tutti al nobilissimo ufficio di seminare ogni giorno nel vostro paese un sentimento generoso e un pensiero benefico. A voi non solamente l’ufficio di sradicare l’ignoranza e le superstizioni; ma quello di confortare la povertà, di rallegrare l’infanzia che non ha carezze, di tener viva la speranza d’un miglior avvenire nel popolo; a voi di mandare per mezzo dei fanciulli una parola di pace nelle famiglie discordi, il richiamo dell’affetto ai genitori che non amano, la voce della patria ai suoi nemici o ai suoi figli incuranti. Tornate con animo risoluto a difender la dignità del vostro ufficio, a sopportare le ingratitudini, a resistere alle inimicizie e alle persecuzioni immeritate, forti di questo pensiero, che la più grande felicità concessa all’uomo è quella che vien dalla coscienza di far del bene senza compenso, e che nessuno ne può far più di voi; che ogni ora del vostro lavoro ignorato è un benefizio all’umanità; che il più povero, il più incolto, il più oscuro di voi, l’ultimo gregario di codesto bell’esercito che combatte senza tregua il più funesto dei nemici e vince senza sangue la più feconda delle battaglie ha diritto al bacio della patria e alla benedizione del mondo. Addio, valorose fanciulle, veterani venerandi, giovani soldati, avanguardie ardite e gentili dell’età nuova! All’opera tutti, e vi possa seguir la fortuna come vi segue l’anima mia!
Un grido di tutti scoppiò all’ultime parole, e si poteva dir davvero in quel momento che cittadini e rurali, vecchi e giovani, contenti e malcontenti avevano un’anima sola. Quel grido si ripetè a notte sotto la tettoia della stazione, dove il MegáriFonte/commento: normalizzo salì sul treno con centinaia di maestri che partivano per Torino. E il giovane Ratti assistette, commosso, a quello spettacolo da un finestrino d’un vagone pien di gente, mentre dal finestrino accanto sporgeva il capo la maestra Galli, che partiva con lui. E le ultime parole del provveditore gli risonavano in mente. Sì, egli apparteneva ad un esercito, e poteva andar altero d’appartenervi. Quest’esercito aveva dei difetti, ma erano i difetti del suo paese; era mal armato e mal nutrito, ma ciò tornava più a sua gloria che a sua vergogna; e c’eran nelle sue file dei soldati inetti e pusillamini, come in tutti gli eserciti; ma, nel nome di Dio, c’era anche una legione d’eroine e d’eroi, davanti ai quali qualunque più nobile fronte si sarebbe potuta scoprire. Ed egli n’aveva conosciuti, e chi sa di quanti echeggiava la voce in quel momento attorno a lui. Sì, il MegáriFonte/commento: normalizzo aveva detto il vero: nessuno al mondo poteva far maggior bene di loro, e non c’era felicità più grande di quella del far del bene. Egli si ricordava allora dei momenti più felici della sua vita, ed eran quelli in cui aveva avuto coscienza di quella verità. E il suo antico ardente amore dell’infanzia gli risaliva a ondate impetuose nel cuore, mentre fissava gli occhi davanti a sè, sul viso della sua amica silenziosaFonte/commento: anche in ed. 1890, che quell’amore gli aveva espresso e trasfuso nell’anima tante volte con così belle e fiammeggianti parole. I due affetti si confondevano ora in lui in un solo ribollimento luminoso di pensieri e d’immagini, che lo sollevava. E pensava a quando l’aveva vista appoggiata al terrazzino, con lo sguardo fisso all’orizzonte, come se le apparissero già lontano le migliaia di fanciulle che l’aspettavano negli anni avvenire, e a cui avrebbe consacrata oramai tutta la sua vita....
E anch’egli vedeva i suoi ragazzi, e quelli di tutti i suoi colleghi delle conferenze, e quelli di tutti gli insegnanti d’Italia, una moltitudine che copriva la vastissima campagna punteggiata di lumi, ondeggiando fin dove arrivava lo sguardo ed empiendo il cielo d’un mormorìo immenso d’oceano, milioni di piccoli visi e di piccole mani che si tendevano verso di loro, e chiedevano luce, bontà, protezione, amicizia; ed egli prometteva questo e lo giurava dal più profondo dell’anima, ingigantita in quell’ora da un sentimento di paternità che abbracciava tutta la nuova generazione della sua patria. E la sua amica doveva pensare alle stesse cose: essi si guardavano tratto tratto, e pareva che si scambiassero il doppio ordine di pensieri e di sentimenti che li agitavano: e finiron a conversare in quel modo, senza staccar lo sguardo l’uno dall’altro, accendendosi a vicenda in quella grande immaginazione dell’infanzia, e nei loro piccoli ricordi comuni, e nella speranza d’una vita nobile, utile e felice, piena di lavoro e d’amore. Quando il treno arrivò, le loro labbra tremavano, i loro occhi avevano una lagrima, le loro anime traboccavano e si cercavano. Le centinaia di maestri saltaron giù dai vagoni, gettando un ultimo grido d’evviva, ed essi rimasero un momento soli. Tutti e due a un punto si guardarono intorno, misero tutti e due insieme un Ah! profondo, come se dalle loro bocche fuggisse l’anima, e si scambiarono un bacio disperato. Poi saltaron giù ed arrivarono ancora in tempo a veder la testa bianca del provveditore, il quale dal montatoio del vagone rivolgeva un ultimo addio alla folla ondeggiante, tendendo il braccio verso Torino, nell’atto vigoroso d’un generale che sguinzagli l’esercito alla battaglia.
Fine.