XV.

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XIV XVI
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XV.


«Vostra madre sta male, e desidera vedervi. Venite.

Don Anselmo Dorello.»


Cesare si sentì mancare le ginocchia. Poi, accasciato sulla poltrona, si mise a piangere dirottamente. Elena era lì presente, immobile, sembrava commossa anche lei. Per la prima volta, dopo tanto tempo, gli prese il capo fra le braccia, e se lo strinse al seno, in silenzio. Il poveretto, in quell’ora nera che gli si stringeva addosso, sentì scendersi al cuore quella pietà come un’amara dolcezza. La guardò cogli occhi lagrimosi, balbettando; [p. 285 modifica]

— Mia madre, Elena! mia madre, Elena!

— Vengo con te — diss’ella. — Voglio venire anch’io.

Arrivarono al paesello verso l’alba. Le finestre della casa paterna lucevano ancora. Attraversarono le stanze in disordine, cogli usci spalancati, pei quali passavano i pianti della famiglia, l’odor vago dell’incenso, delle candele di cera, e della morte. Don Anselmo, tutt’ora ornato dalla stola nera, venne loro incontro, sbarrando l’entrata colla sua persona, e in quell’istante solenne abbracciò il nipote, senza dir motto, lo portò quasi di peso sul vecchio canapè, in mezzo alle sorelle che piangevano.

— La volontà di Dio! — disse il prete, pallido anche lui. — In ogni cosa c’è la volontà di Dio.

Elena, in quella desolazione, rimaneva come obliata in un cantuccio, si sentiva che era la sola estranea a quel dolore. Chi si occupò di lei fu lo zio canonico, colui dal quale l’era stata mossa la guerra più aspra, quasi ora la [p. 286 modifica]morte avesse dissipato ogni rancore, gli avesse data una lezione severa di carità e di perdono.

— Siete tutti figli miei, — diss’egli. — L’ho promesso a quella poveretta.

Nel paese fu una sorpresa generale. L’argomento di tutte le conversazioni, lo stupore di coloro che tenevano il canonico per un uomo di carattere, e non avrebbero mai creduto che si lascerebbe abbindolare dalle moine della Napoletana, la forestiera che avrebbe dissipato i risparmi di don Alselmo, avrebbe mangiato le speranze delle cognate, per ecclissare le signore del paese col suo lusso. Un maturo benestante che faceva la corte dalla finestra ad una delle sorelle di Dorello non si fece più vedere. Lo zio Luigi, al quale delle anime caritatevoli erano corse a dare l’allarme, arrivò all’improvviso, tutto sottosopra, commosso sino alle intime viscere dal timore che suo fratello il canonico potesse essere rapito al suo affetto da un momento all’altro, come la cognata. — Quando la morte picchia ad una casa non si [p. 287 modifica]contenta di così poco. — Il sangue gli parlava nelle vene, il sangue stesso di don Anselmo, il quale aveva accumulato una bella sostanza, e doveva rammentarsi del sangue suo, prima di disporre in favore dei nipoti, e di gente estranea per soprammercato, che aspettava la sua morte per scialarla coi suoi denari. Il paese intero diceva la stessa cosa. Nella spezieria e nel Casino non si parlava d’altro che del lusso di Elena, dei suoi ricevimenti principeschi, delle sue dozzine di cappelli, — aneddoti, pettegolezzi, maldicenze. La signora Brancato, la signora Golano, tutte, andarono a farle visita in gala, seguite da certi servitori insaccati in livree a colori vivaci, impastoiati in guanti bianchi di cotone.

Elena sembrava tornata ai bei tempi della Rosamarina. La morte che aveva colpito come un fulmine, il lutto che si era stretto attorno alla famiglia, l’aveva riaccostata intimamente e sinceramente al marito, di cui sentiva essere il solo conforto, quasi una cara e dolorosa memoria vivente delle amarezze che gli era [p. 288 modifica]costata. Cesare non le aveva detto nulla, ma ella l’indovinava ai suoi tristi silenzi, agli occhi che gli si gonfiavano di lagrime, quando le stringeva commosso la mano, scrollando il capo, e pareva volesse dirle:

— Dimentichiamo! dimentichiamo!...

Una delle sorelle, nell’espansione disperata delle lagrime, aveva detto che la mamma non s’era più riavuta dallo spavento quando il canonico aveva scoperto la vendita segreta del sommacco e l’affare del vaglia mandato a Cesare di nascosto. Sembrava che zio e nipote avessero sempre dinanzi agli occhi quelle parole, e non potessero guardarsi senza ricordarsene.

A poco a poco nella famigliuola andavasi facendo la calma del dolore, si riprendevano tristamente le abitudini della vita, l’intimità era meno silenziosa ma meno stretta. Il prete tornava alla sua chiesa e ai suoi poderi. Cesare aveva dovuto fare una o due gite alla città per affari, quantunque fosse l’epoca feriale.

Le ragazze ricominciavano ad occuparsi di [p. 289 modifica]faccende domestiche. La vita li ripigliava, li distraeva, li separava, ognuno per la sua strada. Dopo pranzo la Barberina, la quale prima col ricordo soltanto del suo nome, faceva gonfiare gli occhi di lagrime, chiamava alcuni istanti di allegria schietta, di vera festa domestica, colla sua innocente serenità, colle sue monellerie da bambina viziata. Nelle carezze le fronti si spianavano, delle risate gioconde tornavano a risuonare nella vasta stanza piena di tante memorie tristi.

Elena godeva anch’essa di quei piaceri intimi, della gioia tranquilla, di quell’esistenza raccolta. Colla volubilità estrema della sua natura le pareva che fossero passati dei secoli dal tempo delle feste mondane. Provava una soddisfazione raffinata, un contrasto piccante, nell’evocare i sogni romanzeschi come cose lontane, nella fantastica contemplazione della natura, nell’azzurro del cielo, nel violetto delle montagne lontane, nella pace dell’ora silenziosa, nel cinguettìo volgare delle dame colle mani rosse che andavano a trovarla. [p. 290 modifica]

Il barone si era fatto sposo con una delle più ricche damigelle di Avellino, e venne a far visita anche lui — sorpresi entrambi di trovarsi tanto mutati. Elena sapeva ormai per esperienza che anche nelle sale sdegnose della grande città l’eco di una sostanza colossale ha sempre una grande importanza. Egli aveva viaggiato e aveva lasciato qua e là un po’ della sua pinguedine e molto del suo denaro. In cambio aveva riportato dei vestiti di un sarto in voga, le maniere distinte, il frasario convenzionale dei saloni, la disinvoltura e l’impertinenza della sua ricchezza. Elena ne fu piacevolmente impressionata, quasi lusingata, come ciò fosse opera sua, pel lievito che aveva lasciato la sua memoria in quel mezzo contadino. E per quanto fosse padrona di sè, per quanto volesse persuadersi sinceramente di non aver più un pensiero che non fosse per suo marito, era troppo donna per non lasciarglielo indovinare. Don Peppino dal canto suo era abbastanza incivilito per non accorgersene, per non fondarci sopra mille castelli in aria, aiutandoli [p. 291 modifica]colle chiacchiere sentite in caffè, dinanzi al banco del farmacista, nello studio del notaio. Egli aveva raccolto, come gli altri del paesello, i pettegolezzi che correvano sulla riputazione dell’Elena. Alla sua primitiva ammirazione ingenua per la cittadina, gonfiata nella disoccupazione del paesello, si mescolava adesso un sapore più acuto, l’immagine della sua nuca bianca, dei suoi occhioni grigi, le carezze della sua voce, il ricordo delle sue civetterie innocenti, il desiderio delle sue labbra rosse. Il poco che ella gli aveva accordato s’ingigantiva e si inaspriva ora al sorgere di tutte quelle memorie, gli pareva che ella fosse stata qualcosa per lui, gli avesse lasciato come una promessa. Ma tornando a farle visita, ogni volta, si trovava di nuovo impacciato e timido; sentiva ingigantire il suo desiderio all’ostacolo che incontrava in sè stesso; continuava ad esprimerle la sua ammirazione bramosa con una riserbatezza esitante che aveva l’attrattiva del pudore. La donna ricominciava a sentire un piacere mascolino nell’indovinare tutte coteste [p. 292 modifica]impressioni, nel solleticare coteste simpatie, nel provocare la confessione di questi sentimenti, come un seduttore raffinato gode nell’assaporare il turbamento che mette nell’anima d’una giovinetta, per l’attrattiva della novità, per la freschezza della sensazione, pel gusto di destare l’incendio senza lasciarsi scottare, di sfiorare il male senza cascarci. No! stavolta non voleva cascarci! Egli le portava dei fiori, passava delle ore ad adorarla in silenzio. Aveva finito per mandare a monte il suo matrimonio. Tutta Altavilla avrebbe potuto credere che era l’amante di Elena. Ma ella non gli aveva dato la punta di un dito. — No, neppure la punta di un dito.

— Perchè avete rotto il matrimonio? Sapete, non mi piace! No: siamo amici, sentite, ma niente dippiù! No!

Don Peppino arrivava a piangere di desiderio, di gelosia, di disperazione, baciandole le mani fredde.

— No! No! giammai! Io son maritata.

Poi le crudeltà della civetteria: — Cosa fa[p. 293 modifica]cevate ieri sera in casa Brancato? Non voglio che vi sdolciniate con quella sguaiata della Golano! — Nessuno dei miei amici deve andare in casa Azzari. Buona notte ora, che è tardi.

E tutto il paese, inquieto, geloso, spiava per turno le finestre, si attardava nelle piazze, dai vicini, trascurava gli affari proprii per veder chiaro nella cosa, mandava in visita le donne, corteggiava don Peppino, sperando che cascasse in alcuno dei trabocchetti che gli si tendevano con discorsi insidiosi, che mettevano da lontano al punto controverso interrogava ansioso il volto impenetrabile dello zio canonico, il lume della sua finestra che vegliava su quella di Elena nell’oscurità. Almeno quello era un uomo, aveva la bocca per non parlare, ma aveva pure degli occhi per vedere; non somigliava a quel marito che se n’era andato a dar sesto ai suoi affari di Napoli, senza accorgersi del malanno che gli cascava sul capo ad Altavilla. I più indulgenti dicevano che marito e moglie erano separati di fatto, da un pezzo, e serbavano le [p. 294 modifica]apparenze esteriori per riguardi umani. Elena aveva procurato a Dorello una clientela ricca e numerosa. Egli l’aveva sposata per questo, e faceva affari d’oro a Napoli, senza curarsi d’altro. Si citavano nomi senza fine, date, aneddoti precisi e accertati. Nella spezieria e al Casino non parlavasi d’altro. I curiosi si affacciavano sugli usci allorchè le sorelle di Cesare andavano a messa; le signore allungavano il giro e passavano dalla piazza per vedere se c’era l’Elena affacciata, e scambiare un saluto dalla finestra, e se potevano anche quattro chiacchiere. L’impiegato postale esaminava attentamente ogni lettera che partiva per Napoli all’indirizzo di Cesare Dorello, voltandola e rivoltandola dieci volte per ogni verso, prima di decidersi con un sospirone a metterla colle altre nel sacco della spedizione.

Se incontravano per via don Luigi, con suo fratello il canonico, andavano loro dietro, raccolti, intenti, per cercare di carpire qualche parola dei loro discorsi, e sentire se trattavasi del nipote o di sua moglie. [p. 295 modifica]

Il loro buon istinto non li ingannava del tutto. Lo zio don Luigi andava a cercare ogni volta suo fratello il canonico per dirgli:

— È una porcheria! Non posso più escire di casa dalla vergogna. Tutto il paese non parla d’altro. La roba dei Dorelli andrà in mano di una che ci disonora tutti!

— No; rispondeva il fratello colla sua calma inalterabile. Lascia fare a me. Vedrò io.

E parlava d’altro, evitando il discorso ogni volta che il fratello don Luigi ce lo tirava pian piano, fermandosi a chiacchierare colla gente che incontrava quasi non ci avesse altro in capo, più gentile ed ossequioso che non era mai stato verso il barone.

Ma le ragazze, le quali lo conoscevano meglio, sentivano, malgrado il loro triste raccoglimento, qualcosa di straordinario che pesava sulla casa, ormai vasta e deserta, come un pericolo, una minaccia, che maturava e si accostava lentamente; ed entravano timide nelle stanze della cognata, quelle stanze dove c’erano ancora tante memorie della loro povera [p. 296 modifica]morta, senza osare di fissarvi gli occhi, senza osare di fermarvisi, in presenza della forestiera, nel mutamento che indovinavano senza comprendere.

Una sera don Anselmo, passando dinanzi all’uscio di Elena, picchiò discretamente.

Don Peppino era seduto presso la finestra, e si alzò al comparire del canonico, quasi ci fosse stato un vescovo per lo meno, tutto ossequioso e imbarazzato. Stette ancora un poco, chiacchierando a casaccio col prete impenetrabile e coll’Elena perfettamente calma. Poi si congedò, come fosse sulle spine, e se ne andò un’ora prima del solito.

All’Elena, che glielo faceva osservare con perfetta disinvoltura, in presenza dello zio, appena don Peppino se ne fu andato, il canonico disse sorridendo:

— Son le dieci. Voi credete sempre d’essere a Napoli. Le dieci qui sono un’ora straordinaria.

Stette un momento in silenzio. Poscia le prese la mano, e soggiunse colla sua voce insinuante da confessore; [p. 297 modifica]

— Anzi, ascoltatemi, nipote mia. Certe visite, a certe ore, qui da noi danno nell’occhio. Siamo in un piccolo paese, pieno di pregiudizii, di pettegolezzi, sapete.... Vi parlo come un parente, come un padre, come un confessore. Non ve l’avrete a male.

— No! — disse Elena.

— Lo so, meschinerie, pura maldicenza. Che volete farci? Non chiuderete la bocca ai calunniatori. Don Peppino è giovane, ricco, scapolo.... si dice anzi che abbia voluto rimanere scapolo.... Il meglio è tagliare corto alle chiacchiere maligne, senza scandali, con bella maniera

— Va bene, — interruppe Elena. — Ho inteso.