Il podere (Tozzi)/XIX
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XIX.
Il primo lunedi del mese, a Siena, fanno la fiera del bestiame; fuor di Porta Camollia. Sino dalla sera avanti, Picciòlo non lasciava più Remigio, dicendogli:
— Dia retta a me, almeno una volta. Mi mandi a comprare un vitello. Non si spaventi della spesa; basta un vitelluccio.
Remigio, alla fine, acconsentì. Il contadino gli prese tutte e due le mani, e ci mancò poco non gliele baciasse.
Il lunedì mattina, si vestì come per andare a una festa; insugnò le scarpe nuove e si cambiò la camicia. Con sé portò Moscino. Pareva un altro: la contentezza lo ubbriacava; e camminava a testa alta; anzi, all’indietro, perchè su non gli ci voleva stare. Moscino si mise perfino la ciarpa, portando in punta a una spalla la giubba; e dondolando le braccia.
Quando arrivarono fuor di Porta Camollia, dopo aver dovuto attraversare tutta la città, la fiera era cominciata da parecchio tempo. Il prato a sterro, dinanzi alle prime case del Borgo, era pieno fino in fondo: i bovi e i vitelli pigliavano tutto il mezzo: i cavalli e gli asini erano legati alle file degli alberi, da una parte; i maiali grufolavano lungo il muro del Tiro a Segno. I contadini e i mercanti entravano tra i mucchi dei bovi; mentre altri, a campanelli, dove c’era più posto vuoto, stavano fermi; discutendo e contrattando per ore e ore di seguito. Per lo più, ai carri erano legate quattro o cinque paia di bovi; o pure un branco di vitelli, con la testa e la fronte coperte di fronzoli rossi. I vitelli si bicciavano e si pestavano, perchè non sapevano moversi o perchè, volendo divincolarsi e sciogliersi, davano a dietro mugliando. Allora, chi li aveva in consegna, tirava la funicella e li legava più a corto.
Fin quasi mezzogiorno, i bovi continuarono ad arrivare. Pareva che non potessero trovare più posto; ma, invece, si aprivano una specie di viottolo che, a un certo punto, si riempiva e restava chiuso. Ed ecco che, lì accanto, altre bestie seguitavano a passare affrettandosi. Altre, vendute, erano portate via, e dovevano fare giri lunghissimi; e, qualche volta, non potevano andare avanti trovandosi serrate da ogni parte. Una voce, risoluta, diceva:
— Pigliate di qua!
Un’altra gridava:
— Dovete tornare a dietro! Di qui non si passa!
La prima voce gridava più forte:
— Pigliate di qua: date retta a me!
Altre voci, allora, gridavano, tutte insieme, bestemmie e insolenze; e nessuno intendeva più niente. Ma chi menava le bestie si faceva largo come poteva; finché non era fuori della fiera; e, a non sentirsi più pigiato, respirava a bocca larga.
Cani randagi, per lo più bastardi, spersi dai contadini, andavano in cerca del padrone, avvicinandosi sempre con sospetto; pronti a voltare la testa e a scappare a una accoglienza cattiva. Quando trovavano un seccherello di pane, lo mangiavano; dimenando la coda ritta, senza piegare le gambe di dietro e con il muso giù.
C’erano bovi montigiani, di pelame candido e liscio, con gli occhi turchini e pelosi; le corna piccole; alti e lunghi. C’erano quelli maremmani di pelame scuro e anche tutto nero; con le corna grosse e grandi. Parecchi avevano un campano attaccato al collo; con una fibbia di cuoio.
Tutta la fiera faceva un ronzìo sempre eguale, che opprimeva; un ronzìo fitto come la polvere sospesa nell’aria, come fosse immobile. La fila degli alberi era piena di cicale, che non si stancavano mai. Qualche volta, uno scoppio di voce, oppure una parola sola, chiara e distinta, seguita dal silenzio o da schiamazzo incomprensibile. Ora si sentivano i campani in mezzo al prato, come rinchiusi dentro il fittume degli uomini e delle bestie, con suoni soffocati e strascicati; a un certo punto, invece, un campano più forte che continuava per un pezzo, come se facesse chetare tutti gli altri; o parecchi campani sparsi per la fiera, e ora se ne sentiva uno e ora un altro, sempre eguale e riconoscibile.
Su la stesa delle groppe si levavano le corna. Le mosche coprivano il collo e la giogaia dei bovi, mettendosi fitte fitte attorno all’orlo degli occhi; attaccandosi, ostinate, con le ali lustre e iridescenti. Quando una volava via, restava una goccia di sangue, come una punta di ago, sul pelo.
Per qualche secondo, a una ventata placida, il brusìo doventava fruscio più forte e più distinto; mescolato ai muggiti.
Qualche volta, quando un compratore si portava via un maiale dal branco, legandolo per una delle zampe di dietro, le strida si sentivano per tutta la fiera; e in quel punto si alzava un polverone che accecava.
Tutte quelle corna e quelle groppe, brulicavano. Sui carri, le donne, tenevano le funicelle delle bestie, avvoltolate ai polsi, con le fruste in mano, sotto grandi ombrelle d’incerato verde. Poi, quando i loro uomini tornavano d’aver visto la fiera e d’aver parlato con i conoscenti, si mettevano a mangiare.
All’entrata del prato, alcune baracche vendevano coltelli, falci, pietre rotaie, forbici da potare, barili nuovi.
Un uomo, ventruto, si scalmanava, battendo la mano aperta su le stoffe che egli teneva con il pugno dell’altra mano, sopra alla testa. Un cantastorie, aiutato dalla moglie, stonava e storceva la bocca per far ridere; accompagnandosi con un’enorme chitarra unta. Era magro e grigio; e, corrugando la fronte, faceva andare avanti e indietro il cappello a staio. La donna, più piccola di lui, rossa in viso, aveva i capelli d’un biondo bianchiccio, tenuti fermi con una sola forcella di ottone che faceva gola a tutte le contadine. Quando doveva alzare la voce, per non fare stecca, spingeva in avanti il buzzo e piegava un ginocchio. Ed ambedue, cantando, guardavano con gli occhi fissi di là dalla gente, come fuori di sé e assorti.
Le ragazze, tenendosi i gomiti su le spalle l’una dell’altra, con tutto il peso del loro corpo, ascoltavano ridacchiando, pigiate in mezzo ai giovinotti; senza impermalirsi di certe parole che andavano a dirle loro dentro gli orecchi. Quando una aveva indolenzite le spalle dal braccio di un’altra, le smoveva perchè le cambiasse di posto. Erano vestite a festa, e ci stavano così volentieri che quelli della loro famiglia dovevano tirarle via per le braccia.
Lì accanto, un giovane con i baffi biondi e le basette lunghe, vendeva le aringhe di un barilotto da dove le prendeva con la punta di uno stecco.
Da Siena venivano le frotte dei contadini che erano stati a mangiare nelle bettole, urtandosi, gridando e burlando qualcuno che aveva bevuto troppo e barcollava. Alcuni s’erano fatti accompagnare, per la prima volta, a trovare le ragazze; in un vicolo immondo come un moscaio.
A quelli che stavano chi sa perchè immobili, guardando sempre la stessa cosa, magari la ruota o la punta di una coda, il sole faceva storcere il viso e aprire la bocca. Erano persone che stavano lì, insieme, accanto, da ore e ore, e non s’erano mai detto né meno una parola; guardando soltanto quando uno di loro gridava a un bove che stesse fermo o smettesse di grattarsi. Il sudore rigava giù il viso acceso come se bruciasse.
I mercanti più conosciuti giravano dove c’erano le paia più belle, portando i bastoni agganciati a una spalla o al collo.
Picciòlo si trovò un poco perso; ma sapeva che un suo conoscente doveva aver portato un branco di vitelli; e, perciò, senza perdersi d’animo, cercò subito di lui. Moscino lo seguiva, inciampando tra le sue gambe, sbattendo la testa nella sua schiena; perchè non sapeva dove andava e camminava voltandosi a guardare attorno. Finalmente, proprio nel mezzo della fiera, dove il bestiame era così fitto che per moversi bisognava prima far scansare le bestie, lo trovò. Gli dette la mano e si mise a gridargli:
— Mi devi vendere un vitello da farmici onore.
Il venditore gli disse:
— Qui ce ne sono trenta, tutti miei; scegli.
Ma Picciòlo gridava ancora senza vedere niente; gridava che se non gliene dava uno proprio da amico non gli avrebbe parlato più. Quello, mezzo assordito, lo allontanò; prima con le braccia e poi puntandogli il bastone sul petto. E gli disse:
— Scegli, t’ho detto. Per ora i migliori non li ho condotti. Vuoi una bastonata sul capo?
Ma Picciòlo non l’udiva. Allora, quegli lo prese per la camicia e lo portò davanti a un vitello dei più piccoli.
— Eccolo! Lo vedi? Questo devi comprare! È inutile che tu perda tempo a guardarne altri.
— E quanto costa?
— Mi darai venticinque napoleoni.
Picciòlo si picchiò la testa, e restò senza fiatare.
— E quanto vuoi darmi?
— Lasciamelo prima vedere.
— Fai il comodo tuo.
Picciòlo lo guardò in bocca, aprendogliela con le mani.
— Di bocca, mi piace.
Poi gli tastò la testa dove aveva due bitorzoli teneri e caldi più della carne, che sarebbero doventati le corna. E chiese:
— Ha nessun difetto?
— Nessuno: te lo garantisco.
— Fammi vedere come cammina.
Il venditore sciolse il vitello, e gli fece fare qualche passo.
— Mi pare che la gamba destra di dietro la mandi un poco infuori.
Il venditore fece un grido:
— Che hai detto? Questa bestia è fatta con il compasso e con il pennello. In tutta la fiera non ce ne ha uno eguale. Fossero tutti gli altri vitelli come lui!
Picciòlo restò soprapensiero, e poi disse:
— Quanto hai detto che vuoi?
— Te lo devo ripetere?
— Sì, perchè non me lo ricordo.
— Venticinque napoleoni.
— Fossi pazzo! Ah! non se ne fa di niente! Arrivederci!
E se ne andò; ma, per quanto girasse, non ne trovava un altro. Allora, finse di ripassare di lì per caso, come se volesse tirare di lungo; mettendosi, dalla parte del venditore, il cappello su l’occhio. Ma quello lo fermò, poggiandogli il bastone sul collo:
— Dove vai?
— Voglio andare a casa.
— E il vitello non ce lo porti?
— No, no!
— Piglialo per ventitre napoleoni, e falla finita. Che Sant’Antonio gli tenga gli occhi addosso. Se lo merita, povera bestia!
— Te ne do venti.
Allora si misero a gridare:
— Ho detto ventitre.
— E io venti.
Stettero zitti, guardandosi negli occhi, ansando; e, poi, ricominciarono:
— Dammene ventidue. Per meno, non te lo dò anche se mi dovesse morire.
— Te ne do venti.
— Ne voglio ventidue. Piglia il vitello.
Lo sciolse, e mise la fune nelle mani di Picciòlo.
— Portalo via.
E dette una bastonata al vitello; che fece un salto, portandosi dietro Picciòlo.
— Facciamo ventuno.
Il venditore si mise a bestemmiare; ma siccome Picciòlo stava lì fermo, gridò:
— Piglialo per ventuno. Sono centocinque lire.
— Il mio padrone te lo pagherà, com’è d’uso, tra dieci giorni; se il vitello non ha nessuna malattia.
— Sta bene!
E si dettero la mano.
Era un vitello slattato da pochi giorni, macilento e debole; uno di quei vitelli che portano di marenna, a branchi; e debbono fare trenta o quaranta miglia di strada; per lo più, di notte. Aveva le unghie nere e ancora tenere; e un muso troppo piccolo, di bestia che ha patito. Arrivò alla Casuccia tutto sudato, con il pelo che gli s’arricciava su i fianchi. Picciòlo lo aveva tirato con una cavezza al collo, perchè a mettergli la nasiera sarebbe stato presto; e Moscino gli aveva rotto più di una frusta nelle gambe perchè camminasse. Tordo disse.
— Avete comprato un capretto?
E fece una risata. Allora, Berto scese subito di casa e si mise a girare attorno al vitello; per compassionarlo.
— O come fate a farlo mangiare? Questo muore da qui a una settimana.
Picciòlo era addolorato e si raccomandava che stessero zitti; Moscino li avrebbe presi a sassate, benchè fosse mortificato più del padre.
— Vedrete che, quando ha succhiato qualche paiolata di semola calda, non si riconosce più. Ora è stanco! Certo, se gli dessi l’erba, gli farebbe sciogliere il corpo! Ma ci penserò io! L’ho comprato io, e l’assisterò io, se il Signore e sant’Antonio benedetto sono contenti che il padrone ci possa guadagnare quando sarà cresciuto.
— Ma questo non cresce! Non vedete che pelame brutto ha? Pare scabbioso.
— È la fame che ha patito. Che doveva mangiare i sassi?
— Lo vedremo!
Il vitello faceva qualche sgambetto, ma poi restava anche più mogio: e i suoi occhi lagrimavano come se non fosse stato sano. Tentava di leccarsi i fianchi, e Picciòlo gli disse: — Vieni con me nella stalla: ti riposerai e poi mangerai.
Il vitello puntò i piedi dinanzi: e, per portarlo nella stalla, Picciolo dovette avvolgersi la fune alle braccia e tirare con tutta la sua forza; ma, se Moscino non lo avesse spinto di dietro, con una spalla, non si sarebbe mosso. Tordo e Berto stavano lì a sghignazzare. Picciòlo diceva:
— Ci vuol pazienza come con i ragazzi. Vedrete che tra un mese non riderete!
Ma Lorenzo s’ebbe a male di quegli scherzi; e a suo padre disse:
— Voi siete fatto a posta per far divertire la gente! Ma se ci fossi stato io, si chetavano tutti! A me, invece, questo modo di fare m’è venuto a noia!
— Io sono vecchio, e se ne approfittano.
— Un’altra volta, mandate a chiamare subito me.
— E ti vorresti compromettere per niente?
— State zitto! Se no, mi fate arrabbiare sul serio anche voi!
Picciòlo, intanto, aveva già fatto fare da Dinda un beverone caldo, con la semola; portò il paiolo giù nella stalla e lo mise sotto il muso del vitello. Ma il vitello ci si avvicinava e poi faceva uno scatto indietro. Picciòlo si disperava, quasi piangeva. Poi, posò il paiolo su la paglia e si mise a grattare con le unghie tra le corna del vitello, per fargli il solletico; poi, gli accarezzò il collo e si mise a fischiettargli. Ma la bestia non capiva, e si tirava addietro.
— Sant’Antonio benedetto! Se tu non mangi, mi spacco la testa alla mangiatoia.
Anche Dinda andò nella stalla; s’annodò il fazzoletto sotto il mento perchè non le scivolasse, abbracciò al collo il vitello e lo trascinò verso il paiolo.
Disse il contadino:
— Tutto sta che l’assaggi!
— È quello che penso anch’io. Tu alza il paiolo.
Allora, Dinda gli ci ficcò il muso. Il vitello, da prima, cercò di sfuggire; ma, poi, fece una sorsatina.
— Oh, se Dio vuole, comincia a dare retta!
— Bevi, bevi, grullino!
E il vitello bevve quasi metà del beverone. Ma pareva che volesse ruzzare e faceva schioccolare la lingua.
— Tra una mezz’ora, si scalda un’altra volta l'acqua; e vedrai che allora la finisce. Tu, intanto, vai a tagliare un poco di granturchetto, di quello più tenero; ma le cime soltanto.
— Lo so da me.
Dinda prese il falcino e andò.
Allora Picciòlo si guardò attorno, per assicurarsi che era solo; prese la testa del vitello e gli baciò gli occhi:
— Devi mangiare, e non farmi ammalare di passione!