Il nostro padrone/Parte seconda/VIII
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VIII.
Il marito di Zoseppedda accettò la proposta di Bruno, ma passarono alcune settimane prima che Marielène potesse farsi restituire i quattrini che ella aveva prestato a forti interessi. In quel frattempo Bruno disse più di una volta che forse, prima di acquistare la casa, avrebbero dovuto ancora pensarci su: ella non capiva quest’indecisione di lui, e le sembrava che egli fosse un po’ sofferente e nervoso.
Ma col cessare del caldo Bruno parve rianimarsi, e quando si fece l’atto di vendita della casa si mostrò contento, soddisfatto del buonissimo affare concluso.
Non aveva più riveduto Sebastiana, e gli sembrava di non pensar più a lei. Sopravveniva l’autunno, ed egli scendeva raramente in paese, occupato com’era a dirigere il lavoro dei carbonai toscani arrivati da poco. Si costruivano i forni per il carbone, e non era tempo da pensare a cose inutili. L’immagine di Sebastiana si allontanava sempre più da lui, come velata dalle prime nebbie autunnali.
Marielène coi suoi due pensionanti passò subito nella nuova casa, ancora sprovvista di mobili; e fin dal primo giorno chiamò le sue vicine dalla finestra, invitandole ad entrare ed a prendere il caffè con lei.
La maestra non nascondeva la sua invidia, ma la dimostrava in modo enfatico, guardandosi attorno e sospirando.
— Tu sei ben fortunata, Marielène mia! Però devo dirti che lo meritavi. Tu lavori e sai quello che vuoi; sei come la rondine che costruisce il suo nido nel paese adatto per lei.
Marielène sorrideva di gioia, e Sebastiana la guardava e, cosa insolita in lei, taceva: solo quando la rivale le fece vedere la sua camera da letto, disse scherzando:
— Anche noi fabbricheremo: Predu Maria venderà i palazzi che possiede al suo paese e ci faremo una casa coi balconi di ferro....
— Sarà molto se riusciremo a fabbricare il muro dell’orto, — disse la maestra che non era vanagloriosa. — Chi ama far lusso, figlia mia, non fabbrica palazzi.
— Lusso, lusso! Ebbene, figùrati, Marielène, mia madre vorrebbe che io andassi scalza!
— Eh, ragazza mia, di’ la verità; ti piacciono sos bellais...1, — disse Marielène trattandola come una bimba, ma con ironia ed anche con lieve disprezzo.
— Che vuoi, non son vecchia come te, per pensare sempre a cose serie.
Da buone vicine esse continuarono a farsi visita, salutandosi dalla finestra e rendendosi spesso qualche servigio.
Marielène comprava mobili e si procurava altri pensionanti. Quasi tutti i professori del ginnasio, giovani scapoli, andarono ad alloggiare da lei; ed ella dovette prendere una serva, che disgraziatamente non corrispondeva all’ideale di cameriera decorativa sognato da Bruno. Brutta e insolente, se i professori la pregavano di dettar loro qualche canzonetta in dialetto, o di spiegar loro l’etimologia di qualche vocabolo sardo, la serva credeva lo facessero per burlarsi di lei e li insultava chiamandoli «forestieri morti di fame» o «mendicanti».
Un giorno, dopo aver litigato con la padrona, scappò senza dar tempo a Marielène di cercare un’altra serva. Sebastiana s’offrì ad aiutare la sua vicina; servì a tavola, corretta ed elegante come una vera cameriera, destando l’ammirazione dei giovani professori; ed invece di ingelosirsi, Marielène pensò che con una donna di servizio come Sebastiana la fortuna della pensione sarebbe aumentata rapidamente. Ma Sebastiana non poteva più far la serva: si sarebbe offesa al solo proporglielo.
Una sera Bruno scese a Nuoro e trovò sua moglie irritatissima perchè la seconda serva, una ragazza molto bella ma inetta al servizio, aveva rovesciato l’oliera addosso ad uno dei professori. La ragazza, sfacciata e beffarda, diceva con disprezzo:
— Tanto quello era così sporco che una macchia in più non gli fa gran danno....
Ma il capo‐macchia non ammetteva che una serva si permettesse tanta libertà di giudizio, e appena ella fu uscita egli interruppe Marielène, che si lamentava e quasi piangeva, e le disse:
— Meno chiacchiere. Mandala via.
— Son tutte eguali, — disse Marielène, affaccendata davanti ai fornelli. — Esse non son buone che a mangiare ed a menar la lingua. Esse non sono cristiane, sono assassine.... Ne ho conosciuta una sola che, come serva, valeva qualche cosa: Sebastiana.
Bruno, seduto davanti al camino acceso, si mise a ridere, col suo riso languido che cessava presto come quello d’una persona stanca.
— Ho detto come serva, intendiamoci. L’altra sera è venuta ad aiutarmi, ha servito a tavola. Domanda come sono rimasti contenti. Io vorrei proporle di aiutarci.... compensandola....
Egli ripetè meravigliato:
— Venne qui.... servì a tavola.... Tu vorresti?...
— Sì, ebbene, che c’è da stupirsi? Che è diventata una dama, adesso? È forse vergogna lavorare? Ed io non lavoro? E tu non lavori? Se ella accettasse.... magari! Tu stesso dicevi che ci occorreva una serva svelta, bella.... che in continente tutti pretendono che le persone di servizio sieno svelte, di bella presenza.... Io vorrei proporre a Sebastiana, per non offenderla, di diventare una specie di socia....
Egli taceva, immobile e impassibile; ma ad un tratto si scosse e disse infastidito:
— Tu non sai quello che ti dici.... Finiscila, lasciami in pace.
E siccome ella continuava, egli si alzò e uscì sbattendo l’uscio; ma più tardi, quando rientrò, le parlò con dolcezza, cercando di farle smettere la sua idea strana.
Predu Maria non avrebbe mai permesso a sua moglie di servire in una pensione; e anche lei, Sebastiana, così civetta, amante del lusso, si sarebbe certo offesa nel ricevere una simile proposta.
Marielène disse:
— Oh, per lei, ne son certa, accetterebbe. Ella non fa altro che lamentarsi perchè sua madre la tiene come una schiava, e non le dà un centesimo di quel che guadagna Predu Maria, e quasi le fa patire la fame. Ella vorrebbe, se non altro, poter mangiare come mangiano i cristiani.
— Ella si lamenta? — domandò Bruno pensieroso.
— Ella non fa altro che lamentarsi.
Durante l’inverno, ogni volta che egli scendeva in paese, Marielène lo tormentava con la storia delle serve, e il progetto di associarsi la giovane vicina diventava in lei un’idea fissa.
Una sera egli le disse:
— Ma non sei ancora scottata, Elena? Non ricordi le vicende di Sebastiana?
— Ella è un’altra adesso. Ha marito, è diventata seria, onesta.
Ma egli non ne era persuaso; e ogni volta che vedeva Sebastiana gli sembrava che ella lo guardasse come una donna onesta non osa guardare.
Un giorno, in dicembre, ella salì alla lavorazione per coglier ghiande. Predu Maria l’accolse con gioia pacata, rifiutandosi però all’ingiunzione un po’ scherzosa, un po’ insolente di lei, di coglier lui le ghiande.
— Tu te ne stai lì come un papa in trono, — ella disse, cacciandosi in bocca, per riscaldarsele con l’alito, le punte delle dita riunite. — Io devo dunque congelarmi? Son già mezza morta, non vedi?
— Sentila! Ella dice che è mezza morta. Ha l’aria di un’agonizzante? — domandò Predu Maria a Bruno.
Il capo‐macchia li guardò entrambi e disse gravemente:
— State bene tutti e due!
Infatti Predu Maria s’era ingrassato e aveva preso un aspetto da pacifico rivenditore di generi alimentari; mentre Sebastiana, sottile nonostante il panneggiamento della tunica d’orbace avvolta artisticamente attorno al suo busto, col viso colorito dall’aria fredda dei monti, sembrava l’immagine della giovinezza. Ella perdette molto tempo a chiacchierare ed a scaldarsi al fuoco sotto la tettoia, scherzando e imitando comicamente l’accento ed i gesti dei pensionanti di Marielène; ma quando ella accennò al progetto della sua vicina di casa, Predu Maria corrugò le sopracciglia e disse che se i professori volevano essere serviti a puntino potevano prender moglie, poichè soltanto la moglie può esser capace di servir bene un uomo.
— Se gli vuol bene.... — disse Bruno; e Sebastiana aggiunse con dispetto:
— E anche quando non gliene vuole.
Ella intanto se ne andò a raccogliere le ghiande, senza troppo affaticarsi, mentre Predu Maria preparava il desinare. La giornata era limpida e fredda: sul cielo d’un azzurro intenso, quasi verdastro, sopra la linea bianca dei monti lontani, il sole calava luminoso e triste, e intorno ai tronchi morti, come intorno a tombe dimenticate, rinascevano i ciclamini e le vitalbe.
Erano sparite le raschiatrici di scorza e i lavoranti paesani; ma attorno ai forni del carbone, che erano grandi buche ricolme di legna accesa e ricoperte di terra, e negli sfondi melanconici del bosco umido, passavano le figure dei carbonai toscani. Vestiti miseramente, biondastri, con gli occhi chiari e il viso terreo, essi non erano nè più allegri, nè più vivaci dei «lavoranti» indigeni, ma si movevano con più sveltezza e pareva avessero fretta di terminare il lavoro e di andarsene. Il fumo saliva lentamente dai grandi focolari coperti, di cui non si scorgeva il fuoco ma si sentiva il calore. Le capanne attorno alla dispensa eran state ricostrutte, e ogni carbonaio aveva con sè il paiuolino per la polenta ed altri utensili primitivi: la lavorazione sembrava un accampamento di zingari.
Sebastiana raccoglieva le ghiande e pensava che un giorno Bruno era giunto così dal suo paese, come uno di quegli straccioni che sembravano sbucati di sotterra. Sì, ella ricordava: non più tardi di due anni prima.... egli era arrivato ancora col suo fagotto e il suo ombrellone.... E adesso eccolo lì, non più vestito di fustagno ma di panno, con stivaloni e cappello a larghe falde: eccolo, egli ha già preso un’aria da speculatore e sembra diventato il padrone della foresta. Ella sente un vivo rancore contro di lui, ma è il rancore della donna per l’uomo indifferente ai suoi vezzi.
Eppure, al contrario dell’altra volta, quel giorno egli le si avvicinò, e accettando l’invito di Predu Maria mangiò assieme con loro. Chiacchierarono delle solite cose, della pensione, dei pensionanti, di Marielène che lavorava giorno e notte, della maestra Saju che rinfacciava a Sebastiana di non lavorare come la sua vicina di casa....
Appena finito il pasto, Sebastiana si alzò per andare nel bosco e finir di riempire di ghiande la sua corba, e siccome si affrettava, quasi affannata, per paura che sua madre la sgridasse, Bruno le disse:
— Ma sarebbe tempo che tua madre finisse di trattarti come una bimba. Io suo genero non permetterei tanto.
— E tu non permetti a tua moglie di lavorare fino ad ammalarsi?
— Prenditi questa! — disse Predu Maria, e rise.
— Mia moglie? Ma appunto, mia moglie fa quello che le pare e piace!
— Ah, essa ha del fegato!
Bruno accese la sua pipa e rispose, stringendo il bocchino coi denti:
— Oh, certo, essa ne ha!
— Il fegato l’abbiamo tutti! — rimbeccò Sebastiana, fissando il capo‐macchia: ella aveva lasciato cader la sua tunica, e col suo corsetto rosso e turchino, con le sue linee provocanti, sembrava una forma di bellezza e di luce venuta a rallegrare quei luoghi desolati e freddi. Bruno la seguiva con gli occhi mentre ella tornava nel bosco, e vedeva come una nuvola rossa danzargli davanti; e si domandava come mai Predu Maria, dopo tanti giorni di solitudine, non correva come un pazzo dietro a quella donna che era sua.
A un tratto, come spinto da una forza misteriosa, egli si alzò e si avviò, seguendo le traccie di Sebastiana. Gli sembrava di sentire il profumo di lei, di seguire un filo che ella avesse lasciato dietro di sè. La vide da lontano, curva a raccoglier le ghiande, su per una china soleggiata, dove l’erba invernale stendeva larghe macchie vellutate simili a pellicce verdastre. Le ghiande cadevano dagli elci scuri come grosse goccie d’oro bruno, lasciando sui ramoscelli le piccole coppe filogranate.
All’avvicinarsi di Bruno, Sebastiana si sollevò e apparve di profilo sullo sfondo luminoso dell’orizzonte. Egli si tolse di bocca la pipa, la vuotò, se la rimise in saccoccia. La sua mano tremava. E nel salire l’erta, svelto come il daino che raggiunge la sua compagna, sentiva un’ebbrezza ignota e gli sembrava di esser un altro, un uomo potente e felice: ma appena Sebastiana disse:
— Predu Maria non viene? — egli si fermò, combattuto fra il desiderio di abbracciarla e la paura di quello che poteva succedere.
Ella indovinava i sentimenti di lui: scoppiò a ridere e disse con voce alquanto turbata:
— Perchè mi guardi così? Aiutami, piuttosto, poichè Predu Maria non vuol curvarsi! È tardi e devo andar giù. — Si curvò di nuovo, cercando le ghiande fra l’erba e le foglie secche; e accorgendosi che Bruno continuava a guardarla, ma timido e inquieto, sollevò il viso e rise ancora, provocante.
— Anche tu hai la schiena debole? Se non mi aiuti, che stai a fare? Sei incantato? A che pensi?
Egli cercava le parole per farle almeno sapere che pensava a lei. Trasse la pipa e la riaccese, ma dopo aver aspirato due o tre boccate di fumo, se la tolse nuovamente di bocca e disse come fra sè:
— Sono incantato.... sì.... sì.... ma la colpa è tua, perchè sei troppo bella....
Soddisfatta, ella si mise a ridere e lo guardò; ma lo vide così triste e tragico in viso che ebbe paura di averlo offeso.
— Che faccia hai! — gli disse, dolce e beffarda, — ti offendi, se rido?
— Ridi, ridi pure! Mi piaci quando ridi.
— E quando piango, no?
— Tu non sei nata per piangere, Sebastiana: sei nata per ridere....
— Sei tu che mi fai ridere! (gli si avvicinò, ma non rideva più). Tu ti burli di me; senti! Io sono nata per ridere? Oh, t’inganni, fiore mio! Io sono nata con la mala sorte sulle spalle.
Egli le afferrò una mano, fissandola negli occhi con uno sguardo profondo, pieno di tristezza e di desiderio.
— Sebastiana, — le disse, dimenticando per un momento la sua prudenza ed i suoi calcoli, — tu non dovevi sposare quell’uomo....
— E chi dovevo sposare, allora? Tu non mi volevi! Ricordati quella mattina che ti ho aspettato mentre venivi quassù! Tu non mi hai domandato se ti volevo bene: mi hai domandato se era vero che Marielène voleva sposarsi.... Tu volevi denari.... non volevi amore....
Ella non aveva finito di pronunziare l’ultima parola che lo vide impallidire, spalancare gli occhi atterrito e contorcer le labbra come masticando qualche cosa d’amaro e disgustante. Un gemito rauco gli uscì come dal profondo del petto. Spaventata ella lo afferrò per le braccia, lo scosse e lo aiutò a sedersi sopra un sasso.
— Bruno? Bruno? Che hai?
Egli chiuse gli occhi e strinse le labbra, lottando contro il male che lo aveva assalito all’improvviso, e a poco a poco il suo volto si ricompose, ma restò soffuso di una tristezza profonda. Quando si fu del tutto riavuto, riaprì gli occhi e guardò Sebastiana, come se la vedesse appena in quel momento, mentre ella, piegata davanti a lui, pallida e tremante, gli accarezzava la testa come ad un bambino, e mormorava atterrita:
— Bruno? Bruno? Che è stato? Dimmelo, anima mia....
— Niente.... un capogiro.... è passato.
— Tu stai male e non vuoi dirmelo! Ed io ti ho offeso! Andiamo, Bruno; ti coricherai.... prenderai qualche cosa....
Egli la guardava, con gli occhi ancora velati e pieni di terrore; e vedendola così eccitata si alzò e fece alcuni passi per rassicurarla.
— Non tremare così, — le disse, con accento quasi duro. — Non è nulla, ti dico! E se mi vuoi bene davvero non dire a nessuno che mi hai veduto così.
Ella non rispose, ma le sue labbra si sporsero, tremanti come quelle d’un bimbo che sta per piangere. Egli le si aggirava attorno a testa bassa, come vergognoso della sua debolezza, e infine le si riavvicinò e le domandò sottovoce:
— Ma è vero che mi vuoi bene? Sì? Dici di sì? Anch’io, Sebastiana.... da tanto tempo!... Ci rivedremo: adesso ti devo lasciare. Non parlare di me con nessuno; non dire che sono malato.... che sono infelice....
Si allontanò, e Sebastiana si rimise a raccoglier le ghiande, piangendo d’amore e di tristezza. Le sue lagrime cadevano sull’erba come la rugiada del mattino. Di tanto in tanto ella si passava la manica della camicia sugli occhi, ma più le asciugava, più le lagrime sgorgavano abbondanti: ella non ricordava di aver mai pianto così, e dovette appoggiarsi ad un albero, tanto una commozione ignota e profonda la vinceva. Le sembrava d’aver tutto ad un tratto avuto la rivelazione di cose che ignorava. Come le apparenze ingannano! L’uomo che ella aveva creduto forte e felice s’era piegato davanti a lei come uno stelo esile pronto a spezzarsi. E anche Predu Maria, e anche Marielène si credevano felici! Oh, essi non sapevano.... ed ella piangeva anche per loro, per la loro infelicità, e le sembrava di essere buona, molto buona, perchè soffriva; e non si accorgeva che invece lo era perchè amava.
*
Sì, Predu Maria ingrassava e aveva l’aspetto d’un uomo contento; ma non era felice e non s’illudeva di esserlo. Il rimorso non lo abbandonava, e più egli si sentiva accarezzato dalla fortuna, più se ne credeva indegno.
Partita sua moglie, dopo la raccolta delle ghiande, egli riattizzò il fuoco, sotto la tettoia, osservando che il capo‐macchia era livido in viso e con gli occhi cerchiati come da striscie d’inchiostro.
— Avvicìnati al fuoco, diavolo. Hai freddo, o stai male?
— Sto poco bene davvero, — disse Bruno, sedendosi accanto al fuoco: e rimasero a lungo assieme, parlando dei loro affari, e nessuno dei due si lamentava, ma il viso di Bruno diventava sempre più azzurrognolo e triste, e pareva che i suoi occhi riflettessero la desolazione del crepuscolo montano: e di tanto in tanto anche Predu Maria si curvava per rattizzare il fuoco, sospirando, e finalmente disse, battendosi le mani sulle ginocchia:
— Ti dico la verità, io fra me e me penso qualche volta: Bruno è uno stupido, a far questa vita.
— Perchè?
— Perchè sì! Tu hai una bella casa, un’industria bene avviata; tu potresti startene in città, al caldo, in compagnia di tua moglie. E invece, per un po’ più di quattrini, tu passi una vita da forzato. Sei come certi ricchi proprietari che si ostinano a soffrire tutte le intemperie per guidare il loro gregge, invece d’affidarlo a un buon servo.
— Io non amo l’ozio, lo sai; che farei, a casa?
— Quello che fanno i signori!
— Io non sono un signore, e se lo fossi lavorerei egualmente.
— Ah, io no, caro mio! A che serve? Tu accumuli, accumuli, vedi, come io ammucchio queste legna sul fuoco: tu credi di aver fatto qualche cosa e invece, vedi, in un attimo tutto si sfascia e diventa cenere....
Bruno rispose, calmo e ostinato:
— Bisogna lavorare, bisogna lavorare.
— Va in buon’ora! Se avessimo figli, non dico: ma Dio non ce ne manda.
— Potrà mandarcene.
— E aspettali! — disse Predu Maria, riprendendo il suo accento ironico. — Ah, ti dico, s’io fossi al tuo posto!...
Bruno non rispose, ma ripetè fra sè:
— S’io fossi al tuo posto!
Seguiva Sebastiana col pensiero; la vedeva scendere il sentiero umido della montagna, nel crepuscolo verdastro, con la tunica avvolta attorno al busto flessuoso, e il viso fresco e colorito come una rosa di macchia.... Come la desiderava, adesso che era lontana e il desiderarla non portava pericolo! Egli non aveva mai amato, e tutti gli ardori e le tristezze di una passione da adolescente rendevano più intenso il suo desiderio.
Col calar della sera i carbonai ritornavano verso le capanne, e accendevano il fuoco e preparavano la polenta: le loro ombre danzavano sul suolo e sulle roccie rischiarate dalle fiamme, nere e gigantesche come ombre di ciclopi, e Predu Maria ricordava la notte dell’incendio, e come al solito, recitava il rosario per scacciare le ombre del suo pensiero. Da qualche tempo era tormentato dal desiderio di accumulare una somma per soccorrere Antoni Maria caduto in miseria. La nonna, suggestionata dalle nipoti, riteneva quest’ultimo colpevole dell’incendio, e pur continuando a mandargli a casa il pranzo, non lo aiutava in altra maniera. Una notte la questura, dietro lettere anonime delle cugine Moro, aveva assediata la casupola del sambuco, sorprendendo Antoni Maria a fare l’acquavite; e le botti e i lambicchi erano stati sequestrati, e lui condannato ad una multa feroce.
Predu Maria si riteneva la causa indiretta dello stato di miseria in cui adesso versava il suo amico. Ma come accumulare i denari per aiutarlo? La suocera non gli lasciava un centesimo, ed egli non le dava torto. Se fosse rimasto libero.... Basta; egli si batteva le mani sulle ginocchia, e pensava che il nostro destino è tutta una concatenazione di eventi di cui il più piccolo in apparenza è spesso il più importante in realtà. Inutile ribellarsi, inutile cercar di spezzare la catena. Dio sa quello che fa: cerchiamo di pentirci dei nostri errori e soffriamo, soffriamo, perchè questo è il nostro destino....
- ↑ I gingilli.